Io, Giovanna d’Arco. Alla ricerca di un’identità tra storia e attualizzazioni

di Marina Montesano*

Introduzione

Fra agosto e ottobre al Globe di Londra va in scena una pièce teatrale, I, Joan, che sta suscitando polemiche e dibattiti, ma anche prese di posizione ampiamente positive, come quella del Guardian in diversi articoli. Le polemiche nascono dal fatto che Giovanna d’Arco, la Joan protagonista, viene presentata come transgender e chiamata con il pronome non binario “they”. Ecco come il teatro stesso propone lo spettacolo: «Lo Shakespeare’s Globe è orgoglioso di presentare una nuova opera teatrale, I, Joan, con Joan nei panni di una leggendaria leader che, in questa produzione, utilizza i pronomi “loro”. La produzione debutta il 25 agosto nel Globe Theatre all’aperto. Non siamo i primi a presentare Joan in questo modo e non saremo gli ultimi. Per quanto riguarda l’uso dei pronomi, “loro” per riferirsi a una persona singolare è stato rintracciato dall’Oxford English Dictionary già nel 1375, anni prima della nascita di Giovanna. Comunque sia, i teatri non si occupano della “realtà storica”. I teatri producono opere teatrali e nelle opere teatrali tutto può essere possibile»[1].

Sgombriamo subito il terreno da ogni dubbio: certamente le opere che chiamiamo “artistiche” in mancanza di termini migliori, possono e devono sfidare norme e convenzioni; il riferimento al “tutto può essere possibile” è sottoscrivibile in quanto anche un personaggio reale, qual è stato quello di Giovanna d’Arco, può essere interpretato in modi differenti, non conformi alla ricostruzione storiografica: per quello ci sono i saggi. Dunque, piena libertà artistica, di fronte alla quale tuttavia anche l’esercizio critico è legittimo.

Partiamo allora da una constatazione: il testo di presentazione contiene un riferimento che suona come una giustificazione all’utilizzo del “they” per una singola persona, datandolo al 1375, ossia a un’epoca precedente alla vicenda di Giovanna d’Arco. In un certo senso, questo va a contraddire la dichiarazione successiva circa la “libertà creativa”, radicando invece storicamente la scelta autoriale. Notiamo subito, a scanso equivoci, come il “they/loro” che si è imposto negli ultimi anni si distingua dalla versione della parola usata nella letteratura medievale. L’antico tipo di “they/loro” singolare si riferisce a ogni uomo o a ogni persona, come per esempio nella frase “everyone (ciascuno, neutro) bring their (plurale) own food”, e non ha proprio niente a che vedere con le identità non-binarie.

Ed è qui che emerge il problema, quello che potremmo chiamare un lapsus calami, ma nel senso non letterale bensì psicanalitico dell’espressione: il teatro sente di dover giustificare le scelte degli autori nonostante la dichiarazione sulla libertà. Questo, evidentemente, perché I, Joan va a toccare un tema oggi molto sentito, ossia la polemica tra attivismo trans e femminismo storico, che difatti è immediatamente riemerso anche intorno a questa pièce teatrale. Nel momento in cui si fa di Giovanna un transessuale, a parere di molte e molti, si nega la capacità della donna di trascendere i limiti che l’epoca imponeva loro: in soldoni, poiché Giovanna vestiva da uomo e trionfava in guerra, non poteva riconoscersi nel genere femminile, ma necessariamente in quello maschile. Non è un tema nuovo, perché negli ultimi anni intorno alla figura della Pulzella, come amava chiamare sé stessa, le interpretazioni di questo genere si sono accavallate.

Giovanna, eroina controversa

Prima ancora, però, bisogna ricordare che questo è stato davvero un destino costante per Giovanna d’Arco. Le polemiche tese a definire chi fosse davvero sono a lei contemporanee, ed hanno avuto un riflesso significativo per la storia di Francia e d’Europa nei secoli che separano la sua morte dalla contemporaneità.

