di Cristiano Trentini *
Interculturalità è un’espressione che racchiude una notevole quantità di significati, categorie e paradigmi, distinguendosi comunque rispetto ad espressioni che paiono semanticamente simili come la multiculturalità e la transculturalità.
Nei confronti di tali classificazioni, in tempi recenti è emerso un certo interesse professionale per il modo in cui vi si siano avvicinate le classiche categorie operative psicologiche nonché le modalità con cui queste ultime “agiscono” (sia sul piano dell’analisi dei fenomeni appunto interculturali sia su quello dell’intervento terapeutico).
Venendo a qualche definizione, per intercultura si intende oltre a “tutti quei contatti tra culture diverse di cui i fenomeni migratori sono solo un aspetto”, anche l’ipotesi di un “riconoscimento di una pari dignità tra le ‘culture’ che si incontrano”.
Una particolare definizione di intercultura considera le diverse culture come un insieme di narrazioni condivise, contestate, negoziate.
Cominciamo quindi ad individuare qui una nozione fondamentale, la negoziazione. Questo concettoè noto come sia stato oggetto di interesse da molti anni nell’ambito della psicologia sociale. In questo caso vengono negoziate le narrazioni in quanto detentrici di una efficacia decisamente pragmatica.
Come in quasi ogni fenomeno sociale, anche in questo caso si fa riferimento a determinate motivazioni. La definizione di intercultura del 2005 dell’Unesco a tal proposito mette in rilievo alcuni obiettivi assolutamente coerenti alla dinamica negoziatoria: si parla infatti di “interazione culturale” e il “riconoscimento delle diversità”, sottolineando la possibilità di generare espressioni culturali attraverso il dialogo e il rispetto reciproco. (Nota 1)
Il rispetto e il riconoscimento appena citati, tra l’altro, sono tali da non limitarsi ad una generosa attenzione verso il “diverso” (il quale, di per sé soddisfa moralmente solo uno dei soggetti del rapporto), ma presumono che col “diverso” si operi collaborativamente affinché egli possa esplicare la propria soggettività. (Nota 2)
Il concetto di riconoscimento indicato dall’Unesco, tra l’altro, è legato ad alcune forme di operatività proprie della professione del counseling. Parliamo dell’accettazione positiva incondizionata, che consiste in un atteggiamento di accettazione dell’altro in quanto persona, senza aspettative o giudizi, in un atteggiamento di rispetto profondo.
Come si vede, quindi, anche aspetti istituzionali fanno riferimento a paradigmi propri di professioni psicologiche, nella fattispecie di una professione non regolamentata.
Altra definizione interessante di società interculturale è quella che suppone un contesto sociale tale ove sia messo in atto un progetto volto a costruire relazioni “nuove” (intenzionalmente diverse da quelle finora in essere), fra attori di culture diverse (o che, per meglio dire, vivono all’interno dello stesso sistema socio-economico e culturale ma fanno riferimento a culture di origine differente).
Le relazioni nuove costituiscono quindi l’orditura di un gruppo “originario”, cui viene attribuito il potere di decisione, che individua e promuove strategie di incontro fra le culture stesse, oltre ad occasioni positive di conoscenza reciproca e valorizzare le differenze presenti al suo interno.
Ma come realizzare un gruppo del genere? Grazie ad un metodo che prevede una logica di rapporti, che implichi scambi e prestiti. Si innesta qui, come si può notare, a livello individuale ma anche a livello di comunità, un corpus nozionistico, elaborato da Robert Cialdini, ricercatore americano, il quale, parlando del consenso senza pressione, al secondo dei quattro principi da lui elaborati, individua il concetto di reciprocità: “una persona tenderà ad acconsentire ad una richiesta nella misura in cui il suo consenso costituisce un contraccambio di comportamento”.
L’interculturalità è stata analizzata anche, come è facile intuire, come rapporti fra maggioranza e minoranza. Si tratta di un tipo di relazione, storicamente mai facile da gestire. Il caso più evidente a tal proposito è quello che comprende gruppo immigrati e gruppo ospitante.
Consideriamo a titolo di esempio la strategia più intuitiva e immediata usata dalla minoranza: l’invisibilità (ovvero la mimesi); come si vede, mette in moto un meccanismo che cambia la sua percezione da parte dell’altro. Tale meccanismo è ovviamente applicabile ad un intero gruppo; un fattore questo che fa pensare ad un altro importante elemento metodologico della psicologia classica, nella fattispecie quello legati al problema dell’outgroup, in contrapposizione con l’ingroup. (Nota 3)
Entrambe le tipologie di gruppi (gruppo di maggioranza e gruppo di minoranza) fanno parte del corpus di spiegazioni del pregiudizio secondo Tajfel. Egli infatti, dopo aver formato dei gruppi in modo casuale – lanciando una moneta: testa, gruppo 1 croce, gruppo 2 – ha osservato che i membri che partecipavano del medesimo gruppo (quindi dell’ingroup) si comportavano come se fossero amici di lunga data (e si definivano “personalità piacevoli e più rispettose” rispetto ai membri dell’outgroup).
