Nei tuoi scritti ti sei occupato più volte dell’aggressività umana, dedicandovi anche un volume (Aggressività, nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica, dell’etologia. Il pensiero scientifico editore, Torino 2004).
Questo numero della Rivista Varchi è dedicato alla violenza. Quale distinzione possiamo fare tra i due fenomeni da un vertice psicoanalitico?
La categoria di violenza ha forte valenza etica e giuridica nonché una lunga storia, ma non ha un significato tecnico in psicoanalisi. La psicoanalisi, dal canto suo, cerca di cogliere le componenti elementari dello psichismo umano (anche per questo è giusto chiamarla psico-analisi). Ebbene nell’aggressività, termine che invece ha storia relativamente recente, e più esattamente nella pulsione aggressiva, la psicoanalisi – per lo meno quella “classica” – trova una componente elementare, destinata poi a incontrarsi con altre componenti della psiche. L’aggressività pertanto è un concetto base, utile ad affrontare tanti fenomeni individuali e collettivi, patologici e normali, tra cui i comportamenti violenti. Sotto questo profilo essa serve a spiegare – è un explanans, direbbero gli epistemologi – mentre la violenza è il fenomeno da spiegare – è un explanandum.
I rapporti tra i due concetti sono stati variamente intesi in psicoanalisi; personalmente trovo utile, per limitare gli arbitri, sondare l’etimo delle parole. Violenza viene da vis, forza, e possiamo allora dire che un comportamento aggressivo è violento quando c’è uso della forza, fisica o morale che sia. Ma esistono anche comportamenti aggressivi non violenti, per esempio un’ironia pesante, una frecciata sarcastica, o che sono violenti solo nella rappresentazione mentale, come quando sogno la morte di un “caro” parente, o ancora violenti simbolicamente, come quando brucio la bandiera di uno stato nemico. Di converso, c’è pure una violenza priva di aggressività come quando si procura involontariamente una lesione fisica a una persona, ad esempio facendola cadere in una ressa. A noi ovviamente interessa, da un punto di vista clinico, soprattutto la violenza motivata dall’intenzione, conscia o inconscia, di fare del male, di ledere persone o cose. D’altra parte l’intenzione è decisiva in psicoanalisi per valutare il significato di un comportamento.
In sintesi, ritengo che da un punto di vista descrittivo – cioè considerando i fenomeni che rispettivamente ricadono sotto i due concetti – aggressività e violenza sono solo parzialmente sovrapponibili: esistono comportamenti ad un tempo aggressivi e violenti, e sono quelli più inquietanti nella società e nei pazienti, ma anche aggressivi e non violentie violenti non aggressivi. Invece da un punto di vista psicodinamico ed esplicativo, c’è un primato dell’aggressività come tendenza, conscia o inconscia, ad avere pensieri o comportamenti che possono essere connotati di violenza fisica o morale.
Dal punto di vista psicodinamico le teorizzazioni sull’aggressività e sulla violenza appaiono molto variegate, sia a livello diacronico sia considerando lo stato dell’arte attuale. E questo mi sembra un problema
Ti dirò di più: non solo non c’è una teorizzazione univoca sull’aggressività, ma neppure c’è una definizione unanime di aggressività tra gli stessi psicoanalisti “ortodossi”. Questo è un grave limite della psicoanalisi, e non solo nel caso dell’aggressività: se non è chiaro l’oggetto di cui si sta parlando, diventa facile poi equivocare quando se ne discute. Nelle scienze “dure” l’oggetto che si studia in genere è ben definito (ad esempio luce), anche se poi se ne danno spiegazioni diverse (nell’esempio, teoria ondulatoria vs corpuscolare). In psicoanalisi oltre alle tante spiegazioni e teorie fiorite, spesso non c’è accordo nel definire gli oggetti base della disciplina. Questo ingenera appunto un sacco di equivoci: a volte si litiga su un concetto, ma semplicemente perché con la medesima parola uno intende una cosa, un altro un’altra cosa. Allora buona norma è che in tutti i casi equivoci, discutendo tra di noi esplicitiamo che cosa intendiamo con quella parola basilare che stiamo usando. Tu puoi avere legittimamente una nozione diversa dalla mia su violenza o aggressività, ma dovresti specificare cosa intendi con quelle parole, e poi essere coerente nel corso della tua argomentazione.
