Tra le mura di casa: il peso invisibile della violenza assistita sui minori

di Maria D’Apruzzo *

“Anche chi ha assistito alla violenza

può trovare una via d’uscita,

se qualcuno è disposto ad ascoltare il suo dolore

e aiutarlo a dargli un senso”

Alice Miller

La violenza assistita rappresenta una condizione complessa e spesso sottovalutata, che colpisce in modo particolare i bambini e gli adolescenti. Secondo il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e Abuso all’Infanzia), la violenza assistita è definita come la situazione in cui un bambino o un adolescente è esposto a comportamenti violenti o abusi all’interno del contesto familiare o in un ambiente che lo coinvolge direttamente, senza essere necessariamente vittima diretta di violenza, ma assistendo a episodi di abuso fisico, psicologico o sessuale.

La letteratura evidenzia che l’esposizione a tali situazioni può portare a traumi e difficoltà relazionali nel corso della vita.

Nel contesto ospedaliero pediatrico, la rilevanza di questa tematica assume una dimensione ancora più critica. Gli operatori sanitari, infatti, si trovano spesso a dover gestire situazioni in cui i piccoli pazienti non solo presentano traumi fisici, ma possono anche portare con sé il peso di esperienze di violenza assistita.

L’ospedale diventa così un luogo cruciale per l’identificazione e l’intervento precoce, dove è fondamentale creare un ambiente sicuro e accogliente per i bambini e le loro famiglie. La sensibilizzazione del personale riguardo ai segnali di violenza assistita è essenziale per garantire un approccio integrato e multidisciplinare, che non solo curi le ferite fisiche, ma affronti anche le dimensioni psicologiche e relazionali del trauma. Nell’ambito ospedaliero si intrecciano numerose storie di minori vittime di violenza assistita. Per comprendere meglio l’impatto della violenza assistita sui bambini, consideriamo il caso di Dorotea una ragazza che arriva in PS accompagnata dalla sua insegnante e dalle Forze dell’Ordine.

Mi chiamo Dorotea, ho 14 anni e quando sono a scuola mi capita spesso di perdere i sensi. I professori si preoccupano e mi chiedono cosa mi stia accadendo, ma io prontamente li rassicuro parlando della mia pressione bassa. Capita anche che da un po’ di mesi mi dicano che appaio distratta e come “con la testa fra le nuvole”; quelli che come me si distraggono spesso hanno un Deficit dell’Attenzione ed è per questo che si sono allarmati ed hanno deciso di chiamare mia madre.

L’ultima volta che sono svenuta a scuola la prof.ssa di Storia dell’Arte mi ha portato un tè con dello zucchero ma il mio corpo si è immobilizzato, si è come freezato. La mia prof.ssa si è avvicinata, mi ha rassicurata e in quel momento ho deciso di raccontarle la verità. Io svengo non perché mi mancano gli zuccheri, ma perché la mia vita è diventata un inferno.

Da diversi mesi non riesco più a dormire, ho gli incubi anzi no, ne ho uno che ritorna sempre. Ho capito che ha a che fare con mio padre: lui insulta la mamma, la picchia, le dice che è una “puttana”. Da quando ha perso il suo lavoro ha iniziato a bere ed è diventato possessivo con la mamma, la pedina, le controlla il telefono, decide cosa deve indossare. Una sera ha iniziato a distruggere le cose in casa ed io mi sono svegliata di soprassalto; continuava a sbattere le porte e inveire contro la mamma. Di solito urla perché lo sentano tutti, dice che tanto nessuno avrà il coraggio di mettersi contro di lui e grida alla mamma che prima o poi la ucciderà. In quel momento il mio corpo si paralizza, provo a pensare a quando ero felice, a quando ascoltavo i racconti della nonna accanto al camino, ripenso ai teneri abbracci della mamma e ai momenti in cui mi sentivo sicura, protetta. Mi rifugio in quei ricordi quando ho più paura, quando lui inizia a tirare pugni. Lui la va a cercare anche a lavoro e minaccia i suoi colleghi ed il suo titolare così adesso, dopo vari episodi, la mamma ha anche perso il suo posto di lavoro. Solo una volta sono riuscita a sbloccarmi e per impedire che la prendesse a calci, mi sono messa in mezzo così lui, dopo poco, ha smesso. Ho pensato tante volte che non vale la pena vivere una vita così, ma come farebbe mamma senza di me? Non ero mai riuscita a parlarne con nessuno ma adesso non ce la faccio più; adesso a scuola sanno tutto ma ho pensato che non avrebbero potuto fare molto per me.

