Politicamente corretto e questione femminile

di Alessandra Penzo *

 “La donna non conosce limite al pensiero,

non si adatta a nessun sistema,

non è stata ancora scoperta”.

(G. Groddeck, Questione di donna)

1

Nel luglio 2018 il Parlamento europeo ha pubblicato il manuale «La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo» che contiene le linee guida per deputati e funzionari sull’uso di un linguaggio neutro (gender-neutral language) nella comunicazione istituzionale e nella produzione normativa. 

Il documento recita: <<Un linguaggio “neutro sotto il profilo del genere” indica, in termini generali, l’uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere. La finalità di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere è quella di evitare formulazioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti perché basate sul presupposto implicito che maschi e femmine siano destinati a ruoli sociali diversi. L’uso di un linguaggio equo e inclusivo in termini di genere, inoltre, aiuta a combattere gli stereotipi di genere, promuove il cambiamento sociale e contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza tra donne e uomini. Un linguaggio neutro o inclusivo sotto il profilo del genere va ben oltre il concetto di “politicamente corretto”. Il linguaggio infatti è, di per sé, un potente strumento che contemporaneamente riflette e influenza gli atteggiamenti, i comportamenti e le percezioni. Per assicurare la parità di trattamento di tutti i generi, a partire dagli anni Ottanta ha iniziato ad affermarsi l’impegno a favore di un uso della lingua neutro ed equilibrato sotto il profilo del genere e non sessista, in modo da garantire che nessun genere fosse privilegiato e che non fossero perpetuati i pregiudizi nei confronti di uno o dell’altro genere[1]>>.

Il Parlamento europeo ha, di fatto, recepito una tendenza culturale che si sta diffondendo nella società odierna e che nasce dall’elaborazione psicologica e collettiva del tema di “genere”, complementare e non alternativo al tema del “sesso”.

Questa attenzione parte innanzitutto dall’uso del linguaggio.

L’attenzione al linguaggio, alle parole, è comprensibilmente molto importante, sia dal punto di vista linguistico che psicologico che sociale. In una recente intervista la linguista Vera Gheno ha ribadito: <<Se è vero che le parole sono il nucleo della nostra umanità, come ci ricorda Chomsky, se è vero che senza il lógos, cioè la capacità del linguaggio, non c’è la pólis, ossia la società umana, come scrive Tullio De Mauro, a me pare consequenziale che migliorare l’uso delle nostre parole possa portare a un diffuso benessere>>[2].

Lo psicologo James Hillman in modo poetico ha esplicitato la stessa importanza affermando: <<Le parole, al pari degli angeli, sono forze dotate di poteri occulti su di noi. Sono presenze personali corredate da intere mitologie… e dei loro effetti monitori, blasfemi, creativi e distruttivi>>.

L’attenzione verso un linguaggio “non sessista”, “rispettoso del genere”, conduce senz’altro verso un profondo cambiamento, sia sul piano collettivo che individuale. Come ogni cambiamento, positivo o negativo che sia, suscita delle reazioni, più o meno ragionate, più o meno elaborate e più o meno “giustificate”.

In questo articolo indagherò alcune reazioni di rifiuto all’adozione di questo tipo di linguaggio “rispettoso del genere”, analizzandone la natura e il significato psicologico.

Infine analizzerò la questione del “politicamente corretto” secondo l’ottica psicoanalitica, in particolare secondo la psicologia analitica junghiana.

2

Le motivazioni che ritengono l’utilizzo di certe parole declinate al femminile come un errore o addirittura un orrore linguistico, fanno appello a una tradizione linguistica che nella realtà non esiste.

La linguista Vera Gheno ha fatto notare che i nomina agentis: <<Al femminile sono stati impiegati nel corso dei secoli quando la persona a cui si doveva riferire era di sesso femminile. Nessuna rivendicazione, nessuna questione politica: è il funzionamento della nostra lingua (e del latino prima di essa)[3].

Infatti, già in latino esistevano le coppie rector/rectrix e arbiter/arbitra. Allo stesso modo esiste ministra e gubernatrix in latino classico, tinctrix nel tardo latino e giudicessa nel medioevo, architettrice nel ‘600, e così via.

