Sul politicamente corretto

di Giovanni Maria Ruggiero *

Il politicamente corretto è un’idea antica. Può sembrare un’idea recente ma recente è solo il nome. L’antichità consiste nell’ossessione etica che è alla base di questa idea, la possibilità che il bene non sia solo una delle tante rispettabili divinità che popolano il cosmo, ma sia l’ente supremo, ciò che da significato al mondo e all’esistenza umana. Esistenza umana che trae il suo senso dal miglioramento etico, dal fatto che essa porta all’inveramento in questa vita della moralità assoluta, quella che impone che non sia fatto a nessuno e a nessuna ciò che non desideriamo sia fatto a noi.

Il patrimonio di una certa cultura contemporanea (ma non di tutta, come vedremo), cultura che è al tempo stesso popolare ed elitaria, diffusa attraverso mezzi di massa ma anche in sedi più accademiche e scientifiche, ci dice che questa idea non era legata al politeismo ellenico e romano, ma al monoteismo. Non che i politeisti fossero immorali. Solo che non ritenevano che esistesse una divinità non solo suprema e anzi unica la cui funzione principale, anzi unica anch’essa, fosse di incarnare nella sua divina persona la garanzia vivente della legge morale.

Da buoni politeisti essi attribuivano all’impero morale una vita più tormentata, quale quella di potenza divina tra le potenze, principio tra i principi. Una forza metafisica che in quanto tale influiva sulle esistenze umane e sul mondo sublunare, ma senza l’attributo di principio regolatore supremo. Per i politeisti il divenire del mondo non obbediva a un principio morale e nemmeno era teso a un destino finale di trionfo del bene. Il bene esiste ed esercita un potere niente affatto debole, ma non è un potere definitivo e non giudica tutti gli altri fenomeni dall’alto di un tribunale. Alla fine dei tempi non vi è un giudizio finale che separa i buoni dai cattivi. Ancor meno il mondo è stato creato da una divinità unica, onnipotente e morale. Il mondo esiste da sempre eternamente e vi è solo un eterno divenire che infinitamente ripete sé stesso, un eterno ritorno dell’uguale. Ci possono essere dei cicli di creazione e distruzione di mondi, ma non vi è un unico mondo creato dal bene e che si conclude in un verdetto finale.

Questo a grandi linee, poiché si possono trovare mille obiezioni a questo scenario semplificato, osservando come il sommo bene compaia in Platone, Aristotele e altri filosofi. Il che è vero, l’età dei filosofi introduce una componente morale sempre più significativa che esercita un ruolo sempre più centrale, come una forza attrattiva e attiva, ma non come una divinità personale che giudica. L’ellenismo tardo si avvicina sempre più al monoteismo e a sua volta i monoteismi ebraico e cristiano si contaminano con l’ellenismo.

Tuttavia, è possibile che solo con i monoteismi personali la moralità diventi così pressante nella vita emotiva. Una moralità ellenistica espressione di una entità divina impersonale, che sia l’Uno di Plotino o una delle sue ipostasi, è incapace di generare il coinvolgimento emotivo e soprattutto relazionale di un dio personale dotato di una sua identità individuale, un essere singolare che non solo ci indica una legge, ma ci giudica in base ad essa e reagisce emotivamente alla nostra disobbedienza, manifestandosi come un dio geloso e iroso o un dio rammaricato, in entrambi i casi reagendo alla disobbedienza come un genitore che interpreta la disobbedienza del figlio come un tradimento. Il dio ellenistico non sembra stabilire una legge attraverso un atto di volontà, semmai sembra generare il cosmo attraverso la sua energia o attraverso il suo logos benefico che somiglia più a un algoritmo, una verità fisica che innerva il mondo, ma non lo comanda dall’esterno attraverso dei comandamenti. Ecco che quindi nel logos ellenistico più che trasgressioni ci possono essere delle corruzioni, degli allontanamenti progressivi che generano decadimento e – in ultimo – morte, ma non disobbedienza, peccato e colpa.