Non hai torto sugli equivoci terminologici e concettuali. Ricordo Freud e il suo concetto di pulsione di morte, ma non si possono dimenticare già ai tempi del padre della psicoanalisi le posizioni di Adler, più vicine ad un concetto molto ampio di aggressività, che presuppone l’autoaffermazione individuale, il rapporto con la realtà inteso come funzione adattiva e reattiva.
Già, Adler introduce per primo l’idea dell’aggressività come una pulsione primaria, autonoma, al tempo in cui invece Freud la vedeva come un aspetto delle pulsioni, sessuali e di autoconservazione, in quanto la pulsione suppone di per sé una spinta, una “forza” al fine di conseguire l’oggetto. Freud per ciò, all’incirca fino al 1915, intende l’aggressività in un senso più vicino all’etimo latino, da ad-gradior, cammino verso;pertanto qui non è connotata in senso negativo, cioè come un pensiero o comportamento guidati da un’intenzione lesiva. Anzi, se mi consenti una piccola divagazione, l’aggressività intesa in questo senso, sembra essere una componente necessaria della sessualità maschile: il coito comporta un andar dentro di carattere intrusivo, diverso dal carattere recettivo, che accoglie dentro, proprio della sessualità femminile. So – detto ancora per inciso – che le femministe e gli amici LGBT avrebbero da ridire; ma ariprova di quanto affermo, riscontro in clinica che l’impotenza maschile non è dovuta tanto o soltanto all’animarsi conflittuale di fantasmi incestuosi, ma al fatto di sentire l’atto della penetrazione come una “aggressione” che confligge con la tenera affettuosità. Che poi possano innestarsi fantasmi sadico-aggressivi correlati al coito, e a tante metafore esimbolizzazioni dello stesso, ciò fa parte di un ventaglio di possibilità che suppongono comunque l’originaria connessione della sessualità coitale con l’aggressività nel suddetto senso “benevolo” della parola.
Tornando al rapporto Adler vs Freud, rilevo che la netta divaricazione che si consumerà in seguito tra i due – cioè quando Freud cambierà idea e farà pure lui dell’aggressività una pulsione a sé, ma di segno ben diverso rispetto ad Adler – dipende dalla radicalizzazione di due linee implicite nel concetto di aggressività. Adler va, come tu ricordavi, nella direzione di intenderla come una spinta all’autoaffermazione (come quando si dice a uno sportivo o a un ragazzino, “sii ‘aggressivo’”, cioè datti da fare, impegnati con energia) ed è secondo lui un’aggressività compatibile con le esigenze della socialità. Freud, come è ben noto, va nella direzione di intenderla come una primaria spinta alla distruzione e all’autodistruzione nella misura in cui la radica ulteriormente nella pulsione di morte (a partire da Al di là del principio di piacere, 1920). Solo se si intreccia con le pulsioni libidiche, l’aggressività può esser contenuta nella sua radice di innata distruttività. Ed è poi la linea enfatizzata dalla Klein e divenuta egemone da noi fino agli anni Settanta e Ottanta, anche per l’influenza di una personalità di primo piano come Franco Fornari.
Mi sembra però che oggi questa linea sia un po’ decaduta.
Certo, è andata in crisi sotto un duplice attacco: il rifiuto della discutibile nozione di pulsione di morte, già a partire dall’americana psicologia psicoanalitica dell’Io; la contestazione o limitazione, poi, della stessa nozione di pulsione, pur fondamentalissima in Freud, ad opera dellevariegate correnti “relazionali” e intersoggettive di oggi. In queste correnti si fa largo spazio alla qualità delle relazioni affettive, al ruolo del caregivernel guidare, nel bene o nel male, lo sviluppo del soggetto. Quindi va in secondo piano, negli uni di più negli altri di meno, l’idea di un’aggressività innata, in fondo legata al nostro patrimonio biologico.