La studiosa conclude affermando che: “Dal punto di vista storico, il costume linguisticamente più consono alla nostra “tradizione linguistica” sarebbe quello di usare i femminili”.

L’appello a una supposta tradizione da salvaguardare risulta, in fin dei conti, completamente sbagliato perché la tradizione linguistica già contempla questo utilizzo.

Il motivo di tanta resistenza sarebbe allora imputabile all’abitudine a sentire o meno una certa parola.

Un’altra reazione di rifiuto, invece, è mossa da una reazione oppositiva verso il “politicamente corretto”. Secondo questa posizione, il “politicamente corretto” appianerebbe le differenze, non permetterebbe di esprimere un’opinione personale, limiterebbe addirittura il pensiero sotto la pressione di un insidioso conformismo. L’espressione “politicamente corretto” viene inteso come sinonimo di un concreto tentativo in atto di stabilire un certo comportamento e di soffocare la libertà di parola. Mi sembra utile invece mantenere distinte le due tematiche: da una parte la questione del “politicamente corretto”, che come dirò più avanti ha degli aspetti ambivalenti; dall’altra la questione femminile, di “genere”, storicamente oggetto di un marcato pregiudizio. Rifiutare la questione femminile, di “genere” perché lo strumento con cui si cerca di promuoverla, ossia il “politicamente corretto”, lo si giudica sbagliato, è come buttare via qualcosa a cui si tiene solo perché qualcuno che riteniamo sgradevole ne parla bene!

Propongo di mantenere accesa l’attenzione sulla questione femminile e del “genere”, al di là del “politicamente corretto” e analizzarne luci e ombre.

Mi soffermerò brevemente su questo punto.

La storia della donna è, come si sa, la storia di una lunga e faticosa lotta verso l’emancipazione e la libertà da una condizione di sottomissione non solo giuridica e sociale ma anche psicologica[4].

Ciò che invece spesso si dimentica è che questa storia non riguarda soltanto la donna ma anche l’uomo: la parte monca, in altre parole, non riguarda soltanto la donna, ma interessa anche l’uomo che, negando l’esistenza femminile, nega di fatto anche se stesso.

L’uomo infatti non fa esperienza della donna come persona reale, ma la riduce a suo strumento di soddisfazione.

Nella sua orazione “Contro Neera”, Demostene disse: <<Abbiamo le hetaerae (eteree) per il piacere, le pallakae (concubine) per prendersi cura di noi nelle necessità quotidiane e infine le gynaekes (mogli) per generarci dei figli legittimi e per essere fedeli custodi delle nostre famiglie[5]>>.

Se giuridicamente, politicamente e socialmente l’uomo riduce la donna a suo strumento, di fatto impotente, sul piano inconscio al contrario la donna sembra essere caricata di un enorme potere.

La donna ha infatti assunto nel corso della sua storia i caratteri dell’Angelo (nel dolce stilnovo), della Strega (nell’Inquisizione medioevale), della Nutrice – colei che genera – e dell’Etera – la compagna che “genera l’uomo spiritualmente”[6] (nella Grecia classica).Il potere seduttivo, manipolatorio, demoniaco proprio della Strega; il potere angelicato, ispiratore di meravigliose e innocenti vicende d’amore; il potere della Madre Terra, fecondo e terribile allo stesso tempo; il potere di ispirare nuove idee e di essere per sempre fedele: sono alcuni dei poteri straordinari associati alla donna.

Mentre l’uomo viveva inconsciamente e interiormente queste immagini di grande potenza associate al femminile, la donna concreta veniva estromessa dalla realtà, dalla possibilità cioè di incidere effettivamente nella realtà sociale e personale dell’uomo.

Sul piano psicodinamico viene il sospetto che sia stato proprio questo grande potere vissuto interiormente, attribuito alla donna secondo l’ormai noto meccanismo psichico della proiezione, ad aver condotto l’uomo a difendersi in modo paranoide dal femminile. O, da un altro punto di vista, che l’unico modo per poter continuare a vivere queste potenti immagini sia stato quello di mantenerle fuori dal principio di realtà, in una sorta di stato narcisistico della mente, di auto-soddisfazione, escludendo la donna dalla vita sociale.

