Rita Sciorato
E’ di nuovo domenica, ma ormai è da giorni che è sempre dominica.
Sono passate sei settimane, di cui due senza poter mettere piede fuori di casa, neppure per portare la spazzatura.
Quarantena doppia. La mia è iniziata prima e in modo più restrittivo per essere stata in contatto con una persona ora ricoverata, e poi tutti in casa.
Va tutto bene ma chissà se andrà davvero tutto bene.
Il dottore della Asl mi chiama ogni tre giorni, mi chiede come sto con voce anonima, ma appena gli dico bene e senza febbre si scalda , e a volte scherza anche.
Alla fine sembra che se la stia scampando bella lui , si anima ogni volta che capisce che va tutto bene e che di non dovrà venire di corsa e scafandrato a prelevarmi.
Nell’ultima telefonata con grande sollievo mi dice : “ Bene , dalla mezzanotte di questa sera lei può uscire, ovviamente secondo le regole di tutti “ e con tono scherzoso aggiunge “ ma mi raccomando non vada in discoteca!”
E’ resistenza? Non so, dai racconti dei miei la Resistenza è stato sì un vivere nella paura e nel sospetto, ma in un’intensa attività e con obiettivi da raggiungere.
Non mi sembra resistenza , mi sembra paziente impotenza.
Io non riesco a fare molto, mi limito a prendermi cura della casa e dell’igiene, peraltro senza nessuna passione.
Riesco a leggere solo il giornale, il diario di Paolo Rumiz mi fa compagnia per dieci minuti, è l’unico estraneo che incontro ogni giorno e peraltro a sua insaputa.
Esco come lui sul tetto terrazzo di casa mia.
Intorno a me tutti i tetti sono terrazzi , un po’ più in su o un po’ più in giù , un pò più in basso o un po’ più in alto del mio . I tetti del centro storico sono così, terrazzi e terrazini di dimensioni e forme diverse che dal basso, dai vicoli, non si vedono.
Ci sono persone ovunque , ma un gran silenzio. Forse se fossimo a Napoli invece che a Genova sarebbe nato un teatro aereo , qui no, riservatezza totale.
A volte intercetto qualcuno che parla al telefono : “ come state voi? Noi tutto bene ….e sì speriamo …”
Parole che uso anch’io nelle mie rare telefonate ad amici.
Silenzio e silenzio, rotto solo ogni tanto da un litigio di gabbiani o peggio dall’ululato delle ambulanze e finalmente a mezzogiorno dal concerto dalle campane.
Suonano tutte insieme , inizia San Donato , a cui si accoda poco più in su Santa Maria di Castello, in fondo, verso il mare, sento anche San Giorgio, su tutte dominano quelle della Cattedrale di San Lorenzo e poi smettono tutte insieme e di colpo torna questo inedito silenzio.
La gente sui terrazzi è sempre più piegata sui vasi , piantano semi penso, tolgono erbacce.
Provo anch’io a dare una ripulita dalle erbe ma francamente la cosa non mi appassiona molto.
Le mie mattinate si consumano così, il silenzio mi è entrato dentro, niente ricordi, niente fantasie, nessun pensiero. Ho l’impressione di avere in funzione solo le funzioni percettive, vista , udito, tatto, sono avvolta da una sorta di estraneazione da me stessa.
Al pomeriggio mi rianimo un po’, forse perché a pranzo ho fatto due parole con mio marito, forse perché il contatto via skipe o via whatapp con qualche paziente risveglia le mie capacità professionali e stranamente va tutto bene.
Alle 18 seguo il bollettino della protezione civile e forse faccio male, ma è diventato un rito che mi pare si addica a persone della mia età.
Cerco di intuire tra le righe dei numeri come stanno effettivamente le cose, ma poi rinuncio, troppe variabili.
Sulle prime penso che di non aver abbastanza dimestichezza con la statistica , ma poi mi rendo conto che non ne vale la spesa che mi affatichi a capire, tanto vale accettare questo stato di impotenza e non attivare altre emozioni.
La sera puntualmente alle sette in video- chiamata mi intrattengo con la mia nipotina di dieci mesi.
Ha sempre uno sguardo molto intenso e serio, le insegno qualche gesto che con mia sorpresa ripete , spesso faccio la scema per farla ridere e quando ci riesco piangerei dalla gioia.