In questi casi non succede mai niente e invece la mia prof.ssa mi ha detto che sono stata coraggiosa e poi lo è stata anche lei perché ha chiamato i Servizi Sociali e mi ha accompagnata in Pronto Soccorso. I poliziotti mi hanno spiegato che hanno attivato un Codice Rosso e che porteranno qui anche mia madre per metterci al sicuro. Mi faranno parlare con un Giudice e mi hanno spiegato che io e la mamma saremo trasferite in una casa protetta e che papà sarà costretto a frequentare un centro per uomini violenti.

Adesso che sono al sicuro sento che avrò ancora bisogno di parlare di quello che i miei occhi hanno visto tra le mura della mia casa. Quello che per altri era invisibile aveva preso forma nel mio corpo così che avessi il coraggio di parlarne a qualcuno e potermi fidare. E quella persona mi ha ascoltata davvero e non ha avuto paura, non ha messo in discussione quello che stavo raccontando, non ha lasciato che fosse qualcun altro ad occuparsi di me. 

Se è successo a me, penso che possa succedere anche ad altri come me, in altre scuole, in altre palestre, oratori e in altri luoghi. Ora sento che posso respirare come se fosse la prima volta dopo tanto tempo.

La violenza domestica assistita può avere effetti profondi e duraturi sulla mente dei minori, che spesso sviluppano una serie di problematiche emotive, psicologiche e comportamentali come conseguenza dell’esposizione alla violenza tra adulti.

Essa incide sui processi di sviluppo del bambino: nel primo anno di vita i bambini che vivono in situazioni di violenza domestica manifestano disorganizzazione senso-motoria con frequenti incidenti, inibizione dell’esplorazione, precoce cura di sé (Lieberman e van Horn, 2007). Più tardi i bambini cercano di capire i rapporti di causalità tra gli eventi, si auto colpevolizzano, pensano di essere in quanto cattivi la causa degli scoppi di violenza; si sentono inoltre impotenti perché non riescono a modificare la situazione. Essi sperimentano l’ambivalenza per la coesistenza di paura, rabbia e desiderio di vicinanza; tale ambivalenza sfocia successivamente in comportamenti esternalizzanti e internalizzanti, nonché in forme di autonomia precoce.

Di Blasio (2000), riferendosi alla violenza domestica e ai conflitti coniugali, sostiene che i bambini che assistono alla violenza tendano a sviluppare attribuzioni causali che coinvolgono fattori interni, stabili e duraturi. Questo significa che i bambini possono arrivare a credere che siano loro stessi, o qualcosa intrinseco al loro essere, a causare la violenza che osservano o subiscono. Queste attribuzioni possono essere radicate nella convinzione che il proprio comportamento, la propria esistenza o caratteristiche personali (come l’essere “cattivi” o “indegni”) siano la causa della violenza. Inoltre l’esperienza ripetuta di impotenza porta il bambino a sperimentare un intenso senso di fallimento.

In maniera trasversale l’esposizione prolungata alla violenza domestica può compromettere lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino ed alterare la sua capacità di autoregolazione. In particolare molti studi mettono in evidenza come le interazioni disfunzionali fra i genitori influenzino negativamente lo sviluppo della mentalizzazione (Fonagy e Target, 2001), dell’intersoggettività (Stern, 2004) e della regolazione affettiva, in quanto l’ambiente emotivo proprio delle famiglie conflittuali è meno flessibile e differenziato, esponendo, quindi, a una condizione di sofferenza e rischio psicopatologico.

Diversi studi psicologici (tra cui quelli di Alexander et al., 2019; Cicchetti & Toth, 2020) hanno dimostrato che la violenza domestica ha effetti devastanti sulla mente dei bambini, contribuendo alla formazione di attaccamenti disorganizzati. L’esposizione alla violenza domestica crea una situazione in cui la figura di attaccamento, che dovrebbe essere una fonte di sicurezza e protezione, diventa invece una figura fonte di paura e confusione. Questo accade quando i bambini sono testimoni di aggressioni fisiche o verbali da parte di un genitore verso l’altro, o quando assistono a comportamenti di abuso emotivo o psicologico.

