di Marianna Pederzolli e Valentina Trinchero *
La lingua, sistema di segni tramite cui comunichiamo, è la più potente tecnologia che l’essere umano abbia mai inventato. La lingua è una tecnologia viva che non consiste semplicemente nel ripetere frasi imparate a memoria, ma prevede la creazione, di volta in volta, di una narrazione in cui scegliamo, più o meno intenzionalmente, parole e combinazioni a partire da dei modelli di riferimento. In quanto vivente, la lingua si contamina, subisce modifiche nel corso del tempo, si evolve e, addirittura, può morire quando questa non viene alimentata da un gruppo di parlanti. Le parole, poi, hanno un peso ed una consistenza tale da modificare il contesto in cui vengono pronunciate, intrecciandosi con le vite delle persone che le emettono e le ricevono. Ogni enunciato, infatti, è sia l’insieme di suoni-segni che, seguendo regole grammaticali ben precise, è in grado di descrivere persone, oggetti, emozioni, concetti astratti, sia il risultato di un’intenzione comunicativa specifica, dotato di una propria “forza” attraverso cui l’enunciato incide sulla realtà: la stessa frase può avere un intento affermativo, interrogativo, illocutivo, dubitativo, voler spiegare o ordinare.
Filosofi di tutti i tempi si sono interrogati spesso su cosa nascesse prima: lingua o realtà? D’altronde, il testo biblico in tal senso è chiaro: Dio disse e il mondo fu. Tuttavia, oggi, numerosi linguisti considerano questo un falso problema e, a tal proposito, la linguista e ricercatrice Manuela Manera (2021) afferma: «Lingua e realtà non sono due dimensioni in contrapposizione tra loro, né una prevale sull’altra. Al contrario possiamo affermare che il loro rapporto è simbiotico perché queste due dimensioni sono intrecciate e in continua e costante influenza reciproca». Per tale ragione, si può sostenere che non regge l’argomentazione secondo la quale le parole non sono importanti, sono solo forma, concentriamoci sulla sostanza. Così, non risulta corretto nascondersi dietro l’argomentazione per cui la lingua è semplicemente uno specchio, la quale restituisce passivamente un’immagine e che occorre prima cambiare la società e, di fatto e solo dopo, la lingua cambierà di conseguenza. La lingua, infatti, permette di ragionare ed interpretare la realtà, di raccontarla, di significarla, di strutturarla e, perfino, di osservarla in un modo piuttosto che in un altro.
A tal proposito, la teoria Sapir-Whorf, anche detta della relatività linguistica, spiega bene quanto la lingua sia ancorata al pensiero e orienta il nostro modo di pensare e quindi anche di agire. E Vera Gheno (linguista, saggista e traduttrice italiana) nel suo libro Femminili Singolari (2019)cita un famoso indovinello: «Padre e figlio fanno un incidente in auto. Il padre muore, il figlio viene portato d’urgenza in ospedale in gravissime condizioni. Il chirurgo quando lo vede, però, esclama: «Non posso operarlo. È mio figlio!». Com’è possibile?
La risposta, così banale nella sua ovvietà, è che il chirurgo sia la madre del ragazzo che si è salvato dall’incidente. Il solo fatto, però, di essere abituati ad usare il maschile per indicare le professioni economicamente e socialmente importanti, anche quando a farle è una donna, orienta il pensiero in maniera così automatica da fare tentennare nella risposta. Ecco che allora la battaglia per utilizzare la declinazione al femminile delle professioni acquista tutto un altro valore: nominare le donne che lavorano in professioni prima quasi esclusivamente maschili, o che conquistano posizioni apicali che precedentemente erano loro de facto precluse, può contribuire a normalizzare, agli occhi (e alla mentalità) delle persone, la loro presenza. Inevitabilmente, il maschile conduce il pensiero a un corpo maschile e, anche se sappiamo che quella carica o professione potrebbe essere assegnata pure ad altre soggettività, dobbiamo sforzarci per richiamarle alla mente. E, questo, avviene anche nell’utilizzo del maschile estensivo in discorsi pubblici rivolti a platee invece eterogenee per genere. Sempre Manuela Manera scrive:
«La corrispondenza tra genere grammaticale e identità di genere permette agli uomini non solo di sentirsi chiamati in causa e coinvolti, ma anche di identificarsi e strutturare in modo immediato un immaginario in cui essere protagonisti. […] Nel 2000, se la mia comunicazione è rivolta a una platea mista, adattarsi per abitudine o pigrizia all’uso tradizionale della lingua, che prevede il maschile come genere predominante e universale uso che ha motivazioni storiche e culturali, vuol dire usare la lingua in modo sessista. Le soluzioni ci sono e basta volerle applicare: si può usare un linguaggio il più neutro possibile: “Mi rivolgo a tutte le persone nella stanza”. Usare entrambi i generi: “Mi rivolgo a tutti gli studenti e le studentesse”, o lanciarsi nel tanto vituperato schwa: “Mi rivolgo a tuttə”».
