di Agostino Tolu
Introduzione
Nel suo “Interpretazione di culture” (1973), Clifford Geertz cita una storiella, a quanto pare molto in voga tra i salotti filosofici di Oxford a lui contemporanea, raccontata da Gilbert Ryle nel saggio “The Thinking of Thoughts” (1968): un pensatore si sofferma a considerare due ragazzi che contraggono rapidamente la palpebra dell’occhio destro. Nel primo caso, si tratta di un tic involontario; nell’altro, di un segnale di intesa, di un ammiccamento. I due movimenti risultano identici, e un’osservazione di tipo fotografico, o “fenomenico” non è sufficiente a distinguere un tic da un ammiccamento, e neanche per valutare se entrambi, o uno dei due siano tic o ammiccamenti[1].Tuttavia chiunque sia stato abbastanza sfortunato da aver confuso l’uno per l’altro sa quanto sia grande la differenza tra un tic e un ammiccamento, quando un tic è contrarre una palpebra e ammiccare equivale a condividere un codice pubblico che ci dona un minuscolo pezzo di senso di un mondo socio-culturale.
Discostandoci da Geertz (che cita questo passaggio per darci un esempio potente ed ineccepibile dell’importanza dell’interpretazione come modalità di lettura e significazione del mondo) inseriamo ora un elemento perturbante: un terzo ragazzo che, giunto sulla scena, osserva tali contrazioni di palpebre, tic, ammiccamenti e sbotta, offeso, esprimendo il suo disappunto per tali disgustosi comportamenti. I due ragazzi, sbigottiti, non comprendono il motivo di tale reazione e se ne lamentano, tentando di spiegare il motivo che c’è dietro ai loro rispettivi gesti. Potremmo scoprire che, in realtà, uno dei due ragazzi sapeva benissimo di offendere il terzo arrivato tardivamente e ha continuato a contrarre le palpebre perché, della sua sensibilità gli interessava ben poco e anzi, intendeva provocarlo. O forse tutti e due non conoscevano gli effetti nefasti dei loro comportamenti e si sentirono, dopo l’accaduto, seriamente in colpa. O ancora, il terzo ragazzo finse di offendersi al fine di provocare un possibile senso di colpa, o per chissà quale altro motivo. Ma non ci è dato conoscere con una certa sicurezza, né ci interessa sapere, quali fossero le motivazioni dietro alle azioni e reazioni di ciascuno degli attori presenti in questa storiella.
Ciò che è interessante notare, in questo frangente, è come l’interpretazione argomentata da Geertz risulti essere un processo che può sfociare in un incomprensione potenzialmente conflittuale; che per un malinteso, per un codice pubblico non condiviso a volte può nascere una disputa, ci si può offendere, ci si può far la guerra.
D’altronde, il “politicamente corretto” è essenzialmente il tentativo di evitare questo conflitto: impedire che il terzo ragazzo risulti offeso, ispirando i due ragazzi originariamente presenti sulla scena a interrompere i loro tic e ammiccamenti nel momento in cui esso li raggiunge perché consapevoli che tali comportamenti potrebbero essere lesivi della sua dignità, offenderlo ecc.. Essi, in tal senso, dovrebbero condividere un codice simbolico, culturale, che riconosce il contrarre la palpebra come un gesto offensivo, indecente, irrispettoso o anche solo poco carino nei confronti di qualcuno, e poter riconoscere questo qualcuno nel terzo ragazzo sopraggiunto successivamente.
Più specificamente, il “politicamente corretto” non nasce per tutelare indistintamente tutti, ma si concentra specificamente su coloro che appartengono a contesti sociali, culturali, aggregativi considerati “marginali”, “minoritari” in quanto a potere politico, “svantaggiati”, maggiormente “fragili”.
In un mondo globalizzato come quello attuale di possibili conflitti come questo ve ne sono, quotidianamente, almeno quante sono le persone che lo abitano, e da un punto di vista antropologico è sicuramente più interessante evitare di esporne i più svariati esempi che ogni contesto sociale passato, presente e futuro ha visto avvenire all’interno della propria storia, e concentrarsi invece sulle contraddizioni che li abitano, e che caratterizzano il concetto di “politicamente corretto” senza avere di quest’ultimo una concezione a priori.