Già nel Settecento, Voltaire aveva ironizzato su di lei in un testo, La Pucelle, scritto e rivisto più volte fra 1738 e 1762. All’opera aveva dato lo stesso titolo di quella composta, probabilmente su impulso del cardinale Richelieu, dall’erudito cattolico Jean Chapelain nel secolo precedente, nella quale presentava una Giovanna modello di santità cristiana. Al contrario, la Pulzella di Voltaire è continuamente coinvolta in avventure a sfondo sessuale, ignara di ciò che avviene intorno a lei. D’altra parte, nel Dizionario filosofico del 1764, nel quale trattava la vicenda con maggiore serietà, la faceva passare per una povera campagnola ignorante, pur reputando criminale la sua esecuzione.

Tuttavia, così come l’Ottocento ha conosciuto una lettura opposta del medioevo rispetto a quella dell’età dei Lumi, anche la vicenda di Giovanna d’Arco prende una piega ben differente. Se La Pucelle di Voltaire può servire come emblema della visione illuminista, la Jeanne d’Arc di Jules Michelet rappresenta il simbolo dell’inizio della rivalutazione che conduce ai riconoscimenti degli anni Venti del Novecento. Nata come un capitolo dell’Histoire de France, l’opera venne pubblicata a parte nel 1841; la Giovanna di Michelet è sì un «enigma vivente»[2], come la definisce Michelet, la cui vita viene modellata su quella del Cristo, ma è anche un’eroina che ha per missione la liberazione della Francia; nonostante lo scrittore, comunque un fervente razionalista, si mostri scettico a proposito delle “voci” divine che ne avrebbero ispirato e guidato l’azione.

All’epoca di Michelet, la Giovanna “patriota” cominciava a divenire il simbolo della situazione internazionale, con le tensioni tra Francia e Prussia che sarebbero sfociate nel conflitto del 1870-1871. In questa medesima atmosfera maturava l’inizio del percorso di beatificazione prima (18 aprile 1909), di canonizzazione poi, aperto da un processo a Orléans nel 1874 e durato qualche decennio: nella sola città di Orléans ebbero luogo 280 sedute[3]. Non potendola qualificare come martire, avendo subito di fatto un processo per eresia, furono dunque le virtù religiose a emergere: la verginità, l’assiduità nei sacramenti della Chiesa, la devozione ai santi e la verità dell’ispirazione divina ricevuta attraverso questi. Giovanna era stata insomma un modello di gioventù cattolica, e la canonizzazione derivava da questo. Inizialmente, il processo non poteva ottenere l’accordo degli anticlericali, che dovevano vederla come un’usurpazione; a loro restava il modello tracciato da Michelet, quello di un’eroina della patria, al di là della credulità, reputata inaccettabile.

Nel 1902, inoltre, il Bloc des Gauches, ossia la sinistra repubblicana, aveva preso il potere aprendo una crisi con il Vaticano, culminata in una rottura delle relazioni diplomatiche a partire dal 1905. La crisi si era trascinata durante tutta la prima guerra mondiale, quando d’altra parte era passata in secondo piano di fronte alla tragedia del conflitto; la beatificazione e soprattutto la canonizzazione vanno dunque lette come un modo di riavvicinare la Chiesa, sotto un papato più aperto dei precedenti qual era quello di Benedetto XV, e un governo di Francia tornato in mano alla destra. Difatti, i rapporti con il Vaticano ripresero nel 1921.

Alla luce di queste considerazioni, si può dire che quella di Giovanna d’Arco non è insomma una memoria condivisa: lungi dall’unire la Francia, la spacca in base alle virtù e ai meriti che le si vogliono attribuire, convergendo tuttavia nel conferire un valore alla sua figura. Quasi una “doppia Giovanna”, come si sarebbe visto molto bene anche durante la seconda guerra mondiale, quando la Francia sarebbe tornata a spaccarsi in due fronti, entrambi pronti a rivendicare Giovanna nel proprio albero genealogico. I francesi che combattevano dalla parte dell’Asse nella campagna di Russia, erano inquadrati nella legione Jeanne d’Arc; gli altri, schierati a fianco di Charles De Gaulle, facevano di Giovanna la patrona della Resistenza all’occupazione tedesca.