Molte persone, di fronte a questa argomentazione, rispondono che si è ingenui a credere di risolvere le diseguaglianze solamente con le parole. Vera Gheno, davanti a tali affermazioni, controbatte e risponde:
«Non credo davvero che tra le persone che usano i femminili professionali sia diffusa l’idea che bastino le parole per risolvere le disparità tra maschi e femmine. Semplicemente, sono istanze che viaggiano tranquillamente in parallelo, anzi, intrecciate, senza che una tolga forza in alcun modo all’altra. Pensare che qualcuno ritenga sufficiente cambiare il lessico è un caso di argomento fantoccio: si costruisce un’argomentazione farlocca, inutilmente polarizzata, irricevibile, in modo da demolirla con maggiore facilità».
Proprio rispetto all’utilizzo dell’argomento fantoccio, sempre in relazione all’utilizzo di un linguaggio neutro, delle professioni al femminile o della schwa, si arriva dritti ad affermazioni del tipo “E basta con questo politicamente corretto”. Il politicamente corretto propone di trovare dei termini non connotati negativamente per indicare determinate persone; ad esempio, non chiamare invertito un omosessuale o negro una persona africana o afrodiscendente; in quest’ultimo caso tutt’altro che sinonimi: una persona afrodiscendente, come ci insegnano le nuove generazioni, potrebbe non aver mai visto lo Stato in cui sono nati i suoi genitori, ritenere la lingua italiana la sua prima (e magari unica) lingua, ed essere cresciuta con modelli socioculturali uguali a qualsiasi altra persona della sua età, e tuttavia non avere la cittadinanza italiana, avere la pelle nera, e tutto ciò che questo comporta in termini sociali. Si tratta, quindi, di utilizzare un linguaggio inclusivo e rispettoso nei confronti di quelle che sono strutturalmente delle minoranze all’interno del nostro sistema di potere: le donne, le persone con un orientamento sessuale diverso da quello etero normativo, le persone con disabilità, persone migranti o con origini etniche differenti dalle nostre.
Il paradosso è che chi critica l’utilizzo di un linguaggio inclusivo lo fa invocando il diritto alla libertà di espressione, come se utilizzare un linguaggio che non discrimina fosse sinonimo di censura. Tormentoni come “per colpa del politicamente corretto non si può dire nulla” o “a causa di questa dittatura del politicamente corretto arriveremo alla censura” sono particolarmente in voga nei dibattiti televisivi, sui social network, alle cene di famiglia. Eppure, come rimarca il filosofo Lorenzo Gasparrini, la censura è per definizione l’esercizio di un potere; quelle categorie che sono da sempre oggetto di discriminazione e, quindi, tali da richiedere pubblicamente e socialmente di essere definite in maniera corretta, non hanno alcun potere per vietare dibattiti né tanto meno per cambiare le abitudini linguistiche. Secondo il filosofo, eliminare dal linguaggio le espressioni discriminatorie, gli insulti gratuiti, i pregiudizi e i luoghi comuni su gruppi e individui permette più possibilità espressive, libertà di parlare – e quindi, per esempio di criticare – gruppi o individui che per loro caratteristiche sociali o storiche hanno subito o ancora subiscono ingiuste discriminazioni, oppure sono oggetto di pregiudizi limitanti. Afferma infatti:
«Ci possono essere, e sicuramente ci sono, persone sgradevoli o socialmente pericolose e piene di idee sbagliate tra neri, gay, orientali, diversamente abili, ebrei, donne, come ce ne sono tra uomini bianchi etero occidentali; proprio una corretta scelta linguistica, priva di qualsiasi violenza verbale, permette a chiunque di definirli, se necessario e con criterio, sgradevoli o socialmente pericolose o pieni di idee sbagliate per questi motivi, e non perché neri, gay, orientali, diversamente abili, ebrei, donne».
