Varchi n.27

Politically Correct: Pro e contro

Una visione d’insieme su una tematica attuale e trasversale.

Anno quattordicesimo – numero 27 – autunno/inverno 2022
Rivista semestrale di carattere scientifico-culturale
A cura de IL RUOLO TERAPEUTICO DI GENOVA

Hanno collaborato a questo numero:  Giovanni Bruzzo, Paolo Chiappero, Jessica Facoetti, Elisa Gaggero, Marina Montesano, Marianna Pederzolli, Alessandra Penzo, Fabrizio Rizzi, Giovanni Maria Ruggiero, Agostino Tolu, Valentina Trinchero.

EDITORIALE

Partire dalla definizione di “politicamente corretto”, il tema di questo numero di Varchi, diventa doveroso per evitare fraintendimenti.

Allo stesso tempo abbiamo ritenuto doveroso ospitare diverse declinazioni del discorso e diversi contesti in cui si palesa questo fenomeno.

Politicamente corretto è o dovrebbe essere, l’atteggiamento rispettoso nei confronti delle minoranza e dei soggetti più fragili ma, dichiariamo sin da subito, che  per noi ha anche molto a che fare con l’esercizio del potere.

Invocare il politicamente corretto ed il suo omologo in negativo ossia il “politicamente scorretto”, diventa una sorta di livellatore orizzontale calato dal verticale; due linee che si intersecano sul conformismo o qualcosa di molto simile. Conforme  che, come ci ricorda Karl Popper <<Mette tutti coloro che non detengono il potere in una sorta di comfort: il comfort dei senza potere>>.

Andando oltre: chi decide cosa è politicamente corretto ed  è ancora possibile una politica del dissenso?

<<L’uomo di oggi reagisce alle mutate condizioni non opponendosi agli urti bensì facendosi massa, massificandosi>> ammoniva Montale.

Il politicamente corretto ed il conforme, diventano quindi una sorta di illusione inclusiva: non lasciare indietro nessuno con la conseguenza di non permettere l’emersione di alcunchè. Ci domandiamo  allora se il cercare di tenere dentro tutto e tutti, fino all’estremismo dato dall’annullare anche i pronomi di genere  (“schwa” definito un suono neutro per un linguaggio più inclusivo) può fare davvero la differenza?  Forse il rispetto verso l’altro non passa attraverso facili innovazioni linguistiche dell’ultima ora e non si tratta nemmeno di “bon ton”, ovvero di regole anacronistiche utili a chi non sa come comportarsi.

Il rispetto e l’inclusività oggi sono temi sui quali occorre rinegoziare soluzioni non banali per evitare di risultare ostili verso qualunque tipo di unicità.  Quindi ben venga il tentativo di cercare accomodamenti, intese, accordi,  o in altre parole “prove generali di inclusività”,  che possono dare l’idea di un laboratorio in movimento che lascia ben sperare per il futuro.

O ancora si ritiene che dire invece ciò che risulta ai più politicamente scorretto sia semplicemente il modo più efficace per rivendicare la libertà di espressione tralasciando il pensiero e soprattutto i contenuti del pensiero stesso? Ancora una volta si tralasciano i contenuti setacciandoli sotto la lente della dicotomia corretto/scorretto. Tutto ciò a scapito del messaggio che viene minimizzato quasi quest’ultimo cadesse all’interno di una trappola comunicativa il cui unico obiettivo è mantenere il controllo. Il mezzo è ancora il messaggio (McLuhan) ed il potere, quello appunto verticale, trionfa.

Spesso in nome della difesa dei diritti e degli interessi di altri si ricerca invece benefici, attenzioni e guadagni per se stessi.

In un’estensione semantica del termine politicamente corretto, troviamo anche neologismi e anglicismi che servono a occultare la realtà o a renderla artificiosamente edulcorata. “Spending review” è sicuramente più rassicurante che l’originale “ci sarà una finanziaria del Governo lacrime e sangue” come si è spesso sostenuto in Italia dal dopoguerra. I disabili sono diventati “diversamente abili”, ma quanto è frutto di un malcelato pietismo e quindi di una distorsione della realtà (vedi l’articolo di Fabrizio Rizzi in questo numero)?

Benefici, attenzioni, guadagni, dicevamo… focalizzarci su un termine (per quanto spesso inadeguato e non rispettoso) può servire, anche in malafede, a “bloccare” la comunicazione sull’antinomia parola x vs. parola y. E il contesto del discorso? E l’insieme delle argomentazioni? E siamo sicuri che valga di più la parola vietata (novello tabù culturale) che l’insieme del discorso? E non c’è il rischio di addentrarci in un discorso “stupido” (vedi il numero 19 di questa rivista: “Stupidità. Cosa succede quando sparisce il pensiero”) cioè dicotomico e dogmatico?

Stiamo facendo gli “avvocati del diavolo”, perché non vogliamo che si disperda un patrimonio politico e culturale che ha generato, in un’ottica di rivendicazione e legittima rivoluzione linguistica, un’attenzione all’uso del linguaggio. Perché siamo convinti che “non regge l’argomentazione secondo la quale le parole non sono importanti, sono solo forma, concentriamoci sulla sostanza” (articolo di Pederzolli e Trinchero in questo numero). Ma siamo allo stesso tempo attenti alle derive autoritarie e censorie che tutto ciò può determinare, così come ad alcune reazioni estremamente violente che, in nome del politically correct, osserviamo nella quotidianità.

Da queste riflessioni sarebbe interessante ripartire per evitare il rischio di precipitare sempre di più in comportamenti ed atteggiamenti cupi e omologati, dove a farne le spese sarebbe anche un grande valore: l’ironia. Lavoriamo insieme quindi per creare un mondo migliore facendoci carico dei disagi altrui ed evitando di dare vita a nuovi censori che hanno l’effetto di creare quello che censurano generandolo per reazione.

In questo numero:
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