È possibile che, nel mondo contemporaneo, non esista relazione più esplicita (che l’antropologia, in tutte le sue correnti e sfumature, ha trattato e continua a trattare in maniera vastissima) di quella intercorrente tra idea di cittadinanza, diritti umani universali e processi migratori. Il rapporto tra questi concetti è attraversato da molteplici sfaccettature dal peso politico talmente rilevante da determinare la fisionomia stessa del mondo che abitiamo, e il “politicamente corretto” si muove, si esprime, trova spazio di azione all’interno di questo rapporto nelle modalità più svariate; vedremo quale contraddizione si scatena di conseguenza, e quanto è grande lo scarto derivante da esso.
Diritti umani, cittadinanza, migrazioni
Nella loro lunga e approfondita analisi dei metodi di gestione dei confini, da parte dell’organizzazione capitalistica contemporanea, in quanto luoghi di transito della forza lavoro, tanto rigidi quanto porosi nella loro consistenza “governamentale”, Mezzadra e Neilson dedicano ampio spazio alla questione dei diritti umani. Secondo i due autori: «Oggi i diritti umani costituiscono il quadro dominante al cui interno le questioni dei confini e della migrazione sono affrontate nel mondo. (…) Analizzare il nesso tra diritti umani e migration management significa riconoscere che i diritti umani giocano un ruolo nello stabilire tanto le condizioni nelle quali l’attraversamento del confine può essere bloccato o rallentato, quanto quelle in cui può essere facilitato. (…) Oggi i diritti umani stanno sempre più diventando una componente chiave nei regimi migratori e di confine sul piano mondiale»[2].
Inoltre, «L’umanitarismo ha determinato innovazioni nei modi governamentali di amministrazione, rendendo il controllo del confine un affare più complesso, polimorfo ed omogeneo»[3]. Tutto ciò fa giungere i due autori alla conclusione che: «Il sistema internazionale dei diritti umani è solo un regime governamentale tra gli altri operativi al confine. In alcuni casi la spunta, fornendo efficacemente un contesto di limitazione per altri regimi (…), in altri casi viene ignorato o accantonato». Esso contribuisce ai processi di sicurizzazione attuati dai vari attori governamentali nella gestione dei confini del capitalismo contemporaneo, dal momento che «gioca la partita della differenziazione tra i richiedenti asilo “genuini” e i migranti “illegali”, aiutando i primi attraverso la condanna dei secondi e giustificando così i controlli di confine»[4].
Attraverso le riflessioni portate avanti da Mezzadra e Neilson, ci è possibile giungere alla conclusione che questa particolare tipologia di diritti sia più vincolante ad un sistema regolamentato da interessi ben precisi, che garante delle libertà e delle possibilità connesse ad essi. Ma è Gunther Teubner, giurista e sociologo del diritto tedesco, a muovere la critica più sferzante all’applicazione dei diritti umani nella gestione dei confini; egli sostiene che la questione dei diritti umani necessita di essere ripensata nei termini di come i conflitti di confine tra differenti regimi societari urtano i diritti di gruppi o individui. Poiché non esiste nessuna corte suprema per la risoluzione di questi conflitti, essi possono essere solo risolti dal punto di vista di uno dei due regimi in conflitto. Ciò significa che il tentativo di confrontarsi con il problema dei diritti umani attraverso le fonti del diritto appare una soluzione impossibile da attuare, portando Teubner a sostenere che la giustizia dei diritti umani può, al massimo, essere formulata in negativo. È rivolta a rimuovere le situazioni ingiuste, non a creare quelle giuste.
Diventa abbastanza chiaro dunque come questa tipologia di diritti, nel momento in cui ne vengono messe in campo le forze, dimostri tutti i suoi limiti nel relazionarsi ad un sistema governamentale che tiene conto della sua esistenza solo in determinati frangenti. Tutto ciò accade soprattutto perché, secondo Mezzadra e Neilson, «la moltiplicazione dei confini nel mondo contemporaneo», cioè la crescita esponenziale di linee di demarcazione tra status sociali e giuridici, all’interno come all’esterno, e allo stesso tempo eccedenti i confini dello stato-nazione, avvenuta dalla metà degli anni ’70 ad oggi, contribuisce a fratturare «la figura unitaria del cittadino e quella dell’umano rispetto ai diritti umani»[5]. La riflessione portata avanti dai due autori, a questo punto, ci permette di considerare la questione della produzione della soggettività del cittadino. Questa specifica figura è, secondo Étienne Balibar, «il risultato di molteplici processi di costruzione di confini giocati su un terreno “antropologico”. Tali processi producono la figura del cittadino “normale”, ritagliandola da un umano che è costantemente diviso e selettivamente interpretato secondo criteri di classe, genere, razza, sicurezza ed estraneità. (…) La cittadinanza appare come una macchina di differenze»[6].