Ma allora, cosa rende così difficili tali cambiamenti di linguaggio e narrazioni?
Una risposta possibile è che l’essere umano diffidi dal mettere in discussione gli automatismi, e le proprie abitudini. Facilmente vengono formulate frasi con leggerezza, senza pensare all’impatto delle stesse sul mondo. Riconoscere il sistema culturale in cui si è immersi, interrogarsi sul linguaggio e rivedere le proprie abitudini espressive, richiede un grande sforzo intellettuale.
Tuttavia, politici e opinionisti si scagliano contro i presunti sostenitori del politically correct. Per comprenderlo, occorre ripercorrere brevemente la storia e l’utilizzo di questo termine.
Lo fa magistralmente il linguista Federico Faloppa, in un articolo accademico del 2019, in cui parte dall’utilizzo che ne ha fatto Donald Trump per la durata di tutto il suo mandato e durante le campagne elettorali, definendo il “politicamente corretto” uno dei maggiori problemi del Paese e uno dei nemici di quel buon senso che dovrebbe essere, invece, la migliore risorsa per risolvere le crisi. Pur accusando di continuo il politically correct e i suoi presunti sostenitori, né Trump né alcun opinionista è riuscito a definire in modo chiaro cosa intendessero con questa parola. A quanto pare, non ne avevano bisogno, dato che il P.C. è stato talmente criticato e screditato negli Stati Uniti da diventare un facile bersaglio. A tal proposito, negli U.S.A., il linguista Lakoff già a inizio anni 2000 sosteneva che per essere un termine sulla bocca di tutti, il P.C. rimaneva notevolmente sfuggente. Ciò che chiaramente non sembrava sfuggente, invece, erano le campagne contro qualcosa chiamato politicamente corretto.
Come ci ricorda Faloppa, non è sempre stato così: prima degli anni Novanta l’espressione era perlopiù utilizzata all’interno dei gruppi politici di sinistra come forma scherzosa o, in modo molto marginale, era usato come slogan da alcuni attivisti nel promuovere la richiesta di un linguaggio più inclusivo. Dagli anni Novanta in poi, in maniera esponenziale come dimostrano tutte le ricerche sui giornali cartacei e web, è diventato un’etichetta negativa applicata alla sinistra, radicale o moderata poco importa. Come è stato possibile ciò? Faloppa dimostra come negli U.S.A. nel corso dei decenni precedenti, importanti think tank di destra – come il Cato Institute o l’Heritage Foundation – si erano adoperati per diffondere un’idea ben precisa: il “politicamente corretto” rappresenta un pericolo per la libertà di espressione, pericolo proveniente in particolare dai campus universitari, dai dipartimenti intrisi di marxismo. Infatti, nelle università americane, a partire dagli anni Sessanta, grazie ai movimenti femministi e per i diritti civili, le università avevano iniziato a rispecchiare i cambiamenti sociali avviati, inaugurando gli studi di genere, gli studi post-coloniali e prestando una maggiore attenzione verso le istanze delle persone afroamericane. Tali cambiamenti, i quali minavano il cuore di un sistema culturale basato su profonde diseguaglianze e discriminazioni, hanno preoccupato i poteri conservatori.
Dagli anni Settanta, diversi donatori conservatori hanno iniziato a finanziare borse di studio a studenti laureati conservatori, con posizioni post-dottorali e cattedre in università prestigiose, con il chiaro obiettivo di sfidare quella che consideravano la supremazia del liberalismo e attaccare le tendenze di sinistra all’interno del mondo accademico.