Un’ultima reazione tipica di rifiuto del linguaggio “non sessista” ha apparentemente una buona ragione. Si riferisce al fatto che un linguaggio rispettoso della donna sia poca cosa al confronto di quello che dovrebbe essere fatto concretamente in termini di diritti e di sostegno.

Natalia Ginzburg scrisse che le parole “non vedente” e “non udente” erano state coniate: <<Con l’idea che in questo modo i ciechi e i sordi [fossero] più rispettati”. E poi: “La nostra società non offre ai ciechi e ai sordi nessuna specie di solidarietà o di sostegno, ma ha coniato per loro il falso rispetto di queste nuove parole. Le troviamo artificiali e ci offendono le orecchie e francamente le detestiamo[7]>>.

Anche se questo passaggio è stato preso a riferimento da coloro che contestano il “politicamente corretto”, l’autrice non denunciava il linguaggio di per sé, ma il semplice fatto che quell’operazione di facciata non fosse sufficiente, diventando addirittura ipocrita perché non va a fondo della questione.

Allo stesso modo le parole femminili non sono sufficienti per liberare la donna dalle proiezioni dell’uomo, né per riconoscerle un posto nella società e apprezzarne il valore, né per rispettarla nella sua natura. Non sono sufficienti, ma ciò non vuol dire che non siano necessarie. Le parole, anche se aprono a nuove rappresentazioni della realtà[8], non la realizzano. Per istituire una nuova realtà, un cambiamento concreto, le parole non sono sufficienti: occorrono alcune funzioni psicologiche come la volontà, competenze come l’empatia, processi psicologici elaborati come il ritiro delle proiezioni, l’integrazione degli stati dissociati, l’individuazione. Ritenere che il linguaggio sia sufficiente per creare la realtà significa attribuire alle parole un potere magico, analogamente a quanto avviene nella condizione di tipo ossessivo-compulsivo, in cui il pensiero smette di essere la rappresentazione di uno stato interno e diventa pura oggettività.

La questione femminile non si risolve con il linguaggio rispettoso del genere ma non può nemmeno prescindere dal linguaggio, dalle “parole per dirlo”, da nuove rappresentazioni (parole femminili) di nuove realtà (cambiamenti concreti).

Come ha scritto Alma Sabatini, la prima linguista che si è occupata del linguaggio di genere: <<Se si vuole quindi avere e dare un’immagine delle donne come persone a tutto tondo, come individui con potenziale non stereotipicamente delimitato, si dovrà scegliere e saggiare parole e immagini, ascoltarne le risonanze e coglierne le associazioni e, soprattutto – riprendendo il consiglio di Orwell – scegliere ‘le parole per il significato e non il significato per le parole’, senza mai ‘arrendersi’ alle parole stesse[9]>>.

3

Dopo aver indagato alcune reazioni di rifiuto al “politicamente corretto” e al linguaggio “non sessista” e analizzato il loro significato psicologico, vorrei adesso approfondire un’altra faccia della questione, che definirei come una possibile “deriva” propria del linguaggio “di genere”.

Un breve esempio. La CNN ha recentemente pubblicato un articolo sulla salute della cervice uterina e la prevenzione del tumore ginecologico, in cui si suggeriva di anticipare i primi screening da 25 a 21 anni. Nel testo, di circa seicento parole, non compare la parola “donna” che viene sostituita con il neutro “individui con cervice”.

L’utilizzo di questa formula permetterebbe di non escludere le persone intersessuali e le persone transessuali che hanno scelto di mantenere l’apparato femminile. Queste persone pur avendo la cervice non si riconoscono nell’appellativo di genere “donna”.

Per argomentare il motivo per cui definisco questo utilizzo una “deriva” linguistica, ricordo alcune importanti distinzioni tra identità sessuale, identità di genere e ruolo di genere.

Un individuo nasce femmina o maschio (più raramente può presentare una condizione d’intersessualità) – questa è la sua identità sessuale; ma la sua identità di genere (sentirsi un uomo, sentirsi una donna) e la sua espressione di genere (aderire a comportamenti e aspettative socio-culturali di mascolinità e femminilità, quindi relative al suo ruolo di genere) non sempre coincidono con l’identità sessuale. Una persona, ad esempio, può essere biologicamente femmina (identità sessuale) ma sentirsi un uomo (identità di genere) e comportarsi relativamente al proprio ruolo di genere (maschile). Nel caso in cui decidesse di intervenire chirurgicamente per una riassegnazione del genere (GRS), l’identità sessuale (corpo maschile) andrebbe a coincidere con l’identità di genere (sentirsi uomo). Infine, nel caso in cui l’intervento chirurgico si limitasse solo ad alcuni aspetti conservando gli organi sessuali, la persona si sente uomo (pur essendo biologicamente femmina), ha un aspetto maschile, ma mantiene gli organi sessuali femminili.