Un bambino che vive in un ambiente violento potrebbe sperimentare un conflitto interno tra il desiderio di cercare conforto nel caregiver e la paura derivante dal comportamento violento o imprevedibile del genitore. Questo conflitto genera una risposta disorganizzata, in cui il bambino è incapace di rispondere in modo coerente alle sue necessità emotive. I risvolti psicologici della violenza assistita sui bambini sono ampiamente documentati nella letteratura psicologica recente.

I principali effetti a lungo termine riguardano:

  • Ansia e Ipervigilanza: i bambini che assistono a violenza domestica sviluppano frequentemente ansia cronica e iper-vigilanza. Gli studi di Graham-Bermann et al. (2017) e McGee (2020) mostrano che la costante esposizione alla violenza domestica porta i bambini a vivere in uno stato di allerta costante, preoccupandosi di nuovi episodi di violenza. Questa condizione di iperattivazione fisiologica aumenta il rischio di sviluppare disturbi d’ansia, difficoltà a concentrarsi a scuola, e altre problematiche emotive.
  • Depressione e Bassa Autostima: l’esposizione alla violenza domestica è stata associata a depressione e bassa autostima nei bambini, poiché la violenza minaccia il senso di sicurezza del bambino e lo porta a percepire sé stesso come impotente e incapace di proteggersi. Katz et al. (2019) confermano che le vittime di violenza assistita sviluppano una visione distorta del proprio valore, e si sentono spesso colpevoli per la violenza a cui sono esposti, una percezione che contribuisce a sentimenti di vergogna e colpa.
  • Ciclo della Violenza: i bambini che assistono alla violenza domestica sono più vulnerabili a diventare vittime di abusi in età adulta o a perpetuare comportamenti abusivi nelle loro relazioni future. Widom (2020) evidenzia come la violenza assistita possa aumentare il rischio di sviluppare comportamenti violenti negli adolescenti e negli adulti, a causa di un modello di attaccamento disorganizzato che normalizza l’uso della violenza come risposta ai conflitti.
  • Problemi Relazionali
  • : la violenza assistita compromette anche la capacità dei bambini di sviluppare relazioni sane e sicure in futuro. Il modello di attaccamento disorganizzato influenza la capacità del bambino di fidarsi degli altri, di formare legami di attaccamento sicuri, e di stabilire relazioni affettive stabili. I bambini che vivono in ambienti violenti sono più a rischio di sviluppare difficoltà sociali, come isolamento e problemi di empatia (Macfie et al., 2018).

Il maltrattamento psicologico di cui i bambini possono essere vittima rischia di generare un senso di ‘‘malevolence’’, ossia la tendenza a considerare la natura delle relazioni interpersonali come minacciosa, distruttiva e fonte di inevitabile dolore. Ciò porta con sé una lesione della fiducia e della capacità di affidamento.

La letteratura psicologica recente sottolinea l’importanza degli interventi terapeutici precoci per rompere il ciclo del trauma e favorire la guarigione. Le terapie basate sull’attaccamento sono particolarmente efficaci nel trattamento dei bambini che hanno vissuto violenza domestica. Alcuni studi (come quelli di Lynch et al., 2021) evidenziano che, nonostante gli effetti traumatici, molti bambini che affrontano la violenza domestica sono in grado di sviluppare capacità di resilienza, soprattutto se supportati da un ambiente stabile, affettuoso e protettivo durante la fase di recupero.

I bambini che hanno assistito alla violenza domestica spesso portano nel contesto terapeutico esperienze e traumi molto dolorosi e inconsci. Il loro comportamento, le emozioni e anche la modalità in cui si relazionano con il terapeuta possono attivare reazioni emotive nel professionista. Queste reazioni, se non gestite adeguatamente, possono influire sul trattamento e compromettere l’efficacia della terapia. Tuttavia, se comprese e utilizzate in modo appropriato, le reazioni controtrasferali possono fornire informazioni cruciali riguardo il mondo interno del bambino, facilitando la comprensione e l’elaborazione del trauma.

Trattare i traumi derivanti dalla violenza assistita richiede un approccio complesso e integrato, che tenga conto delle dinamiche psicologiche profonde, delle esperienze relazionali e dei meccanismi di difesa sviluppati dai bambini in risposta alla violenza.

Malacrea (2023) sottolinea che il trattamento della violenza sui minori non si limita a una mera gestione dei sintomi o delle manifestazioni comportamentali. Al contrario, è necessario un intervento che esplori e rielabori i traumi nascosti nei meandri inconsci