Dopo, sul finire degli anni Ottanta, questo movimento conservatore ben finanziato entrò nel mainstream con una serie di bestseller che prendevano di mira l’istruzione superiore americana. Il primo, del professore di filosofia dell’Università di Chicago Allan Bloom, uscì nel 1987. Per centinaia di pagine, “The Closing of the American Mind” (La chiusura della mente americana) sosteneva che i college stavano abbracciando un superficiale “relativismo culturale” e abbandonando discipline e standard da tempo consolidati nel tentativo di apparire liberali agli occhi dei loro studenti. Il bestseller di Bloom ha venduto più di mezzo milione di copie e ha ispirato numerose imitazioni, tutte sostenitrici dell’idea secondo cui una politica di “vittimismo” avesse paralizzato le università e portato il P.C. ad essere connotato negativamente nel senso comune; quest’ultimo, diventava così ufficialmente un’invenzione utile per la destra repubblicana. Il termine politically correct è diventato inoltre un termine usato per trasferire al pubblico l’idea che ci sia una profonda divisione tra la gente comune e l’élite liberale, che cercherebbe di controllare i discorsi e i pensieri della prima.
Dato il successo avuto oltre oceano, anche in Italia lo spauracchio del “politicamente corretto” si è insediato in pianta stabile, dimostrando la sua perdurante capacità di fungere da cornice discorsiva per un’ampia e diversificata gamma di argomenti visti come intrinsecamente problematici, e di essere utilizzato contro presunte posizioni e sostenitori del P.C. per sfatarle e ridicolizzarle, come era già accaduto in U.S.A..
A tal proposito, Matteo Pascoletti in un articolo del 2020 cita vari esempi nostrani: Giorgia Meloni commenta nel giugno 2020 l’imbrattatura della statua di Indro Montanelli: «Signore e signori, ecco a voi i nuovi talebani. Ecco a voi la civiltà del politicamente corretto»; «E ora quale sarà la prossima censura?» domanda il Corriere in un articolo a firma di Pierluigi Battista circa nello stesso periodo.
Se da una parte la destra, opinionisti ed in generale i poteri conservatori, anche nel nostro Paese, utilizzano il politically correct come argomentazione con cui attaccare la sinistra, dall’altra parte i partiti progressisti hanno perso credibilità proprio sugli stessi temi per cui verrebbero attaccati: negli anni in cui sono stati al governo non sono stati in grado di porre come prioritarie nell’agenda politica quelle battaglie per l’estensione dei diritti delle minoranze e non hanno fatto della lotta alle diseguaglianze il loro perno. Sull’altare di differenti alleanze sono infatti state negli anni sacrificate la riforma della cittadinanza, il DDL Zan, la battaglia per i matrimoni egualitari e la stepchild adoption, l’aumento di finanziamenti ai servizi per l’infanzia, ai centri antiviolenza, ai percorsi di inclusione e cittadinanza. Non sorprende, quindi, che quando alcune persone esponenti di tali partiti, magari sotto campagna elettorale, provano a utilizzare un linguaggio inclusivo negli incipit delle loro arringhe, siano percepiti come stonati, forzati e incoerenti. Inoltre, la sinistra ha smesso di fare egemonia culturale, dimenticandosi appunto che il linguaggio ha la capacità di plasmare la realtà perchè determina il senso comune, e per questo è terreno di scontro politico-culturale.
D’altra parte, i movimenti femministi e lgbtqi, in un contesto così radicalizzato utilizzano modalità espressive che vengono percepite come settarie e tecnicistiche, che sembrano quasi volte più ad un auto-riconoscimento, e faticano quindi a far comprendere il significato profondo delle loro battaglie al di fuori delle loro cerchie di attivisti e attiviste. In generale, dovrebbe essere compito primario della sinistra e di chi ha più strumenti far in modo che gli altri capiscano cosa si dice, spiegando fenomeni complessi in modo semplice. Spesso invece le forze progressiste esagerano in forme involute, tecnicismi e paroloni, e questo indipendentemente dall’utilizzo di un linguaggio inclusivo.
