di Fabrizio Rizzi *
L’amico e collega che mi ha proposto di scrivere qualcosa su questo argomento sa con quanta esitazione ho accettato l’invito. Dei dubbi mi rimangono ancora e dipendono dal fatto che ho sempre sentito come scivoloso – nel senso di incerto, ambiguo e volatile – il concetto di “politicamente corretto”. Non a caso, come apertura di questo articolo, ho scelto di parafrasare il titolo della raccolta di racconti di Raymond Carver, sostituendo la parola originaria (amore).
Quello della “political correctness” mi pare infatti un concetto assimilabile a quelli più astratti come, appunto, “amore” oppure “giustizia”, “libertà” e così via. Termini che possono avere interpretazioni diversissime tra loro: non solo tra persone di età, genere, provenienza sociale, formazione culturale ed orientamento politico diversi, ma perfino nello stesso individuo, nel corso della sua vita (visto che cambiare ogni tanto qualche idea è un segno di vitalità cognitiva e che la coerenza assoluta tende ad appartenere al cretino integrale). Ciò che io intendo come “politicamente corretto” (o scorretto) può essere molto diverso ed anche radicalmente opposto alla concezione di altre persone. Sul piano propriamente politico, credo sia apparso evidente al mondo intero che, come stile comunicativo, quello che può essere considerato politicamente corretto da parte dell’ex Presidente della Bce e del Consiglio Mario Draghi differisce parecchio dall’idea che ne può avere un altro ex Presidente, quello della Federazione Russa Dmitrij Medvedev; il quale, in una sua fase di bombardamento massiccio di messaggi postati nei mesi scorsi su Instagram, il 7 giugno 2022 ha scritto questo: “Mi viene spesso chiesto perché i miei post sugli occidentali sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e fanatici. Vogliono la morte per la Russia e, finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire.” Questo lo scrive un politico di lungo corso, attualmente vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia (un po’ come il Senato in Italia): è chiaro che, all’interno del suo contesto, lui ha valutato come politicamente corretto (e presumo conveniente) scrivere l’ennesimo post di questo tono, del resto mai ufficialmente corretto o criticato da Putin o da esponenti della Duma (un po’ come la Camera dei Deputati in Italia).
Ma prima di continuare a ragionare sul politicamente corretto, è necessario definire bene questa espressione, capire appunto di che stiamo parlando; ecco la definizione che ne dà Wikipedia.
“L’espressione correttezza politica (in inglese political correctness) è un termine che designa una linea di opinione, un orientamento ideologico e un atteggiamento sociale con lo scopo inteso soprattutto nel rifuggire l’offesa o lo svantaggio verso determinate categorie di persone all’interno di una società. Il termine viene genericamente utilizzato in senso dispregiativo con l’implicazione o l’accusa che queste politiche siano eccessive, puritane e/o ingiustificate e, in definitiva, causa di massificazione ed omologazione. Dalla fine degli anni ’80 il termine è stato usato sempre più frequentemente per descrivere una tendenza ad un linguaggio più inclusivo o ad evitare un linguaggio ed un comportamento che potesse essere visto come discriminatorio, marginalizzante o insultante nei confronti di minoranze svantaggiate o discriminate in particolare per fattori come l’etnia, il sesso, il genere o l’orientamento sessuale e le disabilità fisiche o psichiche”.
Mi pare di poterne dedurre che, se da un lato la questione del politicamente corretto (d’ora in avanti lo abbrevio con “p.c.”) sembrerebbe meramente formale / linguistica – vale a dire relativa ad un certo modo di usare dei termini considerati più o meno “delicati” – dall’altra ha però a che fare con qualcosa di più ampio, vale a dire una modalità di pensare e di valutare sia il pensiero proprio che quello altrui. Potremmo quindi dire che ha a che fare con la capacità meta-cognitiva e quella empatica. Le quali però contemplano in contemporanea due possibilità: sia la capacità di prevedere che, se mi esprimo in un certo modo, posso offendere o turbare l’altra persona; così come che, se mi preoccupo eccessivamente di offendere o turbare l’altro, lo tratto in modo tale che questa mia prudenza estrema lo potrebbe altrettanto disturbare, seppure per ragioni diverse. Provo a fare un esempio clinico su questo, raccontando un breve passaggio di una mia seduta risalente a molti anni fa, per evidenziare i rischi che può incontrare un terapeuta che si preoccupi troppo di essere “p.c.” nel suo linguaggio col paziente.
