Il potere della parola: Effetti del “politically correct” nel mondo scolastico

di Jessica Facoetti

“Nel nome il mondo viene alla presenza,
nel nome l’uomo si apre alla verità del mondo.
In esso la parola dell’uomo si apre,
prima ancora che alla conoscenza del mondo,
all’incontro con il mondo”.
(David Bidussa, storico)

Quante volte abbiamo sentito parlare di politicamente corretto in questi ultimi decenni. Viene utilizzato negli ambiti più disparati e sembra essere oggi un’espressione sulla bocca di tutti e “alla moda”. Ma siamo sicuri di sapere esattamente di cosa si tratta? Quella che segue è parte della definizione che ne dà Rita Fresu, professoressa di linguistica italiana all’Università di Catania, e che è contenuta nell’Enciclopedia dell’Italiano di Treccani (2011): “L’espressione angloamericana “politically correct” designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona”.

Una definizione che, se pensiamo anche solo a pochi decenni fa, sembrava non riguardare l’atteggiamento maggioritario.
Ma quando esattamente il politicamente correttofa la sua comparsa e su quali “spinte”? Domande imprescindibili se si vuole comprendere davvero il fenomeno e come questo si sia declinato nei vari ambiti.

A partire dall’avvento degli ideali della sinistra degli anni Trenta del Novecento e rinforzato dai moti sessantottini, i diritti di alcune minoranze e culture diverse da quella tradizionalmente dominante cominciano ad essere ascoltati e accolti, riconosciuti come valore aggiunto nelle loro diversità e non come necessari di “correzione” e omologazione. Sulla scia di questo, negli anni ’80 negli Stati Uniti si mira dunque a scardinare talune consuetudini linguistiche ritenute offensive nei confronti di tali minoranze – si veda ad esempio l’utilizzo dei termini afroamerican e coloured come sostituti di black o nigger. Si inizia così a impiegare l’espressione politically correct riferendosi a tale atteggiamento di inclusione e rispetto nei confronti di “determinate categorie di persone” (Fresu, 2011).
Anche in Italia, sebbene in ritardo rispetto ai paesi del Nord Europa, approda questa espressione, con le relative conseguenze sul piano della sensibilità linguistica. In alcuni ambiti specifici si sviluppa quindi la revisione di talune denominazioni, ritenute offensive o potenzialmente lesive di specifiche categorie. Solo per citare qualche esempio, nel campo medico-sanitario si tende sempre più spesso a utilizzare il termine assistito al posto di paziente, con l’idea di attenuare la connotazione di sofferenza di cui quest’ultimo termine sembra essere portatore. Relativamente a determinate problematiche di salute invece sono banditi termini che alludono direttamente a menomazioni, sostituendo termini come para/tetraplegico, sordo, cieco e handicappato rispettivamente con non deambulante, non udente, non vedente e diversamente abile.
Potrebbero essere centinaia gli esempi in questione, in quanto moltissimi sono gli ambiti “colpiti” da questo atteggiamento di correttezza politica e, sebbene in ognuno di essi vi siano risvolti e conseguenze interessanti del fenomeno, non è questa la sede per affrontarli tutti.
La riflessione qui proposta vuole richiamare la crescita delle nuove generazioni e il rapporto tra essi e questa relativamente nuova ideologia. I giovani sono infatti “impregnati” di politicamente corretto in modo nuovo rispetto a quelle generazioni che hanno visto il passaggio tra il pre e il post avvento di questo, attingendo e imparando da un vocabolario altrettanto nuovo. Tale vocabolario è nella società in senso ampio ma anche, e forse soprattutto, nella famiglia e in tutte quelle istituzioni impegnate nell’istruzione e nell’educazione di bambini e ragazzi. Potremmo allora domandarci quali influenze e conseguenze potrebbe avere l’ideologia del politically correct all’interno dei programmi educativi e d’istruzione delle Scuole e soprattutto in che modo questo possa toccare i delicati rapporti tra le nuove generazioni e gli insegnanti e i rispettivi ruoli.