A Parigi, la statua più nota e importante di Giovanna d’Arco è quella di Place des Pyramides, a due passi dal Louvre. È una statua equestre in bronzo dorato, che la rappresenta a capo scoperto e con l’armatura, mentre alza lo stendardo con la mano destra. Il monumento fu commissionato dal governo francese dopo la sconfitta del paese nella guerra franco-prussiana del 1870-71. È opera di Emmanuel Fremiet, che prese come modella Aimée Girod, adolescente lorenese che proveniva dallo stesso villaggio di Giovanna, Domrémy. Inaugurato nel 1874, la statua è stata spesso usata come luogo d’incontro delle associazioni della destra nazionalista, quali l’Action française e, di recente, il Front National, che dalla statua di Giovanna fa partire la sua consueta marcia del Primo Maggio.

Il 16 maggio 1920, sotto il papato di Benedetto XV, Giovanna d’Arco viene canonizzata. Poco più di un mese dopo, il 2 giugno, la Camera dei Deputati francese, allora dominata dalla destra conservatrice del Bloc National, stabilisce la celebrazione di una festività nazionale del patriottismo in onore di Giovanna. A concludere questa parabola, nel 1922 papa Pio XI la proclama seconda (dopo la Vergine Maria) patrona di Francia. Un finale inimmaginabile quando, il 30 maggio 1431, Giovanna d’Arco era salita sul rogo a Rouen, condannata come eretica relapsa, ossia ricaduta per la seconda volta nello stesso errore ereticale.

L’abito e il genere

Come detto, già ai suoi tempi l’eredità della giovanissima condannata accendeva il dibattito: eretica, addirittura strega per qualcuno, martire per altri, oltre al processo inquisitoriale che si chiuse con la sua condanna, Giovanna ne subì un secondo, postumo. A partire dal 1450 si avviò infatti un nuovo processo, concluso nel 1456 con l’annullamento della prima sentenza: è stato definito un processo di riabilitazione, anche se giuridicamente era un processo di nullità (della prima sentenza). Nel primo processo, anche se attraverso la mediazione di chi metteva per iscritto gli interrogatori, possiamo ascoltare la sua voce. Nel processo inquisitoriale, infatti, non c’è una difesa, dunque fu Giovanna stessa a rispondere alle accuse che le venivano mosse.

Tali accuse sono importanti per comprendere e inquadrare cosa si dibatte oggi. Due sono le questioni intorno alle quali ruota il processo: le voci che l’avrebbero consigliata e l’abito maschile, che in base a un passo del Deuteronomio (22, 5) era proibito alle donne,  anche se l’agiografia e la letteratura cavalleresca medievale presentano molti casi di donne vestite da monaco o da cavaliere, che si fanno passare per uomini, e sono celebrate nel primo caso come sante, nel secondo come personaggi positivi, che ottengono ciò che vogliono attraverso un escamotage perfettamente accettabile. Oltre queste accuse principali, vi erano gli atti compiuti in guerra (attività proibita a una donna) e il culto che le veniva tributato all’apice del suo successo; rispetto a questi due punti, Giovanna negò sempre di aver ucciso, ammettendo solo di esser stata di sostegno alle truppe, e di non aver accettato alcun culto. Più complesso il dibattito sulle questioni principali.

Scopo del tribunale era dimostrare che le voci delle sante Caterina e Margherita e dell’arcangelo Michele che lei diceva di sentire fossero false o ispirate dal diavolo; mentre per l’abito, è evidente la sorpresa dinanzi alla testardaggine di Giovanna che anche in quel frangente rifiutava di riprendere quello femminile. Per entrambe le questioni le sue posizioni erano inamovibili: le voci venivano da Dio, al pari del comando di assumere l’abito maschile. Era la certezza della bontà della sua missione a guidarla nelle risposte, sempre determinate e che lasciavano poco spazio al dibattito, che infatti gira a vuoto intorno agli stessi punti.