Se dunque la formulazione di un’idea di cittadinanza necessita di un opposto a cui riferirsi per definire se stessa, in un mondo strutturato attraverso rapporti economici come quello contemporaneo dovremo riconoscere la rilevanza che acquisisce la figura del cittadino-proprietario privato, possessore di merci, rispetto a quella del lavoratore che possiede una sola tipologia di merce, la sua forza lavoro appunto. Secondo Marx, la produzione di soggettività nel mondo capitalistico avviene sempre in relazione alla forma-merce, la quale esercita un dominio sul rapporto sociale esistente tra gli uomini[7]; una merce, infatti, non potendo scambiarsi da sola, ha bisogno di particolari tutori, i possessori di merci, i quali vengono descritti da Marx in quanto persone.
Esse si relazionano tra loro attraverso un rapporto giuridico, denominato contratto, attraverso il quale essi possono appunto riconoscersi reciprocamente quali proprietari privati. Questi ultimi esistono solo attraverso tale relazione[8].
Commentando il pensiero di Marx, Mezzadra e Neilson ricordano come non vada dimenticato: «Che la stessa forza lavoro è una merce. (…) Dietro la maschera della persona giuridica agisce un mix di circostanze variegate e storicamente differenziate che costringono i soggetti incarnati a rendere merce la propria forza lavoro. La specificità della forza lavoro è che essa è inseparabile dal corpo vivente del suo portatore. (…) Ciò rimane vero attraverso un ampio spettro di situazioni, (…) dalle classiche disposizioni contrattuali descritte da Marx, alla coercizione della schiavitù»[9].
È per questo motivo che, terminano i due autori, «La figura del lavoratore, intesa in questo senso allargato, non può mai essere equiparata a quella del cittadino. Allo stesso tempo, tale figura non può essere ridotta alla persona giuridica, sia perché le modalità giuridiche per regolare il lavoro coesistono con altre forme di controllo, sia perché molti rapporti di lavoro sfuggono alla regolazione standardizzata attraverso il contratto»[10]. In pratica, l’essere in possesso dello status di cittadino, in quest’accezione, comporta la necessità di essere “possessori di merci”, status che difficilmente potrà acquisire chi, spesso, non “possiede” neppure la propria forza lavoro.
Il concetto di “inclusione differenziale” tenta di fare i conti con la crisi della figura unitaria del cittadino e con la corrispondente produzione di condizioni molteplici di “cittadinanza parziale” o “semi-cittadinanza”.
Questa violenta disarticolazione della figura del “cittadino-lavoratore”, che può essere compresa, secondo Saskia Sassen, solo «Da un’analisi che operi ai bordi dello spazio della cittadinanza, dato che (…) quel soggetto politico che è “riconosciuto” e non autorizzato, o in altre parole, il migrante “illegale”, è non solo soggetto dell’esclusione, ma diventa anche un attore chiave nel riplasmare, contestare e ridefinire i confini della cittadinanza»[11], risulta comunque impossibile da contrastare in quanto, secondo Mezzadra e Neilson, l’opera di contestazione e ridefinizione attuata dal migrante “illegale” nella lotta al confine si dimostra quasi sempre incapace di «garantire o mantenere un qualche status di cittadinanza»[12], a causa del venir meno di quell’oscillazione tra una “politica dell’insurrezione” e una “politica della costituzione” che, secondo Balibar, caratterizza la politica moderna[13], e che storicamente è stato risolto in molti modi, tra cui: «Le disposizioni costituzionali che hanno puntato a rendere la lotta di classe produttiva all’interno della “democrazia conflittuale” simboleggiata dal welfare state»[14].
Appare chiaro, a questo punto, come la soggettività del migrante attualmente si ritrovi a fare i conti con un mondo che non gli riconosce statuto giuridico e di diritto in quanto lavoratore (oppure che lo fa attraverso un processo di “inclusione differenziale”, concetto con cui Mezzadra e Neilson vogliono intendere quelle pratiche di selezione su base razziale, linguistica, di genere e di “potenziale d’uso” attualmente in atto al confine), e che spesso decide di ignorare ciò che dovrebbe, nell’immaginario comune, riconoscergli in quanto appartenente alla specie umana.