La conseguenza della non centralità della morale esplicita come legge e comandamento è l’assenza, almeno in via teorica, nell’antichità, o almeno come la interpretiamo noi, dell’alienazione morale, e con questo concetto ci avviciniamo ai problemi contemporanei del politicamente corretto. L’alienazione proviene da una disarmonia tra una umanità spontanea, istintiva, non civilizzata e che agisce in maniera non ponderata ma immediata e che in quanto tale produce comportamenti non sempre morali, non dettati dal comandamento supremo del non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi, e non sto parlando di omicidi ma anche del più banale mangiar carne che è un tipico fare qualcosa a un essere senziente che non vorremmo fosse fatto a noi, appunto mangiare e essere mangiati, e una moralità costretta da regole di giustizia venerabili, ma non sempre spontanee, anzi frutto di esercizio, concentrazione, volontà ponderata e consapevole, auto-controllo forzato e spesso non sentito, insomma alienato: essere civili significa comportarsi bene senza dover essere autenticamente buoni.

Questa alienazione ha sempre generato un sottile disagio nelle varie epoche umane. Non è bello scoprire che il bene non è sempre divertente e non sgorga spontaneo dai nostri desideri e dalle nostre azioni, ma è frutto di ragionamenti corretti ma forzati, non spontanei. Di fronte alla legge siamo insomma alienati rispetto alle nostre risposte emotive più automatiche.

Periodicamente una serie di crisi storiche hanno cercato di risolvere questa alienazione, con vario successo. Già nell’ebraismo vi era una tensione tra la legge religiosa fatta di comportamenti corretti e l’invocazione dei profeti a una sincerità interiore che rendesse la realizzazione della legge un atto spontaneo, una condizione naturale che ripristinasse il paradiso perduto.

Malgrado una certa superficialità in questa definizione dell’ebraismo, si può recuperare la solita citazione di Isaia: «Nuove lune, sabati, assemblee… Non tollero più feste e giorni solenni. (…) Cessate di fare il male! Imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, siate giusti con l’orfano, difen­dete la vedova…» (Is I 11. 17). Non si tratta solo di fare opere di bene accanto agli atti di pietà religiosa ma di sentire spontaneamente ciò che invece per l’uomo pare possa fare solo attraverso la costrizione del rito, senza davvero sentirlo.

Una svolta successiva è naturalmente quella cristiana con un ulteriore tensione verso l’interiorità contrapposte all’esteriorità della legge e dei comportamenti (e ancora una volta chiedo perdono per questa semplificazione psicologizzante di un fenomeno complesso come il cristianesimo, così come ho fatto prima per l’ebraismo). Il problema di tutte queste svolte interiori è che sempre sono andate a sbattere contro la loro inevitabile istituzionalizzazione in forme storiche e sociali, prima con il sacerdozio ebraico che precede la diaspora e poi con le varie chiese cristiane, dalla cattolica all’ortodossa fino allo stesso protestantesimo, quest’ultimo anch’esso frutto di una rivolta contro l’alienazione della legge esteriore, questa volta cristiana, e di una speranza di risoluzione verso una sincera e profonda interiorità che rendesse la tensione morale una adesione emotiva spontanea al bene e non uno sforzo ponderato di volontà che inevitabilmente ci aliena e ci allontana dalla immediatezza delle emozioni.

I tentativi di risoluzione moderna dell’alienazione verso la legge morale, della tensione tra principio del piacere e principio di realtà avvengono fuori dalla religione. Si tratta di movimenti filosofici. Un caso può essere quello dell’illuminismo che pone la ragione al posto della legge divina rivelata e che ancora una volta promette di risolvere la tensione tra il bene e il piacere attraverso una purificazione questa volta fatta con i mezzi della razionalità e non della rivelazione nell’incontro con un essere divino. L’incontro avviene, ma colui che incontriamo è la legge morale dentro di noi e non più un roveto ardente o un profeta in Galilea.

Alcune di queste proposte filosofiche riprendono tematiche più o meno ebraiche e cristiane, in qualche modo genericamente messianiche. Ancora una volta l’alienazione è dipinta come una condizione umana superabile dopo la rivelazione di una verità, questa volta politica, sociologica e non religiosa. È il caso, ad esempio, del marxismo e, come vedremo sarà il caso del politicamente corretto, che si può definire la rivelazione dei tempi contemporanei.