La vicenda dell’abito è stata a lungo trascurata dalla storiografia[4], che l’ha interpretato come legato a questioni funzionali: per evitare di indurre in tentazione gli uomini, per proteggersi dagli stupri; ragioni che tuttavia lei stessa non citò mai. È un argomento che è riemerso nelle voci critiche contro I, Joan, un tentativo di banalizzazione della questione dell’abito che evidentemente semplifica agli occhi di molti il perché di una scelta che una determinata interpretazione di Giovanna (l’eroina nazionale) non potrebbe certo vedere di buon occhio.

Solo in anni relativamente recenti si è cominciato a leggere il crossdressing di Giovanna nell’ottica degli studi di genere, chiedendosi se vi fossero implicazioni di natura sessuale, o comunque, un rifiuto della sua femminilità: ma la questione resta aperta.

La storiografia, prevalentemente anglosassone, che si è occupata di Giovanna d’Arco in questi ultimi due decenni in una prospettiva di storia di genere, è stata attratta dai due temi della sessualità e del cross-dressing. Per esempio, Marina Warner afferma: «Attraverso il suo travestitismo, ha abrogato il destino della donna. Poteva così trascendere il suo sesso. Usurpava la funzione di un uomo, ma si liberava completamente dei vincoli del suo sesso per occupare un terzo ordine, né maschile né femminile, ma ultraterreno, come gli angeli dei quali amava la compagnia»[5]. Giovanna, esplicita Warner, è l’androgino. Susan Crane, invece, osserva: «(…) isolando il travestitismo dall’identità sessuale si rischia di assumere sia che l’eterosessualità sia l’unica posizione possibile per Joan, sia che l’autorappresentazione non abbia nulla a che fare con la sessualità – che la sessualità sia innata e precedente alle scelte sul comportamento di genere»[6]; e, prosegue: «Nel caso di Giovanna d’Arco, sostengo, un rapporto intensificato con la legge non produce la sua acquiescenza all’autocorrezione, ma piuttosto il suo persistente sforzo di distinguersi dalla categoria della femminilità così come la intende»[7]. La scelta dell’abito sarebbe insomma rivelatrice anche di una scelta di genere. E si può arrivare fino alle posizioni militanti di Leslie Feinberg e Joan Roughgarden che definiscono Giovanna come «persona trans con identità maschile»[8].

La prospettiva degli studi di genere applicati al caso offre spunti nuovi e interessanti. Tuttavia queste interpretazioni pongono due ordini di problemi: il primo è quello di imporre categorie contemporanee (“transgender”) a una persona e a una società in cui non esistevano (è un problema che Susan Crane si pone esplicitamente); il secondo sta nel fatto che, nonostante le molte testimonianze, non possiamo sapere in che modo Giovanna elaborasse la sua sessualità; e se fosse in grado di farlo, a quell’età e in quel contesto particolare. Certamente una scissione tra genere biologico e genere culturale si può ipotizzare. Di fronte alla domanda, nel processo, se non avesse preferito essere un maschio, Giovanna dice di aver già risposto, ma a riguardo di fatto non ci sono affermazioni agli atti[9]: come in tutte le questioni che attengono l’abito, è profondamente elusiva. Cosa che certo non si può dire a proposito delle voci che riceveva, sulle quali è estremamente più chiara e convinta. Tuttavia, la domanda che le viene posta, sia pure una sola volta, dimostra che alla questione del genere, ovviamente formulata in altri termini, gli inquisitori di fatto pensavano.

Escludiamo dunque che si possa relegare la questione dell’abito a pura strategia. Anche quando non era impegnata in guerra, Giovanna si vestiva da uomo, e non come un uomo qualsiasi. Una lettera documenta il dono di abiti cavallereschi preziosi: una veste vermiglia doppiata di satin bianco con un mantello verde di foggia maschile e aristocratica decorato con orties (fogliami dorati; i colori e le orties erano quelli degli ufficiali della maison d’Orleans), per il costo non indifferente di 13 scudi d’oro escluso il costo delle decorazioni in filo d’oro[10]. Insomma, l’abito maschile si sposa con una condotta cavalleresca, che la mantiene in tale ruolo anche al di fuori dei campi di battaglia. Difatti, e il processo di riabilitazione si guarda bene dal toccare il tema del lusso degli abiti indossati, perché avrebbe inficiato la difesa.