Questa persona pur essendo destinataria del messaggio di prevenzione dei tumori femminili (in quanto biologicamente femmina e possedendo gli organi riproduttivi femminili, la cervice uterina), non si riconosce come donna, ma come uomo.

Sul piano delle ipotesi teoriche, così come e soprattutto della pluralità dei percorsi evolutivi individuali, è senz’altro necessario uscire da una logica rigidamente binaria e seguire le modalità, i percorsi che hanno condotto a una certa individualità.

La deriva del linguaggio rispettoso “del genere” è che allargandosi a comprendere così tante espressioni e vicende umane finisce per non dire più nulla.

La formula “individui con cervice” credo che alla fine non soddisfi nemmeno la persona transessuale perché rimane una formula fredda, di stampo medico-biologico, esattamente il contrario del percorso psicologico esistenziale di ciascuna persona.

La “deriva” non consiste tanto nel cercare a tutti i costi di includere qualunque tipo di esperienza umana, il che sarebbe giusto, né tanto nell’opera di decostruzione del binarismo di genere[10], quanto invece nel promuovere una realtà disincarnata, scotomizzata, dissociata.

Ciascun individuo rappresenta tutto intero il proprio percorso esistenziale. Sentirsi uomo, nel profondo di se stessi, ed essere biologicamente femmina sono aspetti di sé che val la pena tenere uniti e non dissociati. È proprio l’articolazione dei diversi aspetti di sé e la sintesi che riesce a trovare ciò che rende singolare ciascun individuo. La sua identità ha il suo proprio significato, peculiare all’individuo in questione, e la crescita psicologica consiste nel diventare consci di questo significato.

Da questo punto di vista la formula “individuo con cervice” protegge dal confronto con l’identità biologica, rimuovendola di fatto come dato esistenziale, soggettivo, per affrontarla solo come dato oggettivo. Il problema non è la decostruzione del binarismo di genere uomo donna ma la dissociazione del processo di soggettivazione.

Un’alternativa praticabile alla formula neutra avrebbe potuto richiamare la corporeità femminile, la femminilità biologica come “tratto” che è in continuità (esistenziale, psicologica) con il tratto maschile (sentirsi uomo) invece che alienato nei suoi soli organi (cervice).

In modo polemico vorrei infine far notare come la donna, ancora una volta, sembra sconfessata nella sua realtà concreta, incarnata e plurale. La donna non è una categoria ideale (l’altro dall’uomo) ma un soggetto concreto; ciascuna donna ad esempio è diversa dall’altra. Di più, ogni donna è al proprio interno plurale perché possiede aspetti differenti che la fanno essere ciò che è nella propria originalità. La filosofa femminista Rosi Braidotti scrive a questo proposito: <<Per me l’identità è un gioco di aspetti, quelli multipli, frammentari del sé; è un gioco di relazione in quanto richiede il legame con l’altro; è retrospettiva perché si determina attraverso memorie e reminiscenze all’interno di un processo genealogico. E infine, ma non meno importante, l’identità è fatta di identificazioni successive, vale a dire di immagini interiorizzate che eludono il controllo razionale[11]>>.  Ciò che viene descritto è un processo di soggettivazione, o di individuazione, che integra aspetti differenti di sé. Esattamente il contrario di quanto accaduto nell’idealizzazione della donna da parte dell’uomo, che ne ha visto a seconda dei tempi e dei luoghi un’immagine totalmente positiva o totalmente negativa. L’immaginario magico poetico dell’antichità sembra essere sostituito, nella deriva linguistica, da un immaginario medico scientifico, altrettanto disincarnato e idealistico.

4

Per concludere vorrei analizzare il significato psicologico relativo all’ampia diffusione del “politicamente corretto” nella nostra epoca.