Il discredito del Politically correct ricopre poi, negli anni 2000, nell’era dell’affermazione dei diritti civili, un’altra importante funzione: è diventato anche un valido modo per riqualificare il razzismo in modi politicamente accettabili. «Non sono razzista, ma…» è una frase molto usata e diffusa. In genere le persone che la utilizzano esprimono, in modo più o meno consapevole, opinioni e posizioni molto ambigue, introdotte dalla congiunzione ma. Meno spesso si è fatto notare, però, che se la frase ha così larga circolazione è perché, malgrado tutto, nessuno vuole sentirsi bollare come razzista per paura di incorrere nella censura, nella sanzione e nell’isolamento sociale, quali che siano le sue reali posizioni. Accade così che anche in presenza di gesti e atti verbali che definiremmo razzisti, sentiremmo probabilmente dire, dai responsabili di questi comportamenti, «non sono razzista», «questo non è razzismo», «sono solo realista», o cose del genere. In questi casi è quindi corretto parlare di una vera e propria negazione; in alcuni casi gli psicologi la chiamerebbero più propriamente denegazione, in quanto il parlante si impedisce, attraverso la verbalizzazione, di ammettere ciò che invece desidererebbe pensare e fare. Ma sono moltissimi i casi in cui ci si dovrebbe chiedere davvero: se non era razzismo, che cos’era? Come definire quella violenza? Razzismo? Nuovo Razzismo? Odio verso lo straniero? Un primo passo per disarticolare il discorso razzista, così come quello di genere piuttosto che il discorso legato all’orientamento sessuale, sarebbe quello di chiamarlo per nome. Di non tentennare davanti alle definizioni, anche se queste cambiano, mutano, sembrano sfuggenti. Perché, anche solo per opposizione semantica, per chiarezza terminologica, la lotta al razzismo piuttosto che all’omofobia è tanto più efficace se si misura con qualcosa di preciso. Se chiama le cose col loro nome, senza timore di indorare la pillola, di affrontare la realtà per quello che è.
Tuttavia, non sempre questo è facile, immediato, evidente. Per quanto non si possa più parlare di razzismo classico, ovvero per quanto ad oggi si ritenga superata l’idea che il patrimonio biologico delle popolazioni determini la loro psicologia e i loro comportamenti morali, il pensiero razzista si compone in nuove articolazioni che si presentano al pari di quelle classiche. In particolare, viene a determinarsi un sistema ideologico finalizzato a giustificare discorsi, politiche e pratiche di esclusione ai danni di persone, ad esempio i migranti, ritenuti indesiderabili perché estranei non tanto al patrimonio biologico quanto a quello culturale della maggioranza. Così, pur in assenza di razze, la cui esistenza è stata definitivamente messa in discussione dalle scienze biologiche e sociali, ma la cui invenzione è stata ed è alla base di ogni razzismo, queste articolazioni si consolidano intorno ad un sistema eterogeneo. Si va dalle aggressioni verbali (insulti a sfondo razziale) ad atti linguistici dissonanti (il dare del tu a qualcuno perché ritenuto inferiore anche quando le regole prevedono il lei); così come si va da veri e propri stereotipi (gli zingari sono tutti ladri) a generalizzazioni volutamente semplificanti (se uno straniero commette un crimine allora tutti gli stranieri sono criminali).
Superato il razzismo cosiddetto classico, emerge così un nuovo razzismo, più eterogeneo e trasversale, più difficile da riconoscere e quindi da contrastare. Proprio per questo, definire cosa si intende per razzismo oggi, diventa necessario. Per di più, questo chiamare le cose con il loro nome va o dovrebbe andare ben oltre al solo razzismo in quanto tale; infatti, in generale e in ogni contesto più o meno specifico, definire aiuta a rendere chiari i discorsi e le argomentazioni. Allo stesso tempo, non si può immaginare di poter risolvere tutto con i soli aggiustamenti lessicali.
A tal proposito, merita di essere citata la proposta di sopprimere la parola razza dall’articolo 3 della Costituzione presentata da due antropologi (Gianfranco Biondi e Olga Rickards) al presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera a Senato nel 2014. Il testo di proposta presentato è un testo chiaro e documentato, che basa la sua richiesta sulle ricerche condotte in campo genetico e biologico e che hanno dimostrato come il concetto di razza non possa essere applicato all’essere umano. Tuttavia, una tale proposta, solleva molti dubbi e interrogativi. Dovrebbe essere sostituito il termine razza con quale altro termine? E basterebbe sostituire solo quello? Bisognerebbe, forse, allora intervenire anche su termini quali sesso, lingua e religione cui fa riferimento l’intero articolo 3 della Costituzione?