Ad esempio, un autore come Kohut, che enfatizza il tema del narcisismo per spiegare lo sviluppo sia sano sia patologico, ammette un’aggressività violenta e distruttiva sì, ma secondaria a un narcisismo patologico: è il tema della “rabbia narcisistica” quale reazione spropositatae implacabilmente vendicativa a un amor proprio ferito, tipica di chi ha un’immagine grandiosa di sé. In ciò per altro si avvicina inconsapevolmente a Lacan: l’aggressività come correlata al famoso “stadio dello specchio”. La matrice dell’aggressività distruttiva, dunque, è un caregiver non empatico, o, peggio, traumatizzante. Ma Kohut non esclude neppure forme di aggressività funzionali al conseguimento di qualche oggetto, che cessano una volta raggiunto lo scopo, e ancora comerealizzazione di sé, un’aggressività dunque non patologica, correlata al “sano” narcisismo. Quindi si avvicina, di fatto, alle tesi di Adler di cui dicevamo. Insomma, c’è ampia possibilità di scelta nel vasto menù delle offerte teoriche oggi in campo in tema di aggressività.
Se mi chiedi poi come la penso io, ti dirò che non mi convince la nozione di pulsione di morte, perché mi sembra troppo basata su una discutibile speculazione di filosofia della biologia. Credo tuttavia che non siano da escludere radici biologiche a spiegazione anche di pensieri e comportamenti aggressivi, ma ritengo queste radici non identificabili con una pulsione nel senso di Freud, bensì come delle predisposizioni pregresse, sorte di “schemi comportamentali”, innati ma pure acquisiti.Questo anche perché la nozione di pulsione, per come è articolata da Freud, in “fonte, spinta, oggetto, meta” (Pulsioni e loro destini, 1915), può ancora attagliarsi alle pulsioni sessuali, molto meno all’aggressività (e meno ancora alla pulsione di morte).
Già, le radici biologiche. Vedo nei tuoi lavori che caldeggi un approccio biopsicosociale anche a queste tematiche. Potresti spiegarti meglio?
In effetti penso che dovremmo affrontare la spiegazione di ogni comportamento umano presupponendo in linea di principio la compresenza di questi tre fattori, o meglio, a ben vedere, trattasi di tre famiglie di fattori. I quali dicono della “natura” di noi esseri umani: corpo (in senso ontogenetico e filogenetico), mente (conscia e inconscia) e relazioni sociali (intra ed extra familiari). Va pertanto respinta l’alternativa secca se un dato comportamento sia dovuto alla struttura mentale del soggetto, piuttosto che alle influenze familiari e sociali, piuttosto che agli stimoli somatici; in ogni fenomeno psicologico e psicopatologico va invece posta la questione: quanto può aver pesato ciascuno di questi tre fattori? Certo in alcuni fenomeni il peso di un fattore può essere di gran lunga predominante, almeno come causa determinante, mentre trascurabile può essere il peso di un altro.
Però – attenzione! – il concorso di queste tre famiglie di fattori non va inteso come una mera sommatoria, prima il corpo, poi la mente, poi la società, ma come un’intima compenetrazione e circolarità tra di essi. In effetti, superando le dicotomie corpo vs mente, natura vs cultura, sappiamo quanto mente e relazioni sociali “diventino” corpo, nel senso che si inscrivono nel cervello grazie alla plasticità delle sinapsi; e dunque abbiamo una cultura che in certo senso diventa natura biologica. Ma è anche vero che il corpo, comprensivo delle differenze sessuali, con le sue oggettive istanze e le correlate fantasmatiche, orienta sia la mente, sia la cultura e le relazioni sociali, certo non in maniera deterministica e univoca – alla faccia, se permetti, di un “iperculturalismo performativo” alla Butler, per cui gli stessi eventi cosiddetti somatici non sarebbero che effetto di linguaggio.