Come abbiamo visto, il linguaggio “rispettoso del genere” come il “politicamente corretto” sarebbero un mezzo necessario per elaborare la questione della donna, soggetto storicamente negato e sottomesso.

La storia di questa negazione è storia recente se si pensa che ancora alla fine dell’Ottocento, sulla rivista “Filosofia Scientifica” del Morselli, organo del positivismo italiano, si dedicano saggi di Giuseppe d’Aguanno sulla questione femminile nei quali si riportano misurazioni del cranio e della peluria comparati, sostenuti dalle teorie scientifiche di Lombroso e di Ferrero. Le conclusioni affermano che la donna va educata a crescere i figliuoli perché: <<Un’educazione che la devii dalla sua naturale missione può essere feconda di mali peggiori>> [12].

Si diffonde l’idea che la donna sia un “uomo arretrato nel suo sviluppo, sia fisicamente sia mentalmente, pare basti guardala: <<E’ senza barba, microcefala e pigra; sa disporre i fiori e s’intende di cucina ma i grandi cuochi e i grandi maestri dell’arte sono uomini[13]>>.

Solo pochi anni prima il Gioberti aveva dichiarato: <<La donna è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostenta da sé[14]>>.

Non mi sembra azzardato pensare che gli individui, uomini e donne, non possano essere cambiati così tanto da aver elaborato psicologicamente questa percezione, che risale più o meno alla Grecia classica[15].

Credo piuttosto che il cambiamento sia soprattutto culturale, non psicologico; attiene cioè al piano dei comportamenti e non a quello dei sentimenti, a ciò che è giusto fare e non a quello che si sente. Occorre tempo affinché il tema di genere possa essere elaborato compiutamente.

Lo psicologo junghiano Erich Neumann, nei suoi studi sugli stadi archetipici del femminile a partire dal matriarcato per continuare nel lungo patriarcato moderno, conclude affermando: <<La situazione descritta cambia solo in epoca moderna in cui l’intero rapporto fra maschile e femminile è messo in causa e il mutamento si manifesta non solo nei rapporti fra uomo e donna ma anche nella stessa interiorità psichica, in quanto ora la relazione del maschile con il proprio femminile inconscio, l’Anima, e quella del femminile con il proprio maschile inconscio, l’Animus, comincia a presentarsi alla coscienza. Qui finisce la psicologia del patriarcato e ha inizio la psicologia dell’incontro, della definizione di sé e dell’individuazione, dell’autoindividuazione del femminile, che sono gli ultimi e più alti stadi dello sviluppo psichico femminile[16]>>.

La relazione interna con la parte di sesso opposto comincia a presentarsi alla coscienza: è solo l’alba della psicologia dell’incontro, l’inizio dell’elaborazione di una storia che non è solo culturale e politica ma soprattutto psicologica, relativa al rapporto con quanto è stato proiettato di sé e quanto ritorna a essere riconosciuto come parte di sé.

L’inizio di questo processo di elaborazione del tema di genere ha prodotto, questa è la mia tesi, l’ampia diffusione del “politicamente corretto”.

L’approssimarsi di una psicologia dell’incontro permetterebbe finalmente il confronto maschile e femminile all’interno della propria coscienza; la coscienza può percepire quindi il vissuto di dolore e forse di colpa degli stadi precedenti in cui il femminile era negato e umiliato, o proiettato e idealizzato; questo vissuto produrrebbe una frattura depressiva che richiede una riparazione psicologica[17]; il bisogno di riparazione muove lo sviluppo di un linguaggio rispettoso del genere e comportamenti politicamente corretti.

Esiste la possibilità che la riparazione possa degradare a una difesa “maniacale” quando il tentativo di riparazione é maniacale e onnipotente.

Mentre la riparazione non é una difesa perché é basata sul riconoscimento della realtà psichica, sul sentimento della sofferenza conseguente a questa realtà e sul compimento di un’azione adeguata al suo sollievo; la riparazione maniacale é invece una difesa perché ha lo scopo di riparare l’oggetto senza che siano mai sperimentate né la colpa né la perdita. Non può esistere autentico amore per l’oggetto riparato poiché questo comporterebbe il ritorno di sentimenti depressivi veri[18]

La mia tesi è che il “politicamente corretto” possa degradare a difesa maniacale soltanto quando si irrigidisce e non contempla, nel lento processo di elaborazione della coscienza individuale e collettiva, il contatto con il dolore e la colpa collettiva. In questo caso può solo euforizzarsi ed estremizzare le proprie posizioni.