Era venuto da me un uomo sulla trentina che qualche anno prima, per un incidente sul lavoro, si era tagliato quasi tutte le dita della mano destra, rimanendo solo con il pollice e l’indice ridotto ad una sola falange. Aveva ottenuto un risarcimento danni, l’invalidità ed un nuovo lavoro; aveva anche superato l’inevitabile trauma legato a questa lesione e da me veniva per parlare di relazioni affettive, in particolare con le donne perché (da quanto mi diceva) nonostante le sue intenzioni serie di metter su famiglia, non trovava una partner con cui il legame potesse durare e con cui fare un progetto di vita assieme. In quella seduta stavo cercando di esplorare la sua rappresentazione di sé e volevo in specifico capire se (ed eventualmente quanto) quella sua menomazione lo predisponesse ad immaginare che la partner provasse per lui più pena che amore o, comunque, che quella menomazione in qualche modo avesse un ruolo nel non essere scelto per una relazione affettiva continuativa. Avevo in mente di chiedergli questo e cercavo accuratamente, forse troppo accuratamente, le parole giuste per fargli la domanda. Iniziai a parlare più o meno così: <<Mi chiedo se lei a volte pensa che la ragione per cui una donna non è interessata ad una relazione duratura e più solida con lei stia nel fatto che lei….>> Qui esitai un attimo. Le parole che mi venivano da dire era che lei ha un handicap ma il termine mi sembrava troppo brutale. In quegli anni si parlava ancora italiano – non l’anglo-italiano di oggi – e quindi nessuno allora nominava il “politically correct”; era però già in uso, al posto di “handicappato”, l’espressione “diversamente abile”; e così fu quest’ultima che usai, visto che l’altra mi sembrava squalificante. Il paziente mi interruppe subito, fortemente infastidito, e senza peli sulla lingua mi disse più o meno queste parole: <<No dottore, non usi queste parole ridicole ed ipocrite, non mi parli come l’assistente sociale che mi trattava come fossi il caso pietoso, dica pure che sono un handicappato perché è così, è proprio così e lo sarò per sempre… Non mi vergogno della mia mano, mi sono ridotto così perché lavoravo troppo e quel giorno in segheria ho sbagliato… Ma guardi che c’è gente che ha un handicap molto peggiore del mio, in qualcuno l’handicap non si vede perché ce l’ha nel cuore, nella testa, nel carattere>>. Come spesso succede, questo mio scivolone fu di fatto utile: riconobbi il mio eccesso di prudenza, mi scusai con lui e questo piccolo incidente fu quello che permise un miglioramento dell’alleanza terapeutica. Mi aiutò a riflettere sul fatto che una comunicazione “sana”, diretta e sincera, non richiede – o proprio sconsiglia – la ricerca eccessiva di termini appropriati o presunti tali.
Tornando più al sociale, alla politica, alla comunicazione mediatica nell’epoca del web, a me pare che ciò che è considerabile “p.c.” piuttosto che “non p.c.” dipenda: 1) da chi parla 2) a chi si rivolge 3) da cosa si vuole comunicare e 4) dal contesto globale in cui avvengono queste interazioni/comunicazioni. E, soprattutto, ho l’impressione che spesso a criticare il “p.c.” siano proprio quelli che amano il politicamente scorretto. In certi ambiti e per certi soggetti, si verifica un paradosso: per qualcuno è politicamente corretto dire e fare cose politicamente scorrette. Ho citato Medveded e la Russia in guerra con L’Occidente, ma il campione storico nella disciplina del politicamente scorretto è Donald Trump, l’ex presidente Usa. Non lo dico solo perché oggi è il 10 agosto 2022, due giorni dopo la perquisizione da parte della FBI a casa Trump in Florida in cerca di documenti da lui sottratti e con tutti i media inondati delle dichiarazioni sparate dall’uomo dal ciuffo platinato; il personaggio era così fin da quando decenni fa dilagava in un programma Tv americano di gran successo. Mitragliava parole estreme già allora ed il fatto di essere diventato presidente gli ha semplicemente permesso di passare da pallottole verbali calibro 22 al calibro 50 mirando a bersagli ancora più grossi, istituzioni comprese (en passant, confesso che la figura di Trump mi ha riconciliato con una definizione psicodiagnostica di cui, prima, avevo sempre diffidato ritenendola troppo giudicante: quella del “narcisismo maligno”. Ecco: anche se odora un po’ di medioevale, oggi in me trova posto l’idea che possa esistere realmente una certa malignità narcisistica, capace di gratificarsi nel dire cose scorrette a vari livelli aggredendo non solo la verità, ma anche persone in carne ed ossa).