Lo psicologo o psicoterapeuta legittimamente privilegia dal suo vertice osservativo il ruolo dello psichico, che per altro si trova ad essere intermedio e dunque mediatore tra il somatico e le relazioni sociali. In questa sua posizione intermedia corre però il duplice opposto rischio di concedere troppo alle basi somatiche, come in certa misura al tempo di Freud, o troppo alle relazionali intra-famigliari e in genere sociali, come in tanti orientamenti contemporanei. In effetti nel main stream odierno il pendolo batte dal lato del socio-relazionale. Così, nella fattispecie dell’aggressività, si insiste più che in passato sul ruolo del trauma (reale), della violenza subita in famiglia, sulla crisi della funzione regolatrice e interdittiva rappresentata dalla figura paterna, ecc.
Quindi, se non capisco male, rivalutando il peso della corporeità di contro all’eccesso odierno di sociologismo e culturalismo, vuoi tener ferme le matrici filogenetiche e ontogenetiche dell’aggressività. Ma sono un dato sempre operante nell’individuo (e qui c’è da considerare il rapporto tra questo e gli aspetti temperamentali nel loro esprimersi in diverse strutture o organizzazioni di personalità) o una sorta di potenziale che si “attiva” sulla base dello sviluppo psicologico dell’individuo e/o dell’ambiente socioculturale?
In primo luogo, dobbiamo tutti riconoscere il peso delle matrici ontogenetiche: è l’ABC della pratica psicoanalitica indagare nello sviluppodell’individuo, specie quello infantile. Ma oggi più che ai tempi di Freud sappiamo, come dicevo prima, quanto le relazioni precoci, la storia affettiva infantile reale o fantasmatica che sia, si inscrivano nel cervello dando luogo a habitus comportamentali, anche seriamente disadattivi eimprontati ad aggressività, difficili da modificare (non mi scandalizzo per l’uso anche di psicofarmaci in casi di adolescenti gravemente oppositivi, compulsivi, provocatori, come ausilio alla psicoterapia).
Quanto alle matrici filogenetiche, se vogliamo andare alle radici di aggressività e violenza, a mio avviso non possiamo non indagare la nostra struttura antropologica di homo sapiens. Anche se le considerazioni che sto per fare non sono immediatamente fruibili in clinica, credo che dal punto di vista della teoria siano opportune: la struttura antropologica offre le condizioni di possibilità, cioè le cause remote, che predispongono a ogni tipo di comportamento aggressivo.
In effetti, se non ci fosse una pregressa predisposizione, anche di tipo filogenetico, che opera come causa remota e che si slatentizzata in date circostanze e date certe strutture di personalità, avrei difficoltà a capire la facilità di tanti fenomeni di aggressività violenta. Ben inteso, non sto parlando di innate pulsioni distruttive; preferirei parlare, avvicinandomi in ciò agli studi degli psicologi cognitivisti e anche a quelli dell’etologia post lorenziana (Eibl-Eibesfeldt e il sociobiologo Oscar Wilson), di schemi comportamentali predisposti – vuoi per nascita, dunque di matrice filogenetica, vuoi, aggiungo io, introiettati dalle relazioni precoci così da plasmare il cervello. Questi schemi non necessariamente si traducono in effettive azioni o pensieri, ed è una differenza importante sia rispetto alla pulsione aggressiva di Freud, sia anche rispetto all’istinto aggressivo di Lorenz – i quali entrambi, secondo il noto modello “idraulico”, devono direttamente o indirettamente scaricarsi. In quanto competenze a disposizione, gli schemi comportamentali cui penso sono suscettibili di performarsi in un effettivo comportamento date certe circostanze, che possono rappresentare le cause prossime ovvero scatenanti dell’azione aggressiva, e inoltre date certe strutture di personalità, che possono costituire le cause determinanti (determinanti, perché in ultima analisi è il soggetto che agisce, mediando, consapevolmente o inconsapevolmente, tra le pregresse disposizioni interne e le circostanze esterne).
Insomma, per farla breve, homo sapiens ha le competenze anche della peggiore aggressività violenta, come dimostra la storia umana bagnata di sangue, e in ciascuno di noi – la sparo grossa – c’è virtualmente un po’ di Hitler e di Lucrezia Borgia. Il filosofo Blaise Pascal giustamente scriveva che l’uomo non è né bestia né angelo; per parte mia mi permetterei di aggiungere che, date certe circostanze e date certe strutture di personalità, l’essere umano può diventare sia bestia sia angelo.