Allo scopo di prevenire questa eventualità occorre riconoscere sempre il piano di elaborazione individuale assieme a quello collettivo, culturale. La dimensione politica, infatti, rimane cosa vuota senza delle coscienze in grado di elaborare.

Come ci ricordava Jung, infatti: <<Se le cose grandi vanno male, è solo perché i singoli individui vanno male, perché io stesso vado male, perciò, per essere ragionevole, l’uomo dovrà cominciare con l’esaminare se stesso e poiché l’autorità non riesce a dirmi più nulla, io ho bisogno di una conoscenza delle intime radici del mio essere soggettivo. È fin troppo chiaro che se il singolo non è realmente rinnovato nello spirito neppure la società può rinnovarsi poiché essa consiste nella somma degli individui[19]>>.

5

Lo sviluppo psicologico della donna, nel suo cammino di conoscenza di sé, incontra alcuni aspetti tipici che la psicologa Toni Wolff, collaboratrice di Jung, individua in 4 tipi strutturali della psiche femminile[20]. Essi sono:

  1. Madre: quella che accoglie, nutre, cura, aiuta, insegna. La madre trova soddisfazione in relazione a quelli che hanno bisogno di aiuto e di supporto, impegnandosi nel renderli forti e sicuri.
  2. Hetera o Compagna: si lega per istinto alla psicologia personale dell’uomo e anche a quella dei suoi figli, capendolo meglio di quanto faccia la moglie. Gli interessi individuali, le inclinazioni e tutti i tipi di problemi dell’uomo sono al centro della sua coscienza. Essa conferisce all’uomo la sensazione di un valore personale per il proprio bisogno di sperimentare e realizzare una relazione individuale in tutte le sue sfumature e profondità.
  3. Amazzone: l’amazzone basta a se stessa ed è autosufficiente; é indipendente dall’uomo perché il suo sviluppo è indipendente da lui. I valori coscienti che lui rappresenta sono anche i suoi. Il suo interesse è raggiungere gli obiettivi da sola.
  4. Medium/Mediatrix: é immersa nell’atmosfera dello spirito dell’epoca, e nell’inconscio collettivo che può inondare il suo Io. In lei, coscienza e inconscio, l’Io e il Tu, i contenuti psichici personali ed impersonali rimangono indifferenziati. La Mediatrix vive il destino altrui come se fosse il suo, perdendosi tra idee che non le appartengono. Ma, se possiede una capacità di discernimento, può rinnovare la cultura e lo spirito dell’epoca.

Secondo la Wolff, le 4 strutture femminili vanno integrate nel percorso psicologico della donna.

Ogni donna apparterrebbe a un determinato tipo. Il suo scopo è assimilare innanzitutto la funzione ausiliare[21]. Questo non accade senza sofferenza e difficoltà e, se non ci riesce, compare la nevrosi. Dopo un certo periodo, dovrà assimilare il terzo tipo e per una maturazione completa dovrà infine assimilare il quarto tipo, la funzione opposta. Questo quarto tipo è così diverso dall’indole originale che non può essere realizzato in termini concreti ma solo in termini simbolici, nella maggior parte dei casi. Durante l’assimilazione di un tipo potrà sembrare che quello sia il tipo dominante per quella persona perché emerge con molta intensità e all’inizio crea un forte disturbo, in un certo senso può causare un’inflazione psichica.

Il lavoro di integrazione è paziente e richiede tempo.

Riporto uno schema che sintetizza le quattro funzioni/tipi strutturali[22].

Lo schema quaternario si legge nel seguente modo. Poniamo l’esempio di una donna che appartiene al tipo “Madre”; essa dovrà assimilare le funzioni ausiliarie Medium (Matrix) e Amazona (Amazzone). L’assimilazione del tipo opposto, l’Hetera, rappresenterebbe infine il completamento psicologico, il raggiungimento della “totalità psichica”.