Ma torniamo ancora alla definizione di Wikipedia, in cui si sottolinea l’eccessiva prudenza e/o timore di dire cose che possano essere viste come negative, offensive, basate sul pregiudizio, e via dicendo. Si, certo: questo esiste, può succedere. Ed a volte con l’eccesso di ricerca del “p.c.” si ottiene quello che in farmacologia viene chiamato effetto paradossale: per cui, superato un certo limite, l’effetto è antitetico e peggiora i sintomi che doveva eliminare o ridurre. Se non proprio portare ad un effetto controproducente, l’eccesso del “p.c.” lascia un sapore molto forte di esagerato, a volte quasi iperbolico e con un retrogusto di ridicolo.
Ho presente un esempio, un piccolo fatto di cronaca che mi torna alla mente perché è avvenuto poco tempo fa e l’ho letto sui giornali. A fine luglio scorso, nell’Arena di Verona doveva andare in scena l’ennesima rappresentazione dell’Aida. Pochi giorni prima la cantante lirica afroamericana Angel Blue si è rifiutata di salire sul palcoscenico come forma di protesta contro gli organizzatori dello spettacolo, accusati di razzismo. Il motivo addotto dalla Blue è stato la blackface – vale a dire il viso pitturato di nero – in particolare della collega soprano russo Anna Netrebko (ma anche di molti altri cantanti presenti in palcoscenico, con la faccia trattata al nerofumo per esigenze sceniche specifiche dell’opera, dovendo interpretare persone di colore). La soprano afroamericana ha considerato “politicamente scorretto” il blackface, antico trucco scenico praticato da anni e che una parte (non so quanto estesa) di artisti americani ritiene razzista. A me viene da dire che qui, più che sensibilità, trattasi di una ipersensibilità che, temo, rischia il citato effetto paradosso. Si certo: io sono bianco, non sono il nero americano George Floyd fermato a Minneapolis da un sadico con divisa della polizia americana, e forse per questo mi è troppo facile ragionare così. E tuttavia, se provo a mettermi nei panni di un bracciante nigeriano o senegalese, un vero schiavo del XXI sec. che raccoglie pomodori pugliesi o siciliani per 10 ore sotto un sole da 38 gradi per meno di 10 euro al dì, tendo a pensare che costui non se ne faccia molto della protesta della Blue e si sentirebbe più difeso e rappresentato da dei sindacalisti coraggiosi, anche se sono bianchi.
Ecco l’ho detto e qui mi viene uno dei dubbi di cui ho detto all’inizio: qualcuno troverà non politicamente corretto ciò che ho appena scritto. Se ormai mi sono inguaiato, a questo punto mi rovino del tutto la reputazione e calo sul tavolo una briscola di ulteriore scorrettezza politica. Confesso di aver provato qualche perplessità quando ho letto che recentemente, a seguito di polemiche e proteste, nelle sue diverse sedi l’Università di Pisa ha fatto adattare 86 bagni trasformandoli in “genderless”, vale né per maschi né per femmine – con tanto di logo specifico. Ammetto che la mia attenzione nei luoghi pubblici è più concentrata sulle condizioni igieniche dei servizi che non sull’esistenza di una terza opzione di genere “neutro” da considerarsi come cosa indispensabile e necessariamente garantita. Se provo ad immaginare la costruzione di un bagno “terzo” in tutte i luoghi pubblici italiani, l’ipotesi mi sembrerebbe più improbabile della ormai mitologica costruzione del ponte sullo stretto di Messina: assicurare la presenza di un terzo bagno che non sia né per femmine né per maschi, anche solo negli edifici pubblici si avvicina più ad un desiderio allucinatorio. D’altra parte, risolvere la questione abolendo le differenze e creando un unico bagno usabile da chiunque, creerebbe ancora maggiori critiche da tutti i sessi, ognuno dei quali si potrebbe sentire discriminato. Quando poi ho letto in rete una furibonda critica contro i bagni genderless ed ho visto che a scrivere non era Casa Pound o l’Incredibile Hulk in persona ma un gruppo radicale femminista che si autodefinisce gender critical, ho fatto due pensieri. Il primo era il ricordo di un frase di Mao Tze Tung: “La confusione, sotto al cielo, è grande: la situazione, quindi, è eccellente”. L’altro pensiero è stato che un po’ di tolleranza verso le imperfezioni e l’impossibilità di ottenere tutto quanto sia desiderabile da tutti faccia parte dell’esame di realtà.