Un processo di esclusione (o di inclusione differenziale, come appena scritto) che si esprime in prima istanza, attraverso il linguaggio del diritto, tramite l’ideazione e la pratica attuazione di provvedimenti legislativi, sia da parte dello stato nazionale, sia da parte di attori governamentali eccedenti ad esso.
Srećko Horvat cita al riguardo il caso della famosa legge Bossi-Fini del 2002; il filosofo croato ci fa notare che: «Il principio di questa politica è che i permessi di soggiorno devono essere legati al contratto di lavoro; al termine del contratto di lavoro, termina anche la validità del permesso. La legge Bossi-Fini ha aperto la strada all’odierno stato di polizia, (…) e i datori di lavoro ora possono letteralmente ricattare molti immigrati, poiché hanno nelle proprie mani la possibilità di estendere o meno il permesso»[15]; aggiunge poi che: «Un’ulteriore problema della Bossi-Fini è di essere basata su una contraddizione interna: da una parte l’immigrato non può avere un contratto se non ha uno statuto legale, dall’altra non può avere uno statuto legale se non ha un contratto»[16]. Horvat conclude che: «Il razzismo è così una sorta di universalismo: è cioè basato sulla natura universale della specie umana, nel senso che gli ‘’stranieri’’ (gli immigrati, coloro che non sono cittadini) non sono davvero persone»[17].
Questo ambiguo e perverso rapporto tra lavoro e cittadinanza che caratterizza il soggetto-migrante viene sottolineato anche da Marco Aime, che nel suo “Senza Sponda. Perché l’Italia non è più una terra di accoglienza” (2015) scrive, senza troppi giri di parole, come noi occidentali, noi europei: «Non siamo più capaci di pensare agli altri come a nostri simili, ci chiudiamo nel recinto della cittadinanza, dell’identità, della paura. (…) Li escludiamo, non li ammettiamo al “club” della cittadinanza, di quelli che hanno quel “diritto ai diritti” che ti consente di batterti per rivendicare i tuoi, di diritti. L’occidente, così pronto ad esportare democrazia in tutto il mondo, non vuole applicarla a casa sua. La disuguaglianza di classe oggi è sostituita dall’esclusione sociale o, peggio ancora, l’esclusione sociale si è aggiunta alla disuguaglianza di classe. (…) Ci servono le sue braccia, ma non la sua persona. Non lo ammettiamo al club, ma non lo cacciamo via fino a che non può essere sfruttato dalle mafie che fingiamo di non vedere»[18].
Questa lunga disamina dei modi con cui le politiche governamentali messe in atto nella gestione dei confini dall’unione europea e non solo nel gestire il fenomeno migratorio da l’occasione di comprendere la contraddizione evocata alla fine del precedente paragrafo.
Se appare assurdo, giunti a questo punto, non inserire il “migrante” come soggetto politico tra le “minoranze” svantaggiate da tutelare (d’altronde, l’uso del termine “migrante” viene utilizzato esclusivamente per generalizzare un fenomeno, dimenticandone le soggettività che lo rappresentano) risulta evidente come tale pratica non si curi minimamente dell’effettiva realtà delle cose. Come abbiamo avuto ben modo di vedere, ci vuole ben altro che una tutela dei termini o dei nominativi (per quanto sacrosante e necessarie) con cui rivolgersi e definire una soggettività, in quanto in ballo ci sono la sopravvivenza e la possibilità di riproduzione sociale, e non solo la dignità delle persone. Ma risulta evidente come gli interessi in ballo siano di un genere che permette di fare delle distinzioni tra diverse priorità, e il “politicamente corretto”, in tal senso, sembra la deriva giusta, ma totalizzante, figlia di un certo relativismo, di una filosofia, di un pensiero che si concentra su determinate cose evitando, più o meno inconsapevolmente, di affrontarne altre.
Questo relativismo, a sua volta, deriva da un fenomeno, il multiculturalismo, che è necessario analizzare per comprendere ancora meglio la natura di un pensiero che pare, fallendo nella sua applicazione pratica, si sia concentrato nello stabilirsi su un altro piano, quello linguistico.