“Il mio maestro guardava noi bambini e ci terrorizzava dicendo: <<Voi siete tutti delle viti storte. Io sono il paletto e il filo di ferro e vi raddrizzerò>>”. In questo piccolo stralcio, Recalcati (2014) confida del difficile rapporto col proprio maestro delle Scuole Elementari. Questo insegnante, con tale metafora botanico-disciplinare, delinea quella che era un’educazione scolastica piuttosto diffusa non troppi decenni fa, un’educazione che non lasciava molto spazio al rispetto per le diversità e specificità di ognuno. Uniformare e omologare, far rientrare bambini e ragazzi in un modello culturalmente predefinito, con l’idea forse di mettere ordine e di aiutare questi a definirsi in un percorso di crescita più chiaro e lineare. O forse anche per paura di doversi confrontare come insegnante con qualcosa di diverso dalla cosiddetta norma, qualcosa di nuovo e magari di incomprensibile ai propri occhi. Col risultato talora di “terrorizzare”, come ricorda Recalcati di quell’esperienza, oltre che di forzare il naturale percorso della vite.
Fortunatamente non tutti gli insegnanti dell’epoca erano così rigidi e severi. In ogni caso, la loro parola aveva un certo peso, un non so che di perentorio. Difficilmente infatti a uno studente o a un genitore sarebbe venuto in mente di criticare o rigettare apertamente le parole di un insegnante.
La cultura scolastica dominante non lasciava dunque troppo spazio alla diversità e alla libertà di espressione e potremmo definire tale contesto scolastico non particolarmente attento al politicamente corretto.

Senza pensare a forzature come nell’esempio personale di Recalcati, di ostacoli alla libertà d’espressione se ne possono trovare nelle scelte scolastiche più ordinarie e consolidate del tempo. Basti pensare a un esempio apparentemente banale come la divisa scolastica. Nonostante la mia giovane età, io stessa ho dovuto indossarla qualche tempo alla Scuola Media Inferiore: camicia bianca e pantaloni blu, per tutti. Ed era stata già una conquista non portare la gonna in quanto femmina!
L’omologarsi con una divisa formale ed elegante veniva forse ritenuto un gesto di rispetto nei confronti dei docenti e degli altri alunni, con l’idea che questa fosse una buona “etichetta” che rientrasse nei compiti educativi della Scuola promuovere. Ma, come detto, poteva rappresentare anche una forma di “controllo” della diversità, che talora può essere motivo di paura o quantomeno confusione.
L’ultimo anno era stato abolito questo rigido dress code e ognuno aveva avuto la libertà di vestirsi coi propri gusto e stile. L’avvento del politicamente corretto era nell’aria e i genitori ma soprattutto gli alunni chiedevano maggiori libertà d’espressione in tal senso. In tutto questo vi erano però dei limiti, invalicabili. Come il non indossare gonne o pantaloncini troppo corti né pantaloni strappati, non avere pance scoperte né maglie troppo scollate. Limiti spesso taciti e impliciti ma che tutti noi rispettavamo senza troppi problemi.

Sembra passato un secolo da allora eppure stiamo parlando di una ventina d’anni or sono. In parallelo col consolidarsi del politicamente corretto e del rispetto per la diversità e l’unicità, il dress code scolastico si permea di relativismo e diviene libera scelta del singolo studente. Basta passare davanti ai cancelli delle scuole per notare come ragazzi e ragazze non seguano un codice di abbigliamento specifico; spesso non si riscontra differenza tra l’abbigliamento intra ed extrascolastico. Ma in che modo questo tipo di cambiamento si può associare anche all’ideologia del politically correct?
Sono parecchi i casi di cronaca che hanno visto professori e studenti a confronto, se non in aperto conflitto, sul tema. In molti di questi casi sono seguite proteste accese e scioperi, motivati dai ragazzi da lesioni della propria libertà d’espressione, offese alla diversità e alla sensibilità, violenze verbali e ottusità mentale.
Solo per citarne alcuni, di seguito qualche stralcio di recenti articoli di giornale.

Il Liceo Fogazzaro di Vicenza [è stato protagonista] di uno sciopero [a seguito di alcune espressioni usate dalla Preside Maria Rosa Puleo] giudicate sessiste, relative all’abbigliamento di alcune allieve. La dirigente del Liceo aveva protestato per top e pance scoperte: <<Non si mostra la ciccia in quel modo>>. Durissima la risposta delle ragazze e dei ragazzi: <<Parole gravi che danneggiano la salute psicofisica degli adolescenti, molti dei quali soffrono di disturbi alimentari>> (La Repubblica, 2022).