Queste considerazioni teoriche cliniche possono avere ancora oggi una profonda utilità se non utilizzate rigidamente. Il senso di questa impostazione è analogo alle conclusioni della filosofa Braidotti sulla necessità di un soggetto nomade. Al di là del contenuto dei 4 tipi strutturali della Wolff, infatti, quello che mi sembra utile oggi è l’idea di un pluralismo femminile e della singolarità e originalità di ciascun percorso, purché situato in una esperienza individuale, particolare e significativa rispetto a se stessa.

NOTE BIBLIOGRAFICHE


[1] La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo, 2018

[2] La voce di New York, Vera Gheno: “Ho inventato un metodo per la complessità cognitiva della pandemia”.

[3] Gheno V. (2020), La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte. Valigiablu.it

[4] Cfr. Duby, G. e Perrot, M. (1990), Storia delle donne in occidente: L’antichità, vol. 1, Laterza, Roma-Bari. Savalli I. (1983), La donna nella società della Grecia Antica, Patron Editore, Bologna.

[5] Demostene (2002). Processo a una cortigiana (Contro Neera). Marsilio, Venezia.

[6] Jung E. cit. in Van Der Post L. (1976), Jung and the story of our time. Random House, USA.

[7] Ginzburg N. (1989), Non possiamo saperlo. Einaudi, Torino.

[8] Rimando innanzitutto alla distinzione freudiana di “rappresentazione di cosa” e rappresentazione di parola” (Freud S. (1978), L’Inconscio, in Opere, 8, Boringhieri, Torino). Per approfondire il nesso tra realtà e comunicazione suggerisco inoltre Watzlawick P. (1976), La realtà della realtà. Astrolabio, Roma.

[9] Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da Alma Sabatini, 1987, Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri [online] testo disponibile in: http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/documenti/Normativa%20e%20Docum entazione/Dossier%20Pari%20opportunit%C3%A0/linguaggio_non_sessista.pdf (18 maggio 2018).

[10] Cfr. gli studi di Judith Butler, una delle teoriche più creative nel campo dei gender studies (cfr. Butler J. (2014), Fare e disfare il genere. Mimesis, Milano-Udine).

[11] Braidotti R. (1994), Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità. Donzelli, Roma, p.87.

[12] Del Pozzo G. e Rava E. (1969), Le donne nella storia d’Italia. Teti editore, Torino.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Nella Grecia classica le leggi, la politica, la cultura erano materia degli uomini, mentre le donne erano relegate al ruolo passivo e domestico che prevedeva la totale obbedienza al padre e, successivamente, al marito. La donna era priva di gran parte dei diritti riconosciuti ai cittadini adulti e liberi (Cfr. Duby, G. e Perrot, M. (1990), Storia delle donne in occidente: L’antichità, vol. 1, Laterza, Roma-Bari. Savalli I. (1983), La donna nella società della Grecia Antica, Patron Editore, Bologna).

[16] Neumann E. (1975), La psicologia del femminile. Astrolabio, Roma.

[17] Per quanto riguarda il concetto di riparazione si rimanda agli studi di M. Klein (Klein M. e Riviere J.(1978), Amore, odio e riparazione. Astrolabio, Roma).

[18] Cfr. Segal H. (2015), Introduzione all’opera di Melanie Klein. Giunti, Firenze-Milano.

[19] Jung C.G. (1961), Ricordi, sogni e riflessioni. Rizzoli, Milano.

[20] Wolff T. (1956), Structural forms of the feminine psyche. C.G. Institute. Si può trovare una sintesi in italiano Quattro tipi strutturali della psiché femminile. Eliete Villela Pedroso Horta, Maria Cristina Minicuci, Olga Maria Fontana, Vera Lúcia Furtado Paschoa.

[21] La teoria delle funzioni psicologiche è descritta nell’opera di Jung C.G. Tipi psicologici in Opere vol. 6. Boringhieri, 1996.

[22] Lo schema è tratto dalla sintesi Quattro tipi strutturali della psiché femminile (tr.it. da Eliete Villela Pedroso Horta, Maria Cristina Minicuci, Olga Maria Fontana, Vera Lúcia Furtado Paschoa).

* Alessandra Penzo è psicologa psicoterapeuta a indirizzo psicodinamico e junghiano, perfezionata in psicosomatica. Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia “H. Bernheim”.