Propositi, criticità del multiculturalismo e contraddizioni del “politicamente corretto”
Alla base della fortuna del multiculturalismo sta l’assunto, elaborato durante il XVIII secolo, che: «La base su cui le società occidentali si erano costruite, la tolleranza e il pluralismo, fosse un dato definitivo»[19]. Questa base consisteva in una forma di “universalismo procedurale” «In quanto cultura dell’inclusione di tutti nello stesso universo statuale, a prescindere dalle differenze etniche, linguistiche e religiose»[20]; il multiculturalismo, secondo i due autori:«Propone una condizione di giustizia ed uguaglianza fra tre parti: coloro che credono in una cultura nazionale unificata; coloro che riconducono la loro cultura all’identità etnica; coloro che considerano la propria religione come la propria cultura»[21].
Perché fosse reso possibile a suo tempo, la cultura illuminista aveva elaborato un tipo di universalismo basato sulla ragione: spetta ad essa di fornire sia i criteri fondativi di un’etica comune, sia le regole razionali per risolvere i possibili conflitti tra i valori.
In questo senso, «L’universalismo dello Stato moderno (…) poteva avere un universalismo solo di tipo procedurale. Ma con l’attribuire eguale dignità a ogni credenza e valore e con l’eliminare ogni discriminazione razziale, etnica e culturale» Berzano e Genova ci fanno notare che «Tutto diventa egualmente relativo. (…) Tutti i valori tendono a perdere la funzione integrativa primaria: essi non sono più il fondamento delle relazioni sociali, ma diventano soltanto dispositivi, modi mediante i quali la comunicazione sociale può eventualmente non venire interrotta»[22].
I due autori terminano la loro disamina notando i numerosi problemi che questa concezione di universalismo porta in seno, in primis la questione della tolleranza tra le parti: non è chiaro, in quest’accezione, come ci si debba comportare nei confronti di chi, partecipe della comunità multiculturale, non sia disposto a tollerare chi è diverso da lui e vive all’interno della sua medesima comunità. Inoltre, la tolleranza da un punto di vista “razionalista” non risulta essere soltanto un atteggiamento psicologico, e nemmeno un valore, ma è: «L’espressione procedurale di una regola super partes. (…) Non si tratta tanto di rendere possibile la reciproca comprensione, quanto di avere regole precise per un confronto che elimini ogni forma di pregiudizio. La tolleranza deve stare quanto più possibile lontana da ciò che vuole avvicinare»[23].
Secondo Berzano e Genova: «Nonostante i meriti che l’universalismo procedurale ha trovato in passato nel controllare l’ordine sociale, esso manifesta oggi i limiti a fronte dei processi di globalizzazione che vanificano in più settori la sua capacità ordinatrice e di controllo sociale dello stato», concludendo che: «La grande tentazione storica di tutte le culture e religioni è di ricercare solo l’universalità, dimenticando la totalità. In tal modo dimenticano la complementarietà e puntano direttamente all’identità, trasformando quanto più possibile gli altri uguali a sé»[24].
Un altro autore che ha analizzato il multiculturalismo e il suo rapporto con la questione dei diritti umani universali è Slavoj Žižek: egli ci fa notare che: «Già al culmine del multiculturalismo liberale voci critiche avevano segnalato la radicale asimmetria fra il cittadino bianco etnicamente neutrale e gli “altri” etnici, riconosciuti e tollerati all’interno di un quadro multiculturale»[25]. Inoltre, se è vero che: «Si è scritto molto sul modo in cui l’universalità dei diritti umani universali sia distorta, su come essi esprimano una preferenza per le norme e i valori culturali occidentali (priorità dell’individuo sulla sua comunità ecc..); (…) a questa intuizione dovremmo aggiungere che la difesa anti-colonialista e multiculturalista della molteplicità dei “modi di vita” è falsa anch’essa, poiché offusca gli antagonismi interni a ciascuno di questi particolari modi di vita, giustificando brutalità, sessismo e razzismo come espressioni di culture specifiche che non abbiamo il diritto di giudicare sulla base dei “valori occidentali”, ad esse estranei»[26].
