Mettere insieme le cose

Andrea Cavanna

Quarantena. Una parola che mi riporta a vecchie usanze. La quarantena degli uomini che provenivano da paesi infestati dalla peste nel ‘400 e ‘500 e venivano tenuti quaranta giorni in isolamento (quarantena significa quarantina in veneziano).

Detto con sincerità la cosa mi faceva sorridere, forse quanto l’uso di un termine inglese, come succede sempre più spesso nel nostro linguaggio: il lockdown.

Non mi riferisco alla problematica sanitaria. Eravamo preoccupati sia io, sia mia moglie e sia nostra figlia di sedici anni. Ma pensare di dover stare entro le nostre quattro mura (per non dire di chi nella nostra società vive ogni giorno tra “quattro mura” letteralmente) “ad libitum” era impensabile nel senso letterale del termine.

In realtà, dopo alcuni giorni, mi sono accorto che quello che per me era impensabile non si riferiva alla vita familiare, rispetto alla quale non sono mancate le sorprese, ma al mio lavoro.

Sono un tecnico amministrativo di una grande azienda genovese, ma soprattutto sono un sindacalista che da moltissimi anni non vede la sua scrivania (del proprio lavoro in contabilità) perché da altrettanto tempo distaccato per la maggior parte dell’orario lavorativo nell’attività sindacale.

Le prime avvisaglie di un senso di estraneità e smarrimento le ho percepite dal primo giorno, quando scrivendo e telefonando a colleghi sindacalisti e non, ho sentito che la stessa telefonata, argomento, discussione era diversa se fatta guardando le tende da poco messe da mia moglie nel salotto (non avendo una stanza adibita a studio o qualcosa di simile il mio smart work lo svolgevo lì). Oppure semplicemente fissando il grande palazzo che ingombra buona parte della vista. O, ancora, sentire la voce di mia moglie o di mia figlia (spesso tutte e due insieme perché sono spesso in conflitto).

Rimanendo nell’ambito lavorativo, più semplice da affrontare proprio perché meno intriso di affetti ed emozioni di quello familiare, le attività erano le stesse, i colleghi pure, ma la mia mente non riusciva ad essere completamente “lì”. Non mi riferisco neppure all’essere disturbato, perché nel caso delle tende o del panorama, la questione non si pone di certo.

Ho compreso che ci sono luoghi “destinati” a certe attività e non ad altre. Quelle cose che diamo per scontate, come il fatto (per tornar a questioni di spazi) che la mattina sappiamo che andremo in cucina per fare la nostra colazione, e non in un’altra stanza come se ci attrezzassimo con gli stessi alimenti e bevande, ma nella nostra camera matrimoniale o in quella di un figlio.(c’è qualcosa che non va).

E poi, c’era un secondo aspetto, che si è imposto più lentamente ma in modo più doloroso. Tutte le relazioni sociali con i colleghi erano virtuali. Skype, videochiamate, tutte cose utilissime per carità! Però mi mancavano i corpi nella loro interezza, gli incontri casuali, il caffè preso insieme e tante altre cose che ho fatto per trent’anni, ma senza rendermi conto che le facevo, che esistevano.

Ho continuato a lavorare in queste condizioni così atipiche per quattro mesi e col tempo il problema è stato veramente quello della relazionalità. Ovviamente, come potevo aspettarmi, ma in realtà non avevo pensato, anche in casa, in famiglia.

Una cosa è sentirsi dire la sera che “Luciana mi ha fatto impazzire oggi! Dovevi vedere come mi ha risposto male quando le ho detto che sabato sera non doveva rientrare cosi tardi” un’altra è ascoltarle a pochi metri di distanza!

Per ora quello che ho scritto fa pensare solo a disagi legati all’essere “estraniati” da alcuni luoghi, oppure ad essere “invasi” dalle problematiche familiari.