L’assillo di essere “p.c.” porta a qualcosa che è esagerato e rischia di produrre una linguistica che può apparire ipocrita anche quando non lo è e nemmeno lo vorrebbe essere; ma vogliamo parlare del suo opposto, la compulsione di essere il più possibile politicamente scorretti? A me pare che trionfi più questa seconda tendenza, che ritengo socialmente e culturalmente più pericolosa. Ad esempio, è da anni che i talk show televisivi vivono sull’incremento costante dei decibel dell’insulto, dell’urlo più forte di tutti, dello sberleffo e dello scherno più pesante ed offensivo verso l’avversario; mi ero illuso sulla possibilità di un overdose nel pubblico, ma mi pare che il dosaggio aumenti sempre più e si debba trovare qualche nuovo effetto speciale per stimolare gli assuefatti spettatori: il politicamente scorretto diventa il Viagra che serve a mantenere alti share ed audience.
L’ambito che mi sembra rischi di più dall’eccessivo cercare una linguistica “p.c.” è quello del giornalismo, della letteratura e dell’espressione intellettuale in generale. Ho appena letto un interessante articolo di Antonello Guerrera sul quotidiano La Repubblica dove spiega, con dovizia di esempi, come sia attiva una tendenza alla censura contro il politicamente scorretto (o presunto tale) in alcune università inglesi. Nelle quali o si sconsigliano certi testi agli studenti o, addirittura, si eliminano dalle biblioteche libri considerati “inappropriati” perché conterrebbero contenuti non politicamente corretti. Cito testualmente dall’articolo:
<<Gli atenei britannici stanno rimuovendo dai loro corsi decine di titoli, persino premi Pulitzer come La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2017, e per un altro migliaio di testi c’è l’imbarazzo dell’avvertimento agli studenti: se non volete leggerli, potete evitarli, in quanto controversi o potenzialmente pericolosi. Forse il caso di Whitehead, uno degli scrittori più celebri d’America, è il più paradossale. Perché per i giudici del Pulitzer, la sua descrizione delle tensioni razziali combinano “la violenza della schiavitù e il dramma della fuga in un mito che parla agli stati Uniti di oggi”. Tanto che lo stesso romanzo non solo ha vinto il National Book Award in America, ma è stato pubblicamente lodato da presidenti e star come Barack Obama e Oprah Winfrey. Ma proprio quelle descrizioni crude della schiavitù, encomiate oltre oceano, sono degne di censura per la Essex University, dove il libro è stato rimosso permanentemente a causa di “passaggi espliciti di violenza e schiavitù” (…) Trevor Phillips, nero, rinomato giornalista di Sky News e presidente dell’associazione per la libertà di espressione “Index on Censorship” ha scritto: “La cancellazione dei libri sulla brutalità del razzismo, come quello di Whitehead, da parte dei cosiddetti antirazzisti, è semplicemente un vergognoso razzismo istituzionale>>.
A commento ed integrazione di questo articolo, sullo stesso quotidiano il giorno successivo è stato pubblicato un altro articolo, scritto da Corrado Augias ed intitolato: “Se l’Occidente terrorizzato si autocensura”. Augias cita il libro, edito da Meltemi nel 2018 dal titolo: “Politicamente corretto: il conformismo morale come regime”scritto da Jonathan Friedman.