Da un lato, è sicuramente corretto ragionare sul fatto che il linguaggio deve adeguarsi, nel corso del tempo, ai cambiamenti di contesto e di conoscenze che avvengono nella comunità. Ma, dall’altro lato, eliminare la parola razza in Costituzione sarebbe davvero legittimo? Il testo costituzionale, difatti, è stato scritto in un determinato contesto storico e per determinate ragioni. In primis, razza è utilizzata appositamente per rispondere agli orrori del fascismo e del nazismo; inoltre, è usata perché la popolazione di quel tempo conosceva solo questo termine e non altri; quindi, se la Costituzione doveva essere chiara, includente e compresa da tutti i cittadini, all’epoca per la maggioranza analfabeti o semianalfabeti, dovevano essere inserite parole di reale uso comune.
Se, forse, risulta quindi avere anche un senso lasciare invariato l’articolo 3 della Costituzione per raccontare anche alle nuove generazioni la storia e il mondo del secolo scorso, risulta però più urgente chiedere ai legislatori una maggiore chiarezza su cosa si intenda per razzismo; e questo perché il linguaggio può avere ed ha delle conseguenze sul piano psicologico, spesso traumatiche sulle vittime. Occorrerebbero perciò precisazioni ulteriori e serie riflessioni sul fatto che anche in assenza di razze, e in presenza di gruppi etnici o di qualsiasi altra formulazione alternativa, il razzismo non è affatto scomparso, ma anzi si articola in nuove pericolose forme, anche sul piano linguistico. Interrogarsi sui singoli termini, perciò, non significa porsi domande stucchevoli da intellettuali, ma rendersi conto dell’importanza del linguaggio, dei contesti di utilizzo e delle sue conseguenze. Ben venga, allora, la verifica di lessico, definizioni e aggiornamenti dei dizionari.
In definitiva, il politicamente corretto è, tutt’oggi, oggetto di dibattito ed in particolare per gli aspetti contraddittori insiti nella terminologia stessa. Non a caso, durante il convegno «Il razzismo è… una gaffe», tenutosi presso l’Università di Genova il 27 novembre 2018 (Scuola di Scienze Umanistiche), il moderatore Carlo Penco, in merito al politicamente corretto, ha affermato: «Non si può essere unidirezionali. È semmai lo studio di un fenomeno a dare le risposte, cercando di essere aperto e disincantato nelle varie angolazioni». Il professor Penco, docente di Filosofia del linguaggio e Teorie della comunicazione all’Università di Genova, durante la stessa occasione ha messo in evidenza anche l’importanza del tenere presente chi è colui che ascolta, dal momento che questo cambia realmente l’opportunità o meno di una frase e, a questo riguardo, ha sostenuto come le maggiori variabili delle quali tenere conto siano, da un lato, la relazione tra i soggetti (a livello familiare, di amicizia o formale) e, dall’altro lato, la dimensione (se ci si trova di fronte ad un numero elevato di persone).
Senza cadere nelle contraddizioni e negli eccessi teorici e pratici del politically correct tipici del mondo anglosassone, non si può non condividere un confronto sulle valenze offensive del linguaggio di tutti i giorni. D’altronde, non si tratta solo di non offendere l’altro, ma soprattutto di abituarsi a non percepire il mondo e la società attraverso le categorie e i criteri di rilevanza messi assieme da millenni di guerre e sopraffazioni. La presa di coscienza dell’importanza del linguaggio è, in definitiva, un elemento non trascurabile della riflessione sulla tolleranza, e il linguaggio non offensivo è uno strumento di convivenza su cui evitare di fare del mero sarcasmo. Quello che si può notare oggi è, difatti, una vera e propria caduta dell’attenzione all’uso del linguaggio e dei differenti registri del linguaggio nella vita pubblica e nella società. Ciò rende fondamentale l’intervento delle istituzioni, in primis quelle educative a tutti i livelli scolastici, ma non solo; anche la stampa così come la ricerca e la divulgazione scientifica possono avere un ruolo decisivo su questi temi.