<<Care ragazze – esordiva nella mailing list dell’istituto qualche giorno fa (un’insegnante del milanese, relativamente al fatto accaduto al citato Liceo Fogazzaro) – siamo tutte a vario titolo impegnate nell’affermazione della piena parità di genere e nella lotta contro le immagini che tendono a mercificare il corpo femminile e so che questa sensibilità è in tutte voi molto viva. Pertanto vi invito tutte a una riflessione>>.
Quella che segue è parte della risposta data da una studentessa alla professoressa all’interno della stessa mailing list: <<Ci sembra assurdo che una ragazza venga sessualizzata per ciò che indossa e che si pensi che dietro a questo modo di vestire ci sia sempre un secondo fine e non semplicemente l’idea che lei così si senta a suo agio>> (La Repubblica, 2022).

<<Una maglietta corta e delle parole di troppo. E’ rivolta nel noto Liceo scientifico Righi di Roma per una frase rivolta da una professoressa ad una alunna, colta mentre faceva in classe un video su TikTok. […] “Stai sulla Salaria”’, avrebbe azzardato la docente dopo avere visto il set improvvisato in aula e la maglietta della ragazza. […]

<<Domani tutti noi alunni ci vestiremo in modo da rompere il dress code che nel nostro liceo è rimasto all’800’ (afferma un amico della studentessa in questione)>> (Gazzetta del Sud Online, 2022).

Come detto, di recenti esempi di cronaca come questi ve ne sono un’infinità. Non è compito di questo articolo trovare le ragioni e i torti dei protagonisti in questione, anche perché, come spesso accade, questi sono fatti di sfumature di grigio e di aree che si sovrappongono. Quello che emerge con forza è il potere della parola. Fermo restando che alcune delle espressioni utilizzate da questi docenti potrebbero essere definite quanto meno indelicate, è interessante notare come vi sia una polarizzazione sugli specifici termini impiegati e venga totalmente bypassato il messaggio generale. Ma la cosa ancora più interessante è che tale termine venga estrapolato e decontestualizzato, al punto che con buona probabilità della vicenda i lettori non ricorderanno altro che questi e la lesione degli studenti che ne sono stati vittime. Ne consegue che l’insegnante verrà di contro visto come il reo della situazione, colui che deve assolutamente essere punito e le cui parole andranno rigettate e demonizzate in toto. In tal modo “tutta la complessità dell’esperienza umana [verrebbe] ridotta all’appartenenza a questa o quella categoria di presunti vittime o carnefici (bianco, nero, donna, trans, grasso, magro, ecc)” (Rielli, 2022). Sebbene questa, come detto, non sia la sede in cui commentare per filo e per segno gli accaduti come fossimo in un’aula di tribunale, potrebbe essere utile analizzare l’uso del linguaggio e il peso della parola, dato che è proprio quest’ultima l’“incriminata” in questi tesi rapporti tra studenti e insegnanti. Risulta infatti curioso che del commento: “Non si mostra la ciccia in quel modo” non sia rimasto altro se non la parola ciccia, immediatamente associata dai ragazzi al pericolo di ledere la sensibilità di coloro in lotta contro l’insicurezza del proprio corpo, chiamando in causa i disturbi del comportamento alimentare.

E ancora più curioso è il fatto che, in tutto questo, il messaggio implicito legato all’inadeguatezza dell’outfit della ragazza criticata sia stato completamente spazzato via o, peggio, minimamente visto e colto. La parola ciccia e dunque l’offesa verso quella categoria di ragazzi e ragazze che hanno problemi di sovrappeso e/o di accettazione della propria immagine corporea è la sola ad essere passata nella comunicazione. Stesso discorso potrebbe valere per l’osservazione indelicata dell’insegnante relativa ad un abbigliamento da Salaria. Un sarcasmo senz’altro pungente e inadeguato, che tuttavia ha fatto passare soltanto sessismo e sessualizzazione del corpo femminile e la dura lesione della propria libertà d’espressione.
Senz’altro da un lato alcuni insegnanti dovrebbero valutare meglio la scelta delle proprie parole e migliorare in quanto a comunicazione. Dall’altro, insegnare ed educare dovendo pesare ogni parola, consapevoli che una sbagliata potrebbe condizionare anche pesantemente la propria carriera, non dev’essere cosa semplice. Ma cosa ne pensano davvero gli insegnanti di questo nuovo contesto scolastico quando si dà loro modo di esprimersi liberamente, sapendo di essere coperti dall’anonimato?