A proposito di queste forme disumane – ma purtroppo “umane” – di violenza, che ne pensi del valore d’uso del concetto di “aggressività maligna” di Fromm, che parrebbe riuscire a discriminare, per quanto un po’ grossolanamente, tra aggressività sana e adattiva e tutte quelle forme di aggressività/violenza tese a creare un danno all’altro, che rubrichiamo sotto termini quali “delinquenza”, sociopatia e altro?
La nozione di aggressività maligna, un’aggressività acquisita nel corso dello sviluppo che Fromm vuole sostituire alla truce nozione freudiana di un’innata pulsione di morte, è introdotta in contropartita all’aggressività per così dire “benigna”, già concettualizzata da Lorenz. Il titolo delcapolavoro di questo padre dell’etologia, che nell’originale tedesco suona Il cosiddetto male, è tutto un programma: l’aggressività sarebbe un male apparente, perché funzionale alla difesa del singolo individuo e alla sopravvivenza della specie, selezionando nella competizione intra- e interspecifica i più adatti, i più forti, che possono così trasmettere il loro patrimonio genetico.
Dunque Fromm sostiene, pure lui, la positività di un’aggressività adattiva, a scopo di difesa e di sana affermazione di sé. Personalmente non respingo a priori queste altre accezioni di aggressività. Preferisco però riservare l’espressione aggressività, al fine di evitare tanti equivoci concettuali come dicevo prima, al senso ristretto di tendenza a ledere, a far del male, anche se poi, come per Lorenz e Fromm, essa può risultare in fin dei conti utile e adattiva (è il caso ad esempio dell’adolescente che produce atti violenti contro i genitori, come mezzo seppur immaturo per affermare una propria legittima autonomia).
Con “aggressività maligna” Fromm si riferisce alle forme particolarmente perverse e distruttive che lui correla, analizzando esemplarmente la biografia di Hitler, a tendenze sadico-anali radicatesi nel carattere e favorite nella fattispecie da certe relazioni con la figura materna: portano il soggetto a preferire l’inanimato, anzi il cadaverico (necrofilia), piuttosto che l’amore per il vivente. Personalmente, se considero la biografia di taluni “grandi” personaggi della storia come conquistatori, generali, dittatori – che per quanto osannati sono stati in vero grandi criminali – penso in primis agli effetti deleteri di narcisismi grandiosi, assolutamente incuranti delle sofferenze altrui, che hanno lasciato emergere le tendenze peggiori di cui l’essere umano è capace. Se considero poi i “piccoli” personaggi criminali della cronaca nera, tipo violentatori seriali o killer professionisti, penso in primis a personalità paranoidi o sociopatiche, nelle quali le stesse tendenze sono emerse a seguito di storie individuali contrassegnate da traumatici abusi infantili e/o da culture delinquenziali (mafiose, esempi negativi appresi, esaltazioni machiste).
In questo numero della rivista abbiamo pensato di occuparci di diverse forme di violenza e, in particolare, della violenza sommersa, perché le sue stesse manifestazioni possono apparire debolmente o essere implicite, ma non per questo meno efficaci nel danneggiare l’Altro. A questo proposito cosa pensi del palesarsi (anche in forme meno esplicitamente aggressive) della violenza contro il sesso femminile e del cosiddetto bullismo? E quali lenti di osservazione possiamo usare per contestualizzare queste forme di sopraffazione e violenza, tenendo conto dello Zeitgeist della nostra epoca?
Certo è merito della psicoanalisi aver scovato nell’inconscio forme di aggressività sottili ma virtualmente non meno virulente, come nei sogni o negli atti mancati, per non dire della variegata gamma di fenomeni di autoaggressività. Homo sapiens è animale ampiamente culturalizzato, più di ogni altra specie animale, e quindi l’aggressività ha possibilità di esprimersi anche in forme verbali, simboliche, metaforiche, senza alcuna manifestazione di forza fisica. Come esseri bisognosi di riconoscimento, poi, ogni offesa nei nostri confronti, è sentita come una violenza infertaci.