Dunque il tema del cross-dressing di Giovanna inteso come indicatore di una scelta inerente la sessualità non è da bandire. Ci si può chiedere se a un’altra età, in un altro contesto non avrebbero potuto dare adito a una opzione più consapevole. Allo stesso tempo, neppure si può ignorare che lei vedeva e presentava sé stessa come una vergine guerriera, facendosi chiamare “la Pulzella” tema che nel processo di nullità sarà ripreso a suo favore, poiché vi sono esempi di santità di questo tipo. Dunque ci si chiede fino a che punto appiattire il discorso del tempo, anche quello di Giovanna stessa, a favore di una scelta militante attuale, sia opportuno.

Giovanna prima femminista

Si ripete quindi il destino che vuole una Giovanna d’Arco accaparrata da tutte le parti: un tempo era il dibattito politico, oggi quello sul genere, ma sempre con una buona dose di arbitrarietà. Inevitabilmente, questa iscrizione forzata della Pulzella fra le “persone trans con identità maschile” non ha mancato di suscitare l’ira di molte femministe, perché Giovanna è cara al movimento per i diritti delle donne.

Sebbene fosse francese e avesse combattuto contro gli inglesi, Giovanna è infatti divenuta ai primi del Novecento un simbolo soprattutto tra le suffragette britanniche. Dette il nome dell’organizzazione cattolica femminista, la St. Joan’s Alliance fondata a Londra nel 1911, ma fu anche una fonte di ispirazione per la Women’s Social and Political Union (WSPU), il movimento politico di sole donne e una delle principali organizzazioni militanti che si batté per il suffragio femminile nel Regno Unito dal 1903 al 1918. Nel 1911 a Londra la WSPU organizzò una Women’s Coronation Procession durante la quale una suffragetta, Marjorie Annan Bryce, aprì la marcia (circa 40.000 donne provenienti da quasi trenta organizzazioni di suffragio in tutto l’Impero) vestita da Giovanna d’Arco. Poiché le suffragette non rifuggivano a metodi nuovi per il tempo, almeno per le donne, quali lo sciopero della fame e i picchetti, evidentemente trovavano un referente adatto in Giovanna che aveva preso le armi e combattuto in prima persona, pagando con la vita.

Il suo assurgere a simbolo, però, è ben più antico. Nel 1429, dopo le vittorie militari più eclatanti ottenute da Giovanna, sappiamo che Christine de Pizan uscì da un silenzio durato otto anni per comporre i Dithié de Jeanne d’Arc sull’onda dell’entusiasmo per la riuscita delle sue imprese militari. È una testimonianza dell’impatto quasi in tempo reale che le imprese di Giovanna ebbero sui contemporanei. Christine de Pizan è la celebre autrice della Città delle Dame, testo nel quale aveva difeso le donne dalla misoginia del suo tempo, e per questo venne definita da Simone de Beauvoir «la prima donna a prendere la penna in difesa del proprio sesso»[11].

Alla luce di questo pregresso, il sottrarre Giovanna all’universo femminile suscita polemiche e sembra un’ennesima appropriazione da parte del mondo maschile. Peraltro, casi recenti, come le polemiche intorno ad alcune affermazioni della scrittrice inglese J. K. Rowling, hanno portato a pesanti accuse di transfobia e a un abnorme espansione dell’applicazione del “politicamente corretto” nel quale il concetto del “no-platform”, ossia del rifiutare a qualcuna/o l’opportunità di far conoscere pubblicamente le proprie idee o convinzioni, perché si ritiene che queste siano pericolose o inaccettabili, finisce per applicarsi a esponenti del femminismo che sentono di aver ancora molta strada da fare sul cammino della parità reale, e che avvertono oggi ostracismo non soltanto dal “solito” patriarcato, ma anche da esponenti della comunità transqueer.