<<Fare l’insegnante oggi… qualcosa di molto complesso… non dico che prima fosse facile ma senza dubbio oggi ti muovi su un filo teso e sottile. […] le dico solo che non vedo l’ora di andare in pensione, per fortuna manca poco! E non perché abbia perso la passione per il mio lavoro, tutt’altro! Non riesci a muoverti con la libertà di un tempo, devi contare le parole>>.

<<A volte ho paura di parlare… è vero, mi dirà, hai pochissima esperienza e tenere una classe delle superiori non è facile… ma quello di cui parlo è diverso: mi sento competente nelle mie materie e non temo di dire cose sbagliate in questo senso. La mia paura sta in quei contenuti più “sociali”, non so se sto usando il termine corretto… quelle parole che ti si possono rivoltare contro perché prese ed estrapolate, dette magari per intervenire nei confronti di un atteggiamento di uno studente, per il bene suo e della classe… […] vede, mi vengono in mente alcuni termini ma mi autocensuro: sbagliare, errore, correggere… vade retro! Non si possono dire! Ripeto, non so come spiegarmi meglio di così: ho paura di parlare>>.

Quelle che sono seguite sono testimonianze anonime di due professoresse con età, esperienza, tipologia di insegnamento e di scuola di appartenenza diverse tra loro. Eppure un comune denominatore sembra essere presente: il peso delle parole. Sono solo poche righe eppure sufficienti a far percepire un vissuto di difficoltà, disagio e talora paura nel proprio ruolo di insegnante. A proposito di paura, annoto come entrambe, prima di rispondere a qualsiasi domanda, abbiano richiesto esplicitamente di risultare anonime, per il timore che le suddette parole venissero criticate o peggio.
Queste parole e queste paure dipingono un quadro non particolarmente confortante nel rapporto tra studenti e insegnanti. Qual è la libertà di movimento che questi ultimi hanno nel loro ruolo? Si dice spesso che l’insegnante non dovrebbe occuparsi solo dell’aspetto didattico, ma anche di quello educativo. Siamo certi che oggi sia possibile svolgere liberamente anche quest’ultimo? Ma ancor prima, siamo sicuri che almeno nel ruolo didattico sia possibile muoversi così liberamente? Almeno lì dentro l’insegnante è libero di proporre, spaziando da questo a quel contenuto, portando ogni contributo culturale agli studenti? Quello che sta accadendo in Scuole e Università nel mondo, in nome della correttezza politica, sembra rispondere in modo negativo a tutte queste domande.

Alzi la mano chi di noi al quale è stato vietato lo studio di qualche autore di letteratura a Scuola o all’Università. Qualcuno potrebbe forse commentare “mica siamo nel Medioevo o in un momento storico di oscurantismo”. Eppure, nel millennio della modernità e della libertà di parola qual è il nostro, alcune scelte legate all’istruzione scolastica sembrano dimenticarsi di questa conquistata libertà.
Come rileva lo storico Capozzi (2018), “Da decenni in scuole e università dei paesi anglosassoni si susseguono le richieste di censura o di preventive istruzioni agli studenti rispetto a opere che […] si ritiene possano discriminare, offendere o turbare certi soggetti: Ovidio perché nelle Metamorfosi compaiono ‘pornografia e stupri’; Shakespeare […] per una serie infinita di motivi, dalle scene sessualmente esplicite al “razzismo antisemita” ne Il Mercante di Venezia. Un classico come Huckleberry Finn di Mark Twain è stato recentemente ripubblicato sostituendo la parola nigger con black e slave, così come per le traduzioni in altre lingue”, italiana inclusa; scelte che, spiega l’autore, risultano anacronistiche, non consideranti il linguaggio e la cultura dell’epoca in cui sono stati prodotti. Infatti secondo Capozzi: “Il termine negro all’epoca non solo non aveva alcun significato dispregiativo nei confronti delle persone di colore, ma nel periodo della decolonizzazione quel termine è stato rivendicato con orgoglio sia dai movimenti per i diritti civili degli afroamericani che da quelli di liberazione africani”. L’autore porta come esempio il concetto di negritudine elaborato dallo stesso poeta e leader politico senegalese Lèopold Sèdar Senghor, primo presidente del Senegal dopo l’Indipendenza, “come simbolo del movimento di rinascita culturale e politica africana”.
E non solo su arte e letteratura, persino su una materia composta da “fatti” come la storia si abbatte questa “condanna retroattiva”: fenomeni storici come violenze e genocidi vengono “rivisitati con l’aggiunta di prese di distanza o di scuse anticipate a soggetti che potrebbero considerare come un aggressione anche il solo parlarne. […] Nelle istituzioni scolastiche tali concetti sono spesso posti in questione o addirittura respinti come eredità negative di un passato da cancellare in nome di una cultura più inclusiva. […Questo] ha dunque prodotto regole e codici severi che disciplinano tanto la condotta di professori e studenti quanto i programmi di studio. […]
Questa costante pressione (al politicamente corretto) produce un colossale processo di ridefinizione del linguaggio, che si traduce nella rimozione di espressioni, definizioni, modi di dire e nella corrispondente adozione di una serie innumerevole ed elaborata di eufemismi, neologismi, perifrasi” (Capozzi, 2018).
Ancora una volta però il punto rischia di divenire più la singola parola che il concetto di fondo, più lo specifico termine che il senso generale del messaggio.