Anche nella cosiddetta violenza di genere abbiamo forme subdolamente oppressive, come nel cosiddetto gaslighting, che si esercita specie tra coniugi. Nel bullismo, specie femminile, troviamo una sottile violenzafatta di pettegolezzi maligni, di perfidie, di esclusione dal gruppo amicale della compagna sgradita, mentre il bullismo maschile è più portato alla rumorosa violenza verbale e alla sopraffazione fisica. (Me ne ero occupato nel volume collettaneo Bullismo, tra globalizzazione e realtà locale, Carocci, Roma 2012). Il caso della violenza di genere mi pare significativo a illustrare proprio il concorso di più fattori nell’ottica biopsicologica. Permetti allora qualche parola in più, anche perché mi consente di accennare alla diversità donna/uomo in fatto di aggressività e violenza.
Distinguerei schematicamente tre tipologie di violenza di genere: quellabrutale che ignora ogni relazione “umana” con la vittima, la sua espressione più grave è lo stupro di una sconosciuta. V’è poi la violenzanella coppia, nel corso di relazionali conflittuali più o meno lunghe: a differenza dell’altra tipologia in cui prevale la motivazione libidico-sessuale, in quest’altra, se c’è rapporto sessuale forzato, esso è finalizzato allo scopo primario, che è la sottomissione della donna, o la vendetta fino al femminicidio (che invece è raro nell’altra tipologia, a meno di un particolare disprezzo per la donna, come quando trattasi di prostituta). V’è poi una tipologia intermedia tra le due, in cui spinta sessuale e spinta al dominio sull’altra si intrecciano, senza che vi siano rilevanti rapporti affettivi. Caso tipico è lo stalking laddove compaiano anche molestie sessuali; e pure il mobbing, purché vi si abbia una motivazione di genere (ad esempio non si accetta di essere comandati da una donna), o consista altresì in apprezzamenti sessuali (come strumento di umiliazione della collega sgradita, invidiata). Ciascuno dei fattori biopsicologici menzionati agisce sempre, ma in misura maggiore o minore a seconda della diversa tipologia di violenza di genere.
In effetti le violenze di genere – per quanto diversamente motivate a riguardo delle cause determinanti (ricollegabili alla personalità del violentatore), e a riguardo delle cause scatenanti (dipendenti dallecircostanze) – a riguardo delle cause remote presuppongono una medesima struttura antropologica maschile, filogeneticamente ereditata, quale necessaria condizione di possibilità del manifestarsi di tutte queste forme di violenza. Mi spiego. Nulla potrebbe esprimersi in termini di violenza di genere – che, si noti, è generalmente dell’uomo sulla donna e raramenteviceversa – se la sessualità maschile, al di là delle contingenze sociali, culturali ed educative entro cui il singolo si è formato, non si configurassesotto il profilo anatomo-fisiologico e poi sotto quello psicologico – loricordavo prima – come un “andar dentro intrusivo, penetrativo”. Ed è una differenza essenziale rispetto alla sessualità femminile, che si configura invece come contenitiva, recettiva, per lo meno sotto il profilo anatomo-fisiologico. Difficile poi non intravvedere come questa diposizione maschile all’aggressività sessuale nel suddetto senso fisiologico, sia l’avvio di un ventaglio di possibilità in cui l’aggressività può finire, all’estremo opposto del ventaglio, con l’assumere caratteri di forzatura fisica o psicologica al fine di conseguire lo scopo penetrativo. Non mi pare ci sia un analogo femminile quanto all’esercizio della sessualità, se non per fantasmatiche di identificazione fallica.
Dunque anche la sessualità francamente violenta è purtroppo inscritta nel range di possibilità del maschio di homo sapiens nel senso di schemi comportamentali quali sorte di competenze che possono attivarsi a seguito di qualche stimolo, interno o ambientale, ma non necessariamente debbono performarsi in un comportamento. Lo ricorda Silvia Bonino nel suo volume Amori molesti (Laterza, Bari 2015) dove individua la matrice biologica della violenza sessuale maschile nella porzione di cervello rettile che tutti abbiamo (secondo l’accredita teoria di McLean dei tre cervelli sovrappostisi nella storia filogenetica): di per sé questo cervello porta il maschio all’aggressione sessuale come normale mezzo di accoppiamento e ad un tempo porta la femmina alla sottomissione per la medesima ragione di riproduzione della specie.