Era il segnale di un’evidente discrepanza di gruppo (ingroup bias) e consisteva nel provare sentimenti positivi e trattamenti speciali per le persone appartenenti al proprio ingroup e avere sentimenti negativi e trattamenti ingiusti nei confronti dei membri dell’outgroup.
Il motivo di ciò risiede nella stima di sé. In buona sostanza, le persone aumentano la propria autostima quando si identificano con un gruppo preciso, peraltro percepito come superiore agli altri.
Anche la nozione di senso comune avvalora la percezione che i membri hanno dei due gruppi: il proprio e quello a loro contrapposto.
Come acutamente osserva Dal Lago, infatti, sempre prendendo a riferimento il mondo immigrazione <<Se, in base ad una ben nota teoria sociologica, il senso comune è costituito da ciò che tutti pensano e acquista valore di verità per il solo fatto di essere pensato dai più, ne consegue che le opinioni di senso comune anche se scientificamente false, diventano socialmente vere e capaci di cristallizzarsi in dogmi sociali>>.
Nell’ambito di questo discorso non si può tacere circa la dimensione emotiva, quella legata allo “shock culturale”. Licari (vedi Sitografia) la definisce in questo modo: un impatto disorientante dovuto al confronto. Quasi mai alla pari, con una cultura profondamente diversa dalla propria. Nella maggior parte dei casi tale shock “è superabile dalla persona, qualora faccia riferimento alle proprie risorse intrapsichiche o alle reti parentali e amicali (le quali tuttavia, almeno fino a poco tempo fa solo in pochi casi sono presenti nel paese d’accoglienza)”, cioè a specifiche dinamiche ingroup/outgroup.
Lo shock culturale sta alla base di nuove strategie d’adattamento o meglio “strategie di acculturazione”, che comprendono le modalità che un individuo o un gruppo sperimenta nel processo di adeguamento: da una parte la “partecipazione” e la già citata “mimesi con una certa comunità sociale dominante e di accoglienza”, dall’altra il “ritiro in gruppi chiusi, in ghetti o in solitudini personali con esiti drammatici sul piano della legalità o della salute”. (Nota 4)
La contrapposizione ingroup/outgroup, emerge ancora se si fa riferimento alla teoria di Thorsen Sellin, riguardante il conflitto di culture. Tale modello contrappone le società semplici, culturalmente omogenee, caratterizzate dalla tendenza all’armonia e all’integrazione (nelle quali le norme di condotta pare godano di un consenso generale), alle società moderne complesse (dove i conflitti fra le norme dei diversi gruppi presenti nella società diventano frequenti). (Nota 5)
Tra queste due comunità dunque, il conflitto sarà destinato a riproporsi finché una delle due comunità, grazie allo sciogliersi della dinamica ingroup/outgroup, non si rimodellerà in nuove forme di socializzazione, abbandonando i valori e le forme di comportamento di partenza, per fare propri, almeno in parte, quelli della comunità in contrapposizione. (Nota 6)
Fino a quel momento infatti, individui di una comunità potevano infrangere le regole della comunità in contrapposizione e restare fedeli alle norme di condotta del proprio gruppo, interiorizzate nei primi anni di vita.
Rimanendo in un contesto di coesistenza di due comunità quantomeno differenti l’una rispetto all’altra, restare fedeli alle norme del proprio gruppo è una condizione che potrebbe configurarsi anche come di devianza di una rispetto all’altra comunità. Rimanendo nel caso migranti /ospitanti, tale fenomeno riguarda non solo i soggetti in arrivo nel paese ospitante, ma anche, spesso, le seconde generazioni.
La devianza vista come propensione a infrangere le regole tra l’altro, è legata anche al modo di educare la prole. Ciò è tanto più vero quanto più i bambini si sentono lontani dalle regole delle comunità ospitanti (esercitando la comunità di origine una forte pressione a seguire i membri del proprio gruppo come modelli).
Molto spesso come abbiamo visto, tra gli individui di minoranza, si vengono a formare dei veri shock culturali. Tali traumi, però invece di svilupparsi in comportamenti devianti, o in percezioni decisamente destabilizzanti come lo smarrimento identitario, possono virare verso prospettive positive. Si possono convertire, almeno per le giovani generazioni, in impegni volti al riscatto dei sacrifici dei genitori, come lo studio. I mutamenti acculturativi insomma possono essere vissuti come vere e proprie opportunità, tali da migliorare lo stato psicofisico dell’individuo e da renderlo capace di utilizzare al massimo le sue risorse per inserirsi con successo nel contesto culturale che lo ha accolto.