Senza che questo risulti un astratto filosofeggiamento, vale la pena forse svolgere qualche riflessione circa il fine e il senso della parola e il cambiamento del rapporto tra questa e la realtà che dovrebbe, in quanto veicolo, rappresentare. Secondo Civello (2021), docente di diritto penale e avvocato a Padova: “IUl verbo, la parola, il logos non sono più puri strumenti e mezzi per un fine che li trascenda, vale a dire la significazione di una realtà che è sì indicata dalla parola ma non è la parola stessa, non si identifica col “segno”; al giorno d’oggi, la parola come “segno” tende sempre più ad assumere una sorta di statuto ontologico autonomo, come se il significante stesso potesse fare a meno della realtà oggettiva significata”.
Queste osservazioni sono di grande interesse pensando al mondo dell’insegnamento. Secondo Sant’Agostino infatti: “Noi parliamo al fine di insegnare o rammentare” (Bisogno, 2014); ogniqualvolta facciamo ricorso alla parola orale o scritta stiamo insegnando al nostro interlocutore un determinato concetto o anche solo le nostre idee o volontà. Ma l’apprendimento del messaggio va oltre la singola parola; senza il contesto infatti il messaggio non può essere colto nel suo pieno significato. Nel suo capolavoro De Magistro, in cui Sant’Agostino si occupa di linguaggio nell’ambito dell’educazione e della didattica, egli conclude che: “Noi non possiamo affatto dialogare se l’intelletto, udite le parole, non si conduca alle cose di cui le parole sono segni. […] Le cose che vengono significate sono da tenere in considerazione più dei segni. […] La conoscenza in sé, che ci perviene per mezzo di questo segno, [è] da anteporre al segno stesso”.
Secondo il già citato Civello invece: “Il pensiero moderno e soprattutto quello contemporaneo […] disarticolano progressivamente il nesso ontologico tra segno linguistico e realtà oggettiva, tra significante e significato”. In questa moderna svolta linguistica “il linguaggio è la casa dell’essere”, come recita l’incipit della Lettera sull’«umanismo» (Heidegger, 1995), “quando invece per oltre duemila anni si era pensato l’esatto contrario, vale a dire che l’essere è la casa del linguaggio, nel senso che ogni segno non è mai, assurdamente, segno a se stesso” (Civello, 2021).
Secondo l’autore, il fenomeno del politicamente corretto ben si esprime in quanto argomentato: “L’uomo occidentale ha via via cercato di autonomizzare il significante dal significato, il segno linguistico dalle cose reali indicate dal segno: una volta affermato che la parola dell’uomo è dotata di vita propria, di una propria autonomia ontologica rispetto alle cose reali del mondo, il politicamente corretto diviene una conseguenza pressoché necessaria e inevitabile”. In tal modo, le parole saranno “parole in libertà” e la conseguenza sarà porre attenzione “in misura pressoché esclusiva ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli oggetti reali del pensare: da ciò nasce l’attenzione quasi maniacale verso i toni e gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i contenuti delle idee medesime”.