Qualche volta il papà mi ha chiamato all’ora di pranzo: “ Rita fa qualcosa ..oggi non c’è verso , non riesco a farla mangiare”. Cerco subito i miei attrezzi: una scatoletta con dentro dei fagioli che faccio suonare , un tappo che muovo come una marionetta e le dita delle mie mani a cui cerco di dare le più svariate forme inventandomi vocii da cartone animato e poi le canto filastrocche che invento lì per lì..
Quando ride questa strana esistenza riprende senso.
Ma subito penso all’altra mia nipotina, piccola, piccolissima, appena nata e chiusa in casa, mi viene paura. Ho paura che non prenda luce, che non abbia aria pulita, nelle telefonate incito mio figlio a trasgredire: “Esci, portala fuori, piuttosto anche davanti al portone”.
Funziono a scatti, mi accendo e mi spengo.
Venerdì 20 marzo riprendo contatto con la Scuola di Psicoterapia che dirigo.
Al pomeriggio inizio un lavoro costante con il computer , un po’ faccio lezione e un po’ organizzo le lezioni per tutta la scuola . Gli allievi sono dei collaboratori molto affidabili, ma vengo invasa dalla tristezza.
Tutto riprende a funzionare, riusciremo a salvare l’anno, anche se sicuramente dovrà proseguire online fine a giugno.
Mi tormenta l’idea che il gruppo del quarto anno esca dalla Scuola senza essersi più visti di persona. Da un giorno all’altro si sono trovati catapultati su un piccolo schermo dopo quattro anni di vicinanza stretta e ora? Come salutarsi ? Come ridere e gioire per la meta raggiunta ? Come commuoversi per la separazione ? Come farò a mettere nelle loro valigie ricordi, raccomandazioni, conquiste e stimoli per futuri traguardi ?
Certamente sono solo rituali, ma mai come oggi mi è chiaro il loro valore.
Un giorno sul terrazzo dal mio piccolo schermo colgo il loro silenzio, un silenzio strano , provo a parlare interpellando ognuno di loro ed ecco finalmente intuisco, non sono demotivati , non sono banalmente passivi , sono tristi , impotenti , non avrebbero mai immaginato di finire i quattro anni di corso in questo assurdo modo.
Devo aiutarli a reagire e così, come davanti alla mia nipotina , sento che devo e voglio strappargli il sorriso e su due piedi mi invento che possiamo incontrarci nell’area del porto di Genova .
Tutto d’un fiato dico che mi porterò autocertificazione e metro per misurare le distanze .
Ed è stato così che armati di mascherine e spumante abbiamo sfidato il Covid e abbiamo fatto insieme l’ultimo incontro e le loro valigie per la loro partenza per nuovi viaggi nel mondo della psicoterapia e della vita .
Io resterò a Scuola con tutti gli altri e i nuovi che verranno, resterò fiera del buon percorso formativo in cui si sono molto impegnati e a settembre uno ad uno li rivedrò per la discussione della tesi finale e forse in qualche modo ricominceremo, forse a turno torneremo a vederci in presenza a scuola.
Mi mancherà Dora, la mia cara collega svizzera che il Covid ci ha rubato.
Mi mancherà molto.
I giovani colleghi allievi lo sanno , mi hanno manifestato la loro vicinanza in tutti i modi, quelli del terzo anno erano con me sullo schermo quando mi è arrivata la notizia, mi hanno visto crollare.
Nei giorni successivi mi hanno mandato a casa un corriere con fiori e dolci e un biglietto struggente, hanno avuto bisogno di correre in mio soccorso.
Mi hanno aiutato a non cadere nella tentazione di cedere, di dire a tutti basta io non ce la faccio , mi fermo qui, mi ritiro.
Ho tenuto duro , e devo dire che tutti mi sono stati d’aiuto anche a loro insaputa.
Ho continuato a lavorare , a dirigere a organizzare a preparare lezione a sostenere gli altri docenti.
Ma di notte , di notte, anche se poche volte per fortuna, sono stata assalita da incubi.
Non mi era mai successo.
Correvo nei corridoi di un ospedale in mezzo a centinaia di medici e infermieri vestiti da astronauti cercando disperatamente gli occhi di mia figlia dietro la visiera di plastica e non la trovavo, correvo avanti indietro, saltavo per vedere bene temendo che non fosse tra i salvi . Poi di colpo mi svegliavo, ansimante con la tachicardia accendevo la luce e commossa di gioia dicevo quasi a voce alta : Che meraviglia , era solo un sogno !