Ma se le cose stanno così, se l’aggressione sessuale è connaturata nel maschio, non possiamo più uscirne. E poi non è che le donne siano sempre innocenti. Spiegati meglio.
Beh, ancora Bonino ricorda che fortunatamente pure il maschio umano è fornito di una porzione di cervello mammifero, con la relativa dotazione ormonale: esso supporta la propensione alla cura e all’affetto, in primisverso l’inerme cucciolo umano e per estensione verso il/la partner.(Pertanto il rispetto della donna, preziosa conquista di civiltà, può far levasu quest’altra disposizione biologica, tanto più da valorizzare nella cultura umana dopo la scomparsa nella donna del fenomeno dell’estro, che invece limita l’aggressività sessuale del maschio nelle specie animali).
Che il fisiologico esercizio della sessualità possa degenerare in violenza sessuale, quale sottospecie della più generale predisposizione umana a comportamenti violenti, è insomma una possibilità inscritta nel maschio ben più che nella femmina. Del resto è notoria la maggior disposizione a comportamenti di aggressione violenta – sia di carattere sessuale sia non sessuale – nell’uomo che non nella donna: lo prova quanto meno il fatto che i carcerati per atti di violenza sulla persona sono in numero almeno quattro volte maggiore rispetto alle carcerate per i medesimi reati in tutti i Paesi (difficile addebitare questa evidenza solo alla cultura). Ad esser più sottili, però, non sappiamo se le donne siano dotate di minori o magari maggiori propensioni aggressive, date le tante forme di aggressività che si manifestano in sottile violenza psicologica di cui non difettano certo le donne. Tuttavia in fatto di aggressività palesemente violenta e di violenza fisica le donne cedono senz’altro il passo all’uomo, anzi, proprio nel casodella violenza sessuale, lo stupro femminile che miri al coito con un uomo, è praticamente impossibile. Banali verità, si dirà, ma che a ben vedere dicono di una strutturale dissimmetria tra maschio e femmina, checomporta piuttosto una complementarità sul piano biopsicologico, la quale non toglie nulla alla parità di genere (sento già le urla di certo femminismo).
Comunque l’idea della violenza di genere come espressione di schemi comportamentali, parte innati e parte acquisiti, appannaggio del maschio permette di render conto agevolmente come in certe circostanze anche il maschio più “responsabile” possa trasformarsi in un violentatore (non c’è solo lo stupro, violenza sessuale è ogni atto libidico non gradito dalla controparte). La stessa idea può meglio render conto della facilità con cui in contesti di guerra avvengono stupri di massa: se nei giovani guerrieri non ci fossero quelle disposizioni, l’ideologia di umiliazione sessuale del nemico non avrebbe facile presa (anche se non sono affatto esclusi casi di resistenza individuale). Bene lo mette in evidenza Zoja (Centauri. Alle radici della violenza maschile. Boringhieri, Torino 2016). Alludo poi allo stupro di gruppo di giovani “per bene” nei confronti della/e amica/che invitate a cena, dove l’atto può essere facilitato dai fenomeni di imitazione del leader, dai fenomeni gruppali di deresponsabilizzazione del singolo, di svilimento morale della vittima (“è un po’ puttanella, una che ci sta”), di sottovalutazione dell’atto (“ma era per gioco”). Sono circostanze appunto che permettono l’attivazione di schemi comportamentali pregressi, non escluso quell’apprendimento per modeling dai media (cioè l’imitazione dell’esempio), ben studiato da Bandura. Capiamo così, ma non giustifichiamo certo, perché sia raro che una donna venga difesa dall’uomo che si accorga del palpeggiamento ai suoi danni in luogo affollato; capiamo, ma non giustifichiamo, la “benevolenza” di non pochi magistrati maschi verso queste forme minori di violenza sessuale.
Insisto, caro Mauro: non rischi con questo tuo discorso di dare l’impressione che però in fin dei conti riduci la violenza di genere allematrici filogenetiche della sessualità?