A proposito allora delle domande poste qualche riga fa circa la libertà dell’insegnante nel proprio ruolo didattico ed educativo, “contare le parole e avere paura di parlare” non sembrano più espressioni così esagerate, impiegate da insegnanti spaventati oppure poco sicuri del proprio ruolo. Queste rendono l’idea della tensione di questi ultimi all’attenta e continua ricerca delle parole e conseguentemente di una Scuola che, in nome del rispetto e della tutela della sensibilità degli alunni, “non guida, interviene poco, si china procedendo a piccoli passi […], prestando attenzione a non urtare alunni fragili come cristallo (potenziali futuri uomini beta o fiocchi di neve, come ironicamente vengono apostrofati in USA). […] La parola diventa così pesata, deformata o censurata per paura della reazione [altrui]. […] Così, nel tentativo di sembrare giusti e tolleranti, un eventuale problema permane e nel peggior dei casi si consolida” (Orizzontescuola, 2020).
Particolarmente esplicativa risulta la notizia apparsa su Il Foglio nel gennaio 2017 (Righetto) circa il divieto di alzata di mano in un liceo inglese. Il preside Barry Found del Liceo Samworth Church Academy School di Mansfield avrebbe vietato l’alzata di mano nelle classi durante le lezioni, sostenendo che questa sia: <<una pratica antiquata che non aiuta l’apprendimento degli studenti>>. Tale pratica, a detta del Preside, risulterebbe non politically correct, in quanto non rispettosa dei ragazzi “più timidi”. Secondo Righetto, questa decisione risulterebbe invece “priva di una ratio didattico-formativa”, in quanto non consentirebbe di andare alla fonte delle difficoltà sociali ed emotive di quei ragazzi “più timidi”, bensì nasconderebbe il problema. Nel maldestro tentativo di proteggere gli alunni più fragili, quelle categorie che per essere politicamente corretti andrebbero maggiormente tutelate, non solo non si dà modo a questi ragazzi di confrontarsi con le proprie difficoltà e crescere ma si attua la “sottovalutazione totale dell’insegnante e del suo ruolo formativo”.