La domanda che sorge spontanea è: come agire in questi casi con i consueti strumenti volti a lenire disagi che inevitabilmente emergono, come lo stress, l’ansia o al limite il burnout? Possono venire in aiuto strumenti propri della psicoterapia o del counseling, quali ad esempio l’ascolto attivo o sui quali non ci dilunghiamo, formando essi una galassia piuttosto nutrita e composita. È chiaro che in questi casi la strumentazione di tipo etnocentrico deve modellarsi e entrare in interazione con variabili più vicini alle nuove culture.
Emerge un altro interrogativo: nel momento in cui vengono utilizzati strumenti tradizionali, le originali appartenenze, i paradigmi originali, possono non essere più tanto validi? Possono cioè stemperarsi o, al contrario acquisiscono nuova efficacia, riconfigurandosi quindi come entità produttive e fertili?
Consideriamo ad esempio il setting. Non c’è dubbio che questo debba essere modificato non solo in funzione dei diversi indirizzi psicoterapeutici qualora ci trovassimo di fronte a un soggetto con un patrimonio culturale proprio di una certa minoranza di cui abbiamo detto poc’anzi. Oppure pensiamo ad un intervento terapeutico basato su tecniche psicocorporee, praticato sempre su soggetti “della minoranza”. Anche in questo caso, indubbiamente, non si può non tenere conto del contesto proprio della persona in cura. (Nota 7)
Nota 1 Convenzione UNESCO per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, 20 ottobre 2005, passim; cfr. anche AA. VV., Investire nella diversità culturale e nel dialogo interculturale, Ed. a cura dell’Unesco, 2009, pag. 9.
Nota 2 Com’è noto, anche le comunità sono dotate di personalità e di soggettività.
Nota 3 https://it.quora.com/In-psicologia-sociale-cosa-sono-gli-outgroup-e-gli-ingroup; tale concetto può essere fatto risalire alle dinamiche relazionali che nascono in gioventù, nei noti gruppi dei pari.
Nota 4 Cfr. G. Licari, op. cit. pag. 152, passim; il termine accoglienza, secondo un’accezione abbastanza accreditata, indica una modalità dell’ospitare, cioè del ricevere qualcosa e/o qualcuno con varia disposizione d’animo (ad esempio, accogliere un caro amico). Accoglienza fa riferimento al termine “accettazione” nel senso che quando una proposta è accettata, è anche accolta; cfr. G. Licari, ibidem.
Nota 5. Criminologo svedese morto nel 1994.
Nota 6 Chiaramente la strategia della mimesi qui è superata. L’accoglimento dei nuovi valori avviene in modo abbastanza profondo.
Nota 7 Ciò è tanto più vero quanto più si tratta di tecniche che riguardano il corpo.
Consideriamo infine l’uso dell’intelligenza emotiva visto come un vero linguaggio e tanto promosso in area psicologica a partire dagli anni ’90; anch’esso può interagire con il complesso delle dinamiche culturali della persona in questione, risultando effettivamente efficace ed arricchente.
Ciò che se ne deduce è la conferma della validità degli strumenti utili sia per soggetti della “maggioranza” sia per quelli appartenenti alla “minoranza”. Questi strumenti potrebbero rappresentare veri e propri ponti metodologici per nuove interpretazioni e per nuovi modelli, i quali si presenterebbero come decisamente originali rispetto ai protocolli consueti. La sensazione che se ne ricava, in ultima analisi, è che la gran parte delle attrezzature (o delle metodologie) di cui lo psicologo si avvale, appartenenti o meno alla tradizione, potrebbe trovare nuove e più fertili prescrizioni teorico-pratiche. Il complesso operativo che ne deriva avrebbe senza dubbio le connotazioni di una dimensione decisamente transculturale.
BIBLIOGRAFIA
AA. VV. (2009), Investire nella diversità culturale e nel dialogo interculturale, Ed. a cura dell’Unesco.
Cialdini R., Compliance principles of compliance professionals: Psychologist of necessity, in Herman C. P., Zanna M.P., Olson J.M, (a cura di), Social influence. The Ontario Symposium, vol. 5, Hillsdale, N.J., Erlbaum.
Dal Lago A., (2004), Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale. Feltrinelli, Milano.
Goleman D., (2011), L’intelligenza emotiva. (tr. It.) BUR, Milano.
Mantovani G. (2008) (a cura di), Intercultura e mediazione. Teoria ed esperienze, Carocci, Milano.
Mucchi Faina A., (1996), L’influenza sociale. Il Mulino, Bologna.
Sica S. e Trentini C., (2013), Formando formando. Roma, Aracne, Roma.
Susi F., (1998). L’educazione interculturale fra teoria e prassi. Università “Roma Tre” (ed. a cura della), Roma.
SITOGRAFIA
Licari G.
www.narrareigruppi.it/index.php?journal=narrareigruppi&page=article&op=view&path%5B%5D=121&path%5B%5D=103
www.peacelink.it/pace/a/31471.html
* Cristiano Trentini è psicologo, specializzato in tecniche di gruppo e trattamenti legati a ansia, stress e burn-out