Prima però conviene parlare di un caso particolare, la contro-rivelazione di Nietzsche e la sua trasvalutazione di tutti i valori. Si tratta di una rivelazione al contrario che promette ancora una volta di risolvere la tensione tra bene e piacere, ma in senso contrario.

Nietzsche predica la trasvalutazione di tutti i valori. Percepito come un affascinante trasgressore del moralismo tradizionale e come un precursore dei movimenti di liberazione sessuale e sociale degli anni ’60, Nietzsche in realtà propagandava una rivoluzione ben più radicale: la sua trasvalutazione dei valori era una riscoperta di una vita emotiva primigenia il cui nocciolo fosse la violenza e il sangue, in cui nessuna civilizzazione proteggesse più il debole dalla selezione naturale a favore del più forte e del più brutale: «Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano, allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. Questo amore universale per gli uomini è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà abbassato la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini» (Nietzsche, 1977, pag. 73-136). È strano che un simile immoralismo sia una delle radici della contemporanea passione per il politicamente corretto. È un’acrobazia possibile perché Nietzsche è per lo più letto non come predicatore della sacralità primordiale della violenza brutale, ma come trasvalutatore di valori passati che sono percepiti come ingannevoli e asserviti al potere e, quindi, come al fondo immorali.

È con questa ultima acrobazia che arriviamo al moderno politicamente corretto. Esso è l’ultimo tentativo di superare la dicotomia tra la tensione morale e la spontaneità amorale della vita istintiva spontanea e spensierata: il politicamente corretto esprime un bisogno giusto. Il bisogno di rapporti sociali umani e civili, in cui non si è etichettati stereotipicamente in base all’etnia, la religione o la preferenza sessuale, ma come persone. Bene.

Tuttavia vi è in esso un rischio normativo e potenzialmente bigotto che non è nuovo, ma che anzi è regolarmente emerso in tutte le precedenti rivoluzioni morali dell’umanità, sia quelle religiose che filosofiche: la comparsa di una polizia morale che rischia di essere altrettanto oppressiva e aggressiva di quella prepotenza che essa vorrebbe emendare. Di qui il ruolo di Nietzsche in questo girotondo continuo tra moralità e spontaneità. Nietzsche è stato l’ennesimo annunciatore di una liberazione dalle catene della legge e dell’avvento di una nuova spontaneità. Certo, occorre poi ignorare che la spontaneità nicciana era anti-morale e raccomandava il culto della brutalità e coltivare l’illusione che sia possibile pervenire ancora una volta uno stato spontaneo in cui l’esercizio della moralità non sia frutto di una imposizione forzata, ma nasca da una spontanea adesione alla propria istintività: superare la legge nello spirito. Oppure no, forse malgrado l’apparente equivoco il ruolo di Nietzsche è ancora più sottile. Egli non è stato affatto frainteso, ma interpretato correttamente come colui che ha definitivamente detto che la spontaneità non porta al bene e alla moralità, ma alla violenza e quindi l’unica speranza di redenzione morale in questa vita non può che avvenire attraverso una costrizione sociale e politica: il politicamente corretto, appunto. Non meravigli tale confusione: Nietzsche – come tutti i pensatori complessi – ha detto molte cose contradittorie e in quelle moltitudini di idee contenute nel suo pensiero ci si può sempre trovare quel che ci fa più comodo.

È un rischio presente fin dalla nascita del politicamente corretto, il quale compare negli anni ‘70 non come nuovo ideale morale e sociale quale è oggi, ma come indicatore della deriva moralista che rischia di investire il movimento di liberazione sociale e sessuale del decennio precedente. Furono alcune autrici femministe, curiosamente, che inaugurarono l’uso del termine come auto-critica ironica (Schulz, 1993) come segnale di guardia nei confronti di un eccesso di ortodossia moralistica nelle tematiche sociali e in particolare contro il bigottismo anti-pornografico di un certo femminismo estremista (Willis, 1982).