Sappiamo che il multiculturalismo ha fallito, e che al suo posto l’agenda politica governamentale ha assorbito il mantra dell’ “integrazione” come filosofia su cui poggiare le proprie pratiche; sappiamo inoltre come Slavoj Žižek abbia, nell’ultimo passaggio citato, indirettamente centrato il cuore del problema del “politicamente corretto”: mentre esso, come già espresso, risulta sensato quando è mosso dall’intenzione di supportare e difendere la dignità di un gruppo sociale (anche se la definizione di “minoranza” richiederebbe un discorso critico a parte…), lo è certamente meno quando formula i suoi assunti su un piano linguistico che a volte non è sostenuto da una conoscenza profonda del contesto a cui vuole essere applicato. In altre parole, l’altra faccia del giustificare brutalità e violenze in quanto espressioni culturali non giudicabili in quanto non facenti parte del nostro mondo è quella di generalizzare la discriminazione senza conoscere non tanto l’argomento in sé, ma il modo di dare un senso alla cosa da chi dovrebbe, in teoria, venire discriminato: uno degli atteggiamenti più classici di chi pratica un relativismo “politicamente corretto” è quello di dare per scontato che quello che lui ritiene sia offensivo lo sia alla stessa maniera per l’alterità, ma spesso con l’alterità egli non parla, non comunica; di essa, di quel che pensa, del modo in cui vede il mondo, egli non si informa. Spesso non ha gli strumenti per approfondire le sfumature e la complessità che ogni aspetto di una specifica visione del mondo porta con sé, per non parlare delle implicazioni politiche che talvolta ne attraversano le motivazioni, i significati e le conseguenze.
Di contro, sappiamo come tali argomenti possano essere facilmente strumentalizzati, e il “politicamente corretto” possa essere un arma a doppio taglio, a volte utilizzata a sproposito. L’Antropologia si muove in un mondo in cui tali argomenti sono all’ordine del giorno, ancor di più nel suo lavoro contemporaneo, ma è ormai ben conscia del fatto che sia un terreno complesso da attraversare, irto di ostacoli e di possibili malintesi. E ancor più chiaramente riconosce cosa sta dietro ai discorsi giustificativi e a quelli che omettono determinate questioni: l’assenza della figura del migrante all’interno del campo del “politicamente corretto” nella sua azione pratica, la deriva relativistica, l’idea di cittadinanza sono tutti concetti, come abbiamo avuto modo di vedere, contraddittori e che necessitano di una critica che ne reindirizzi l’esistere, in modo che quello scarto espresso dal famoso proverbio: Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” si assottigli sempre di più.
BIBLIOGRAFIA
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Žižek, S. e Horvat, S. (2014), Cosa vuole l’Europa? Ombre corte, Verona.
[1]Geertz C., “Intepretazione di Culture”, Il Mulino, Bologna, 1998.
[2]Mezzadra S., Neilson B., “Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale”, Il Mulino, Bologna, 2014
[3]Ivi., p. 238.
[4]Bigo D., “Security and Immigration: Toward a Critique of the Governmentality of Unease”, in <<Alternatives>>, vol. XXVII, 2002.
[5]Mezzadra S., Neilson B., “Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale”, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 331.
[6]Balibar É., “Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique”, Puf., Paris, 2011, pp. 465-515.
[7]Marx K., “Das Kapital”, 1867a, trad. it. “Il Capitale I: Il processo di produzione del capitale”, Roma, Editori Riuniti, 1994, p. 104.
[8]Ivi., pp. 115-117.
[9]Mezzadra S., Neilson B., “Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale”, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 332-333.
[10]Ivi., p. 334.
[11]Sassen S., “Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton; trad. It. “Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale”, Einaudi, Milano, 2008.
[12]Mezzadra S., Neilson B., “Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale”, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 326.
[13]Balibar É., “Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique”, Puf., Paris, 2011, p.89.
[14]Ivi., p. 327.
[15]Žižek S., Horvat S., “Cosa vuole l’Europa?”, ombre corte, Verona, 2014, p. 96.
[16]Ibidem.
[17]Ibidem.
[18]Aime M., “Senza sponda. Perché l’Italia non è più una terra d’accoglienza”, Utet, Novara, 2015, p.77.
[19]Berzano L., Genova C., “La società delle pratiche orizzontali. Percorsi di ricerca e ipotesi”, Odoya s.r.l., Bologna, 2010, p. 9.
[20]Ibidem.
[21]Ivi., p. 10.
[22]Ibidem.
[23]Ivi., p. 14.
[24]Ivi., pp. 16-17.
[25]Žižek S., “Multiculturalism, or, the Cultural Logic of Multinational Capitalism”, in <<New Left Review>>, vol. CCXXV, 1997.
[26]Žižek S., “La nuova lotta di classe. Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini”, Salani ed., Milano, 2016, p. 82.