Tutti i giorni all’uscita nel tragitto dall’ospedale a casa lei mi telefonava, stava bene, e ogni giorno era un giorno in meno di scampato pericolo. Troppi medici si stavano ammalando.
Mi è capitato di pensare ” Accidenti, doveva proprio finire in un ospedale della Lombardia!”. Eppure ne ero stata fiera, avevo sempre privilegiato la sua affermazione nel lavoro che vedevo faceva con grande passione e dedizione piuttosto che la sua vicinanza a me, ma ora saperla a rischio e nell’impossibilità di raggiungerla facilmente si manifestava negli incubi.
Una pacatezza insolita era lo stato d’animo che mi avvolgeva di giorno, avvertivo con distacco una estraneazione lucida, come se qualcuno avesse spostato più in là nel tempo gli scoppi di ira e di dolore più confacenti alla mia natura.
Me ne stavo invece gran parte della giornata a guardare lo stesso panorama a sentire lo stesso silenzio e in questo stato di strana quiete mi sentivo comunque a posto.
A volte questa scena si ripeteva anche di notte e scoprire che in tanti avevano la luce accesa mi faceva sentire in armonia con il mondo.
Il 19 marzo sono uscita di casa per la prima volta, sono scesa a buttare la spazzatura e ne ho approfittato per fare un avanti e indietro sino al portone per un po’ di volte allo scopo di vedere come reagivano le mie gambe .
Ho avuto poi un gran formicolio, così ho iniziato ogni giorno a fare un piccolo giro nei carruggi sotto casa.
Poi è arrivato il 25 aprile. Quest’anno mi è parso che si attendesse questo giorno con particolare emozione, sembrava rappresentare un modo diverso, meno anonimo di sentirsi uniti .
Eh sì serviva anche a me il 25 aprile , mi serviva ad uscire da quella omologazione del “tutti a casa” che sembrava appiattire su un “tutti uguali”.
La sera prima sono andata ad appendere la bandiera rossa sul terrazzo e la mattina dopo ne ho contate dodici, più due bandiere della pace e tre bandiere italiane. Con soddisfazione ho scoperto che il Centro storico di Genova , almeno nelle case degli ultimi piani intorno a me ci tenevano a riaffermare la diversità, l’identità di antifascisti.
Poi sono uscita, sono andata a piazza Matteotti , la piazza dove si è sempre celebrato il 25 aprile . Mi è tornato in mente Pertini , il suo vigore, la sua forza comunicativa e ho provato nostalgia.
Nostalgia del prima , ma del prima prima, quello degli anni in cui ero giovane, degli anni in cui in tanti e insieme si manifestava e lottava per i diritti civili poi conquistati.
I giorni seguenti sono stati uguali agli altri, tranne uno.
Era una mattina di calda primavera ed ero come sempre a leggere come era andata per Rumiz quel giorno, quando sento le note di un organetto.
Non era la radio , e neppure un disco , mi guardo intorno e alla fine in cima alla torre di Canneto vedo una sagoma piegata e capisco che il suono arriva da lì.
Mi sono emozionata, mi stava capitando qualcosa di gradevole e in modo inaspettato .
Come fosse stato un sogno la mia mente è scivolata in libere associazioni.
Ho rivisto il silenzio di quel grande condominio dove Ettore Scola fa incontrare Sofia Loren con Mastroianni. Quel silenzio e il pappagallino che scappa dalla finestra mentre poco più in là domina il frastuono della piazza fascista inneggiante a Mussolini.
Non si vede la piazza nel film, ma se ne avverte il peso, il peso della sua potenza, della sua sfida , del suo dominio.
Un contrasto struggente, un groviglio di passioni tristi e gioiose, un profondo senso di impotenza, perché il regista aveva mi aveva messo nell’impossibilità di scindere i sentimenti di orrore da quelli più delicati suscitati dall’incontro fortuito tra Mastroianni e la Loren.
Così allo stesso modo l’atmosfera delicata di quelle inaspettate note di organetto facevano emergere in me l’oscuro frastuono concitato degli ospedali, la rabbia e il dolore per la morte di Dora, l’ansia e la paura per chi sapevo malato e la paura di ammalarmi che sino ad allora aveva tenuto ben nascosto alla mia mente sveglia.
Non ho più avuto incubi.
Rita Sciorato: Psicologa -Psicoterapeuta, Genova