È un’ulteriore curiosa giravolta: mentre in passato l’emersione della moralità prevedeva una prima fase entusiastica in cui la tenzione morale era vissuta come spontanea e genuina manifestazione dell’anima e non incatenata a una legge esteriore per poi istituzionalizzarsi in una organizzazione occhiuta e controllante, insomma una chiesa, questa volta accade il contrario. Un termine nato come ironia contro le esagerazioni della moralità conclude la sua traiettoria proponendosi come ideale morale e sociale. A pensarci bene “politicamente corretto” è una espressione involuta che non esprime idealità ed entusiasmo ma controllo, il controllo opprimente e farraginoso di un verbale della polizia. Potrebbe essere questo allora il senso di questa storia? Con il politicamente corretto l’umanità abbraccia un ideale morale, ma non lo fa più illudendosi di aver trovato una formula magica che ci consente di essere buoni spontaneamente, attraverso la nostra semplicità emotiva o attraverso una evoluzione razionale armonica che illumina l’individuo.

A pensarci bene, si tratta della posizione a cui erano già pervenute da tempo le discipline psicoterapeutiche come la psicoanalisi o la terapia cognitivo comportamentale. Alla radice del politicamente corretto vi è dunque la psicologia moderna? Sia la psicoanalisi che la terapia cognitivo comportamentale propongono una moralità che non si fonda su una rivelazione, ma sulla evoluzione psicologica dell’individuo che arriva, in una certa fase della sua esistenza, a sviluppare una funzione mentale etica il cui scopo è sociale, ovvero favorire la convivenza dell’individuo con i suoi simili generando regole di convivenza nelle quali non si desidera infliggere il male agli altri. Si tratta del Super-Io freudiano, l’istanza psichica preposta al rispetto delle norme e dei valori acquisiti attraverso l’educazione. Solo attraverso lo sviluppo del Super-io le persone acquisirebbero la capacità di comportarsi in modo socialmente giusto e di controllare in modo autonomo i propri impulsi istintuali (Freud, 1923). Analogamente nel modello cognitivo di Paul Salkovskis del disturbo ossessivo compulsivo incontriamo la funzione del senso di responsabilità che gestisce il rispetto delle norme sociali e delle regole di convivenza dell’individuo (Salkovskis, 1985). È curioso notare che in questi modelli psicologici la funzione morale, anche se concepita come frutto di una elaborazione consapevole favorita dall’educazione, presenta comunque un tratto di alienazione: essa è sofferta dall’io individuale come una costrizione. Non a caso il Super-io di Freud è parzialmente inconscio mentre il senso di responsabilità di Salkovskis può degenerare in un vero e proprio disturbo, il disturbo ossessivo compulsivo.

Insomma, sia la psicoanalisi che la terapia cognitivo comportamentale, a differenza della filosofia morale illuministica, sono entrambe giunte a teorizzare l’inevitabile alienazione della funzione morale. Di qui ne consegue una grande distanza dalla posizione illuministica che invece aveva, forse per l’ultima volta, sognato che moralità e spontaneità potessero combaciare sotto il segno della ragione. Semmai si prende atto che si tratta di uno sforzo che ci auto-imponiamo e che soprattutto ci imponiamo socialmente, attraverso un controllo reciproco che tutti esercitano su tutti e che conferisce enorme potere ai mezzi di comunicazione sociale, i social appunto. È una posizione che si presenta come realistica e ragionevole, ma non per questo priva di difetti. La perdita di libertà legata al controllo sociale e morale non diventa più tollerabile e accettabile solo perché abbracciata consapevolmente, purtroppo.  

BIBLIOGRAFIA

Freud, S. (1923), L’Io e l’Es. Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien. Trad. it. in Opere, vol. 7, Boringhieri Editore, 1977.

Nietzsche, F. (1895), L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo. Trad. it. Adelphi, 1977.

Salkovskis, P.M. (1985), Obsessive-compulsive problems: A cognitive-behavioural analysis. Behaviour Research and Therapy, 23, 571-583.

Schulz, D.L. (1993), To Reclaim a Legacy of Diversity: Analyzing the ‘Political Correctness’ Debate in Higher Education. National Council for Research on Women, New York.

Willis, E. (1982), Toward a feminist sexual revolution. Social Text, 6, 3-21.

* Giovanni Maria Ruggiero è docente presso la Sigmund Freud University (Milano e Vienna)