Nel secondo caso, sempre con il tempo, ho capito che questa situazione poteva lasciare spazio non soltanto a nuovi scenari da vivere solo passivamente, poiché provenienti da una costrizione esterna. Ma che andava separata quest’ultima (la causa) dalle conseguenze possibili. L’esempio precedente di mamma e figlia non è casuale, perché la presenza fisica (in questo caso mia) diventa un fatto qualitativo e non solo di metri o chilometri di distanza. Qualcosa che può, e così è, incidere anche sulle relazioni.

Un esempio chiarificatore potrebbe essere che un paio di giorni dopo lo scontro per il sabato sera sentii bussare alla porta e mia moglie che mi diceva: “Senti, visto che adesso sei in casa tutti i giorni, parla un po’ te a Luciana sugli orari di uscita… e magari già che ci sei vedi un po’ di capire cosa succede con la scuola, non sono convinta che segua tutte le materie con il computer”. Non che di queste cose non si parlasse a tavola la sera al ritorno dai rispettivi impieghi di lavoro (anche mia moglie lavora, part-time, in un ufficio di brokeraggio). Ma, con tempi e luoghi di vita diversi da quello della quarantena, il tutto si traduceva il più delle volte in discorsi brevi, interrotti da altro (la telefonata, la stessa figlia che s’intrometteva con altri argomenti o che più semplicemente non era presente perché uscita con le amiche).

Ora no. Non si poteva scappare. Anche da certi conflitti, problematiche, ma anche dalla “gioia” di essere in casa con Luciana e assistere “quasi in diretta” (perché nascosto dietro la porta della sua stanza per non farmi vedere dalla sua insegnante di storia) a un otto di interrogazione! Oppure l’aver ripreso una consuetudine familiare (durata fino a qualche anno fa) di guardare una sera a settimana un film, scelto da tutti e tre. La crescita e il cambiamento di abitudini di Luciana non avevano più permesso questo e altri momenti condivisi. E non era certo mia intenzione tornare a una sorta di “bel tempo perduto”.

Semplicemente mi rendevo conto di almeno due cose, fondamentali: la prima è che vivere direttamente le esperienze è ben differente dal sentirsele raccontare, soprattutto quando parliamo dei nostri figli. La seconda è che ogni novità è un’occasione per creare attivamente cambiamenti, nuovi comportamenti, diverse relazioni. Infatti, dapprima la presenza fisica, poi quella relazionale e infine il dialogo maggiore che può scaturire da ambedue, hanno dato luogo a cambiamenti nel mio rapporto con Luciana e di riflesso in tutto il nostro nucleo familiare.

Ora sono passato direttamente dal lavoro a casa alle ferie di luglio e rientrerò sul lavoro, in presenza, al mio ritorno ai primi di agosto.

Come sarà? E mi riferisco più alla situazione familiare che alla mia attività lavorativo-sindacale. E già questa priorità è importante.

Il timore è di poter perdere qualcosa. E ovviamente penso di nuovo alle relazioni, a quello che ho costruito di nuovo e utile nonostante il lockdown, malgrado il virus e malgrado le disposizioni del governo.

Qualcosa di altrettanto rilevante è accaduto con le relazioni amicali che si sono tradotte in una frequenza, seppure solo telefonica, maggiore che in passato. Come se (e credo sia proprio così) dovessimo compensare con più telefonate (quantità), le occasioni perdute di vederci (qualità). Ma scoprendo che le cose non sono poi così “bianche o nere”. Al di là del mezzo di comunicazione, che fa indubbiamente la sua differenza, ho dedicato più tempo ad alcuni amici di quanto facessi solitamente, con l’aiuto per altro di quella tecnologia da me stesso a volte disprezzata o irrisa.

Spero che il ”liberi tutti” che vivrò tra pochi giorni non comporti un tornare indietro. È questo adesso il mio obiettivo. Conservare tutto quello che di buono, insieme a tanta negatività, è scaturito durante questa imprevedibile “reclusione”.


Andrea Cavanna: sindacalista, Genova