Come si può usare un linguaggio non offensivo rispettando le differenze? Un primo passo è quello di porsi in ascolto di chi subisce ogni giorno la violenza del linguaggio comune, non facendo l’errore, piuttosto comune, di parametrare la realtà in base alla propria esperienza. È importante prestare ascolto alle vittime, nel senso più ampio del termine, anche quando ai nostri occhi non sembrano nemmeno tali: esistono micro-aggressioni che dall’esterno sono difficili da vedere, ma che lasciano un segno nelle persone, soprattutto se sono reiterate nel tempo. Per farlo, occorre ampliare i propri riferimenti culturali e ascoltare il punto di vista di scrittrici, intellettuali, giornaliste afrodiscendenti quali Igiaba Scego, Djarah Kan, Esperance Hakuzwimana e molte altre divulgatrici di seconda o terza generazione, come Nadeesha Uyangoda (2021), nata in Sri Lanka e trasferitasi all’età di 6 anni in Brianza, che nel suo ultimo romanzo racconta benissimo cosa implica il razzismo interiorizzato e il razzismo sistemico. A proposito della razza, ella afferma:
«La razza è un concetto difficile da cogliere, pur non avendo fondamenti biologici produce grossi effetti nei rapporti sociali, professionali, sentimentali. La razza in Italia non si palesa fino a quando tu non sei l’unica persona nera in una stanza di bianchi. Quell’unica persona che si è sentita dire troppe volte: “Gli italiani neri non esistono”: lo gridano negli stadi, lo dice certa politica, sembrano confermarlo le serie tv, la letteratura, i media. In un certo senso è perfino vero, gli italiani neri non emergono. Non si vedono negli ambienti della cultura, nei talk show e nelle liste elettorali. O meglio, in quei luoghi esistono solamente come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto. La loro presenza è ridotta alla riforma della cittadinanza, ai casi di razzismo, ai barconi, all’integrazione».
Trovare dei modi di usare la lingua nella comunicazione in maniera inclusiva e ampliare le narrazioni, è oggigiorno un obiettivo di fondamentale importanza per raggiungere un’uguaglianza reale e sostanziale.
Così come narrato in precedenza, laddove si afferma che lasciare invariato e mantenuto il termine razza nell’articolo 3 della Costituzione può servire per raccontare alle nuove generazioni la storia fascista del nostro Paese, allo stesso modo, quel passato di violenza e coercizione è più vivo di quanto si immagini negli spazi urbani frequentati da ognuno nella vita di tutti i giorni. L’ombra del fascismo è presente nei nomi delle strade che attraversiamo. A volte queste sono dedicate a feroci gerarchi; altre volte, invece, rimandano a conquiste coloniali. Così, senza neanche accorgersene, il passato contamina il presente e, come afferma la scrittrice Igiaba Scego, se non viene discusso può provocare danni alle generazioni future.
Negli Stati Uniti, per esempio, tale dibattito è ripreso con grande forza in seguito all’uccisione di un nero, George Floyd, a Minneapolis nel 2020, dopo che un poliziotto gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per alcuni minuti. Le tracce di un passato schiavista, misogino, razzista, omofobo rappresentato dalle tante statue dedicate a politici e militari che si sono posti contro il riconoscimento dei diritti dei neri, sono una vera e propria ferita della nazione. In tal senso, il movimento Black lives matter ha capito che la distruzione dei corpi dei neri ha anche a che fare con uno spazio urbano che non è neutro. Dopo la morte di George Floyd, Black lives matter ha fatto pressioni affinché alcune delle statue dedicate a schiavisti ed esponenti della confederazione fossero rimosse.
Naturalmente, tale dibattito si è diffuso anche in Europa, dove sono numerosi gli spettri che si aggirano per il continente. Quello della schiavitù si accompagna in Europa a quello altrettanto nefasto del colonialismo. E in Italia? Se è evidente come non possono essere abbattute statue che, oltre ad essere tracce del fascismo ed esempi di architettura nazionalista, sono anche monumenti di grande valore, di certo risulta necessario un dibattito e un lavoro intorno a loro. A tal proposito, Gianni Rodari alla vigilia delle Olimpiadi di Roma del 1960 scrisse per il quotidiano «Paese Sera» un pezzo dal titolo Poscritto per il Foro. Era sulle scritte al Foro Italico che inneggiano al fascismo, un’epoca ancora piuttosto recente nei tempi in cui Rodari firmava il suo articolo: «Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte». Per Rodari le aggiunte dovevano riguardare il dolore che il fascismo aveva inflitto. Un dolore che andava ricordato per non ripetere più un obbrobrio del genere. Completare quindi, per non soccombere. Il consiglio di Rodari, ovvero quello di completare le tracce, è un elemento da tenere sempre presente; oltre a monumenti su cui discutere collettivamente, sarebbe importante anche costruire monumenti riparativi, ovvero dare dignità a chi ha sofferto.