Evidentemente non si tratta qui, in conclusione, di stabilire chi ha ragione, ma di osservare tre cose: la prima riguarda determinati simboli, come possiamo considerare Giovanna d’Arco, che sembrano destinati a venire interpretati nuovamente in ogni stagione storica; evidentemente non si tratta davvero di un destino e non vi è nulla di deterministico in questo; piuttosto, la trasmissione culturale fa sì che tutti i simboli, per loro natura polisemici, offrano una piattaforma per esprimere le proprie idee.

La seconda, a contrasto con l’idea del simbolo che offre opportunità, sta invece nel voler rinunciare proprio alle opportunità di dibattito, precludendole, e scegliendo per ogni nuova epoca una verità definitiva e inoppugnabile: non è il caso di I, Joan in quanto specifica opera teatrale, certo, ma nel dibattito che si coagula intorno a essa, i danni di una concezione restrittiva del “politicamente corretto” mi paiono evidenti. Infine, la terza riguarda il danno che un approccio ideologico, in questo caso quello del “politicamente corretto”, comporta per la ricerca storica: interpretare implica sempre un certo grado di soggettività; proprio per questo è necessario che colui che interpreta metta da parte spiegazioni prefabbricate e scorciatoie alla moda, per calarsi all’interno delle fonti con la volontà di comprenderle, non di distorcerle per farne un manifesto rispetto a temi e problemi del nostro tempo.

* Marina Montesano: professoressa ordinaria di Storia medievale Università di Messina.


[1] «Shakespeare’s Globe proudly presents a new play, I, Joan with Joan as a legendary leader, who in this production, uses the pronouns ‘they/them’. The production opens on 25 August in the open-air Globe Theatre. We are not the first to present Joan in this way, and we will not be the last. Regarding the use of pronouns, ‘they’ to refer to a singular person has been traced by the Oxford English Dictionary to as early as 1375, years before Joan was even born. Regardless, theatres do not deal with ‘historical reality’. Theatres produce plays, and in plays, anything can be possible» (https://www.shakespearesglobe.com/identity-in-i-joan).

[2] J. Michelet, Histoire de France, t. V, Paris 1841, p. 178.

[3] J. Dalarun, 1429. Jeanne d’Arc délivre Orléans, in P. Boucheron (dir.), Histoire du monde au XVe siècle, Paris 2009, pp. 333-336.

[4] Una storiografia immensa: per questo saggio mi limito ai testi che cito direttamente. Segnalo solo per un primo orientamento l’assai utile Jean d’Arc. Histoire et dictionnaire, éds. P. Contamine, O. Bouzy, X. Helary, Paris 2012.

[5] «Through her transvestism, she abrogated the destiny of womankind. She could thereby transcend her sex. She was usurping a man’s function but shaking off the trammels of his sex altogether to occupy a different, third order, neither male nor female, but unearthly, like the angels whose company she loved»: M. Warner, Joan of Arc. The Image of Female Heroism,New York 1981, p. 146.

[6] «(…)  isolating transvestism from sexual identity risks assuming both that heterosexuality is the only possible position for Joan and that self-presentation has nothing to do with sexuality-that sexuality is innate and prior to choices about gendered behavior»: S. Crane, Clothing and Gender Definition: Joan of Arc, «The Journal of Medieval and Early Modern Studies», 26/2 (1996), p. 297.

[7] «In the case of Joan of Arc, I will argue, an intensified relation to the law produces not her acquiescence in self-correction but instead her persistent effort to distinguish herself from the category of womanhood as she understands it» Ivi, p. 298.

[8] «male-identified trans person» L. Feinberg, Transgender Warriors: Making History from Joan of Arc to Dennis Rodman, Boston 1996, pp. 31-37.

[9] Procès de condamnation et de réhabilitation de Jeanne d’Arc cit., t. 1, p. 66.

[10] Ivi, t. 5, pp. 112-113.

[11] Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano 2016 ebook.