L’autore, un antropologo, fa una cronistoria del fenomeno spiegando che tutto è cominciato alcuni anni fa, all’interno di gruppi progressisti americani: in sostanza, una garbata presa in giro anche autoironica verso chi ostentava una rigida osservanza dell’ortodossia di sinistra. Il fenomeno però è velocemente dilagato. Sparita l’ironia, l’osservanza del linguaggio e dei comportamenti considerati “corretti” ha generato di rimbalzo segni sempre più forti di rigetto verso chi li violasse, con il conseguente pericolo di un soffocante conformismo. Il libro di Friedman, spiega Augias, nasce anche da una esperienza personale in quanto la moglie dell’autore, anche lei antropologa, venne pesantemente criticata per aver sostenuto che nei ghetti etnici delle periferie svedesi (entrambi gli studiosi vivono in Svezia) sopravvivevano usi tribali a causa della esclusione sociale di chi vi abita: tesi accusata di razzismo.
Citando direttamente Friedman: <<Il politicamente corretto è in primo luogo un problema di disciplina del linguaggio. Si è creato un clima in cui, più che alla sostanza dei problemi, si bada alle parole con cui vengono espressi. Si crea in questo modo una specie di obbligo ad adeguarsi al pensiero dominante. (…) Chi dicesse che i bambini dei campi nomadi sono addestrati al furto ed al borseggio, rischierebbe una accusa di razzismo a prescindere dalla verità o meno dell’affermazione. Esistono problemi che è difficile affrontare nel timore di non avere i termini giusti per esporli>>.
Non sono né giornalista né studioso della comunicazione; tuttavia da semplice cittadino che si informa non posso che condividere questa percezione. Mi ha molto colpito, ad esempio, che in Ucraina (e non solo lì) si siano alzate voci autorevoli a proporre la messa al bando di tutta la letteratura russa: una proposta fatta a marzo scorso da Andrii Vitenko vice Ministro della istruzione e cultura ucraino. Non so se poi sia stata trasformata in legge e comunque posso capire, a poche settimane dall’invasione, che la rabbia di chi è stato brutalmente invaso ed attaccato possa generare proposte del genere. Bastava però riflettere storicamente per ricordarsi dei roghi di libri fatti dai nazisti per dedurne che una proposta del genere andava a confermare in qualche modo la tesi di Putin sulla necessità di “denazificare” l’Ucraina.
Passando ad un altro livello ed in altro continente, anche gli abbattimenti della statue di Cristoforo Colombo avvenuti in alcune città americane (in Virginia e Minnesota) come segno di disprezzo contro il colonialismo ed il razzismo, sono fenomeni che vanno nella stessa direzione. Che mi pare quella che associa una colossale stupidità con un’incapacità di discriminare anche i livelli più grossolani della realtà. Se Colombo è l’emblema del colonialismo, mi domando quanti milioni di statue ed altri simboli dovrebbero abbattere i nativi americani, sterminati nella loro terra: credo che dovrebbero radere al suolo almeno un quarto dell’America a partire dalla Statua della libertà che, ai loro occhi, potrebbe essere l’emblema dell’oppressione. Ho anche l”impressione che, assieme alle limitazioni cognitive date dall’ignoranza (con la tendenza ad iper-generalizzare e l’incapacità di discriminare e differenziare) in questi fenomeni di estremismo giochi un ruolo anche un notevole dose di vittimismo. Il quale, come da dizionario, viene definito: “inclinazione blanda o accentuata (fino a sconfinare in un atteggiamento nevrotico) a considerarsi osteggiato e danneggiato o perseguitato dalla sfortuna e, di conseguenza, all’autocommiserazione e alla ricerca di simpatia”. In chiave più psicologica, aggiungerei la tendenza a ricercare una qualche forma di risarcimento: spesso non tanto economica (spesso impossibile: difficile che Cristoforo Colombo possa risarcire) quanto il riconoscimento del ruolo di vittima da parte del carnefice, tutte le possibili forme di scusa e perdono, l’abiura e l’autoflagellazione del colpevole.
Concludo questo scritto – che probabilmente qualcuno potrà considerare politicamente scorretto – riprendendo un aforisma di Giancarlo Menotti, che mi sembra utile per questo tema, ma anche per tanti altri: “Un uomo diventa saggio quando inizia a calcolare l’approssimativa profondità della sua ignoranza.”
* Fabrizio Rizzi è psicologo e psicoterapeuta