L’Italia è infestata di monumenti che raccontano non solo il passato e la storia fascista, ma anche quella di un Paese imperialista e colonialista. In tal senso, prendendo spunto da altre organizzazioni e collettivi, la nostra associazione “Genova che osa”, insieme al collettivo studentesco Edera, ha realizzato sul territorio cittadino una campagna di sensibilizzazione e di recupero della memoria storica tramite azioni concrete di guerriglia toponomastica. Infatti, anche nella toponomastica delle strade della nostra città, si può notare spesso la celebrazione di figure di un passato fascista e/o colonialista. “Genova che osa” ha ritenuto importante la presa di coscienza da parte della comunità cittadina della sua storia passata, pur nella sua brutalità. Per questo motivo, l’intento non è stato l’abbattimento fine a se stesso di monumenti o la cancellazione di targhe, quanto un’aggiunta di informazioni ad esse che potesse contestualizzarle per ciò che davvero rappresentano. L’associazione, quindi, ritiene che abbattere o cancellare ciò che celebra un passato anche negativo non cambi le sorti né risarcisca le sue vittime.
Risulta, invece, innegabile come il nostro Paese non abbia mai fatto i conti con il proprio passato o, comunque, abbia scelto di non rinnegarlo nel modo corretto, incidendo profondamente nella mentalità collettiva. Importante è anche una riflessione su larga scala: a livello mondiale il dibattito sulla correttezza o meno dell’iconoclastia, ovvero l’abbattimento di simboli, è incentrato sui crimini compiuti dal colonialismo e dallo schiavismo, temi che, soprattutto nelle scuole, sono sempre stati trattati con superficialità e condannati in modo generico senza conoscerli e studiarli. In tale direzione, “Genova che osa” ha ritenuto e ritiene come informare, informarsi e fare chiarezza su questi temi e sui simboli di un passato negativo, comprendere come questi possano istruire la nostra memoria collettiva, di fatto, risulti un atto doveroso. La nostra associazione ha, quindi, individuato a Genova ciò che è stato intitolato a personaggi o ad avvenimenti storici di epoca fascista o celebrative del colonialismo europeo, e appeso dei cartelli sulle medesime targhe o statue con su scritte domande alla cittadinanza quali: “E’ giusto celebrare il colonialismo?”; “Perché intitolare così una via?” “Quanto gravi sono certe scelte?”, con apposto sotto con un Qrcode di rimando ad un sito in cui si raccontano le nefandezze compiute dall’Italia durante gli anni del colonialismo nei luoghi e dagli artefici celebrati. L’idea è stata quella di prendere spunto da iniziative di vari collettivi, tra cui quello dei Wu Ming, utilizzato nel Grande rituale ambulante contro il colonialismo, a Bologna.
Le nostre città sono piene di strade e piazze che rimandano ad una storia fatta di orrori e soprusi, e in questo Genova non è da meno; eppure, non vengono notate, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo, calpestiamo le loro tracce e le gambe non tremano, ne vediamo gli effetti e li attribuiamo ad altre cause, ne saccheggiamo l’eredità e non sappiamo nemmeno chi ce l’abbia lasciata. E di fronte a chi afferma che “il passato non si cancella”, si potrebbe ribattere che un nome, un monumento o una targa, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.
Il linguaggio e il pensiero sono un tutt’uno, l’uno forma ed influenza l’altro vicendevolmente. Allo stesso modo, si può forse affermare, quindi, che le nostre mappe stradali, quello che si trova scritto e che ognuno di noi legge ogni giorno, senza rendersene conto, possono influenzare le mappe concettuali del singolo individuo e portare alla giustificazione collettiva di un passato che, invece, non può essere in nessun modo giustificato.
BIBLIOGRAFIA
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Lewin, T. (2021), Nothing is as it seems: ‘discourse capture’ and backlash politics. Gender & Development, pp. 253 -268.
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*Marianna Pederzolli è psicologa e psicoterapeuta in formazione, insegnante di Sostegno e di Scienze Umane e Filosofia nelle scuole superiori.
*Valentina Trinchero è laureata in Società e Sviluppo Locale presso l’Università di Alessandria e in Informazione ed Editoria presso l’Università di Genova.
Valentina Trinchero e Marianna Pederzollisono attiviste dell’associazione culturale Genova che osa.