Sembra allora che le conseguenze di questo “appiattimento” del ruolo dell’insegnante possano portare a un minor intervento non solo nei confronti di quegli alunni che potrebbero manifestare difficoltà evolutive o comportamenti problematici ma anche di coloro che necessiterebbero di consigli e “dritte di vita”. Secondo il già citato Civello (2021), il “neutralismo” che si cerca di ottenere con questa ideologia potrebbe portare a situazione di “apparente silenzio sociale”, il quale però celerebbe le stesse criticità sociali che vengono soltanto occultate più che realmente superate. E il silenzio potrebbe essere la non-risposta che da insegnanti si rischia di dare agli studenti per paura che un determinato intervento, seppur in buona fede e con intento educativo, possa essere frainteso e risultare dunque offensivo e irrispettoso. Così, il politicamente corretto rischia di portare a mera censura e a immobilismo, a causa del timore di una potenziale lesività.
Cinzia Sciuto (2022) sostiene che: “Non offendere’ [sia] diventata la nuova formula della censura […], operata contro qualunque osservazione critica. La propria sensibilità offesa è diventata una sorta di altolà che viene sollevato di fronte a qualunque interlocutore che osi mettere in discussione i presupposti della propria identità, creando in tal modo delle zone franche – dei tabù – nelle quali la critica non è più ammessa”.
Al riguardo, guardando al mondo dell’insegnamento: “Nelle università americane i corsi di studio vengono ormai sistematicamente introdotti da trigger warning che mettono in guardia alcune categorie di studenti dal fatto che i contenuti del corso potrebbero urtare la loro sensibilità; e nelle case editrici si stanno diffondendo i cosiddetti sensitivity readers, figure che hanno il compito di verificare che il testo in via di pubblicazione non contenga rappresentazioni stereotipate e offensive di una certa comunità o linguaggio problematico” (Sciuto, 2022). Secondo la giornalista, questo atteggiamento non riconosce e confonde “la differenza tra offesa diretta a una persona o a un gruppo di persone e critica, anche radicale e urtante, a un’idea, a una prassi, a una tradizione, a un’opinione, a una fede”. Annotando come questo sia applicabile solo ad alcune categorie di persone, quelle considerate oppresse, discriminate o più vulnerabili, Sciuto si domanda se siamo certi che “davvero il modo migliore per tutelare i gruppi discriminati [sia] renderli immuni da qualunque critica”. È lo stesso interrogativo che potremmo porci relativamente ai giovani studenti. Davvero il modo migliore per proteggere i nostri ragazzi nel delicato momento evolutivo di formazione della propria identità è quello di non proporre loro osservazioni o critiche? Siamo sicuri che quella che stiamo chiamando libertà d’espressione e rispetto delle diversità e unicità non serva in realtà anche a celare in questa “snowflake generation” (2016) una forte fragilità identitaria che non sopravviverebbe a un confronto o a una critica?
È arricchente e necessario lasciare aperte a bambini e ragazzi tante “finestre” da cui guardare fuori, tante prospettive da cui osservare il multisfaccettato reale, è qualcosa di profondamente rispettoso delle proprie scelte, qualsiasi esse siano, verso la propria realizzazione personale. Come infatti saggiamente ricorda il giornalista americano Harris:”Il compito della scuola è trasformare gli specchi in finestre”. Ma i nostri studi e il nostro lavoro come psicoterapeuti ci insegnano anche che talora, specialmente nei momenti evolutivamente parlando più delicati e impegnativi della vita, si ha bisogno anche di “specchi”, di qualcuno che ci guardi con affetto e ci rimandi la nostra immagine fedele a quello che siamo ma che al contempo “rifletta” in noi proponendosi come modello e guida. E questo a volte significa anche ricevere dei no, delle critiche, dei limiti, a partire dai quali poter costruire un sé più forte e stabile, aperto al reale confronto con l’altro e con se stessi, un sé che possa non sciogliersi sotto al primo raggio di sole. Perché “Un no [e potremmo aggiungere anche una critica] non è necessariamente un rifiuto dell’altro o una prevaricazione, ma può invece dimostrare la fiducia nella sua forza e nelle sue capacità” (Phillips, 2003).
Certo, prima di tutto un insegnante dovrebbe essere in grado di porsi come un vero modello educativo e l’eventuale critica dovrebbe essere costruttiva e rispettosa dell’altro. Taluni casi di cronaca purtroppo evidenziano limitate capacità comunicative e di accoglienza, sensibilità e comprensione di alcuni insegnanti nei confronti dei propri alunni.
Forse il modo migliore per essere politicamente corretti non consiste allora nell’evitamento di specifici termini o messaggi “scomodi” per paura di urtare la sensibilità altrui ma nel proporre ai ragazzi dei contenuti e non solo delle parole di rispetto di sé e dell’altro, esortando loro ad esplorare davvero se stessi e a guardare con sguardo critico a tutte le sfaccettature di sé e del mondo, ponendosi come veri modelli che si espongono e si mettono in gioco essi stessi.

<< Perché sono salito quassù? Chi indovina?>>
<< …Per sentirsi alto>>
>> No […]. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva>>

Sono passati diversi decenni da quando il coinvolgente Professor John Keating esortava i suoi alunni a guardare a sé e al mondo da diverse prospettive ne L’attimo fuggente (1989). Credo che il lavoro estremamente educativo di questo docente sia tale soprattutto grazie allo strumento principe adottato: se stesso. Non è possibile chiedere ai nostri ragazzi di salire da soli sui banchi o lasciarli da soli a guardare fuori dalle finestre; ci si deve mettere in discussione nel proprio ruolo educativo e porsi come modello, mettere in gioco se stesso, rischiando anche di esporsi alla critica. Keating non propone un messaggio da prendere e assorbire così com’è ma neanche lascia soli i suoi alunni a cercarne uno; questi ragazzi fanno proprio lo sguardo che il loro docente ha sul mondo ed egli rispetta e accoglie le varie prospettive che ciascuno dei suoi studenti assumerà da lassù.
L’odierno appiattimento del ruolo dell’insegnante a mero strumento di trasmissione di contenuti culturali (se socialmente accettati) rischia allora di non arricchire l’esperienza di crescita e di formazione dei nostri giovani, che al contrario proprio in questa fase di vita gioverebbero di riflessi di sé nella relazione con l’altro, un altro che si ponga anche come guida, come modello, rispettoso delle diversità e unicità di ognuno e del percorso che ogni vita/e prenderà.

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