In vero sto parlando di cause remote o predisponenti: se vi insisto, è perché oggi mi sembrano neglette dal main stream sociologista e culturalista, e comprensibilmente poco considerate nella clinica psicoterapica, perché su di esse poco o nulla si può fare. Concederaicomunque che le basi filogenetiche vengono di più allo scoperto nella prima tipologia di violenza di genere, però sottolineo che la brutale violenza sessuale che la caratterizza, per esplicarsi passa comunque per la personalità e la storia del violentatore. Ad un tempo concordo assolutamente con te che, specie a riguardo delle altre due tipologie di violenza, vengono in primo piano, quali cause specifiche o determinanti, fattori strettamente correlati alle peculiarità dell’odierno contesto culturale, allo Zeitgeist, come dici tu. Sono dunque ineludibili le considerazioni sui grandi mutamenti sociali degli ultimi decenni, in cui emerge tra i due generi una sorta di lotta per il potere.
Mi riferisco in particolare ai contraccolpi psicologici sugli uominidell’avanzamento professionale e sociale delle donne in tanti ambiti, per lo meno nel nostro Occidente: sono saltati ruoli di genere prima ben definiti e differenziati tra donne e uomini, però a vantaggio delle donne (tante donne accedono ad ambite attività e carriere professionali già ritenute “maschili”, come la politica, le funzioni dirigenziali, le forze armate; invece quanti uomini ambiscono a fare il baby sitter, o il maestro d’asilo, o il casalingo?). A questi imponenti cambiamenti sociali la cultura maschilespesso non ha trovato la plasticità necessaria ad adattarsi, anzi a cogliervidelle nuove opportunità. Dunque, una cultura viril-maschilista, per altro a volte instillata dalle stesse madri, rende difficoltosa a non pochi uominil’accettazione del nuovo status conquistato dalle donne, ed ecco allora unimportante fattore determinante o scatenante la terza tipologia di violenza: lo stalking a base di moleste sessuali, come dicevo, il mobbing verso la capa e/o verso la collega di lavoro più preparata e intelligente.
Ma questa ère des femmes (epoca delle donne, in assonanza con l’ère des foules, epoca delle folle degli psicologi delle folle di fine Ottocento) ha pure importanti ripercussioni nella vita di coppia, dove molti maschi faticano ad adattarsi allo status di autonomia economica e psicologica raggiunta dalla compagna, mentre ad un tempo si appanna il ruolomaschile e paterno in famiglia. Ebbene, questa assenza di ruoli complementari ben definiti, scandita in passato da scontata subordinazione economica e psicologica della donna al capofamiglia, favorisce la conflittualità nella coppia, caratterizzando così la seconda tipologia di violenza di genere, prima menzionata. Se non è mai giustificata la violenza fisica, a volte essa è la reazione grossolana di compagni o mariti a fronte di compagne mediamente più abili e sottili nella provocazione psicologica e verbale. Pensa poi al tentativo di certe donne in situazioni conflittuali di portare, a ragione o a torto, i figli piccoli dalla propria parte e dalla parte della propria famiglia, anche aizzandoli contro il padre e i parenti di parte paterna: la reazione dell’uomo, mediamente meno raffinata sul piano psicologico, porta a un uso più facile, rispetto alla donna, della violenza fisica, in cui per altro è certo di prevalere.
Sono fenomeni su cui c’è ampia letteratura e non mi dilungo, se non per insistere una volta di più sulla molteplicità di fattori in gioco e sul loro diverso peso nelle varie tipologie di violenza di genere. Ed è cosa cheinvita la nostra prassi clinica a non fermarsi sulle spiegazioni scontate – è colpa del maschio aggressivo, prepotente, della cultura patriarcale-maschilista, ecc. –, data anche la complessità di ogni caso. Ma sui casi concreti tu e i colleghi con te operanti, grazie alla vostra esperienza clinicaavete certo di che insegnare e anche insegnarmi.
Grazie infine del tuo paziente ascolto dei miei sproloqui di vecchio prof.
No, al contrario, grazie molte a te, Mauro
*Mauro Fornaro è Psicologo e Psicoterapeuta, già Docente Ordinario di Psicologia dinamica presso l’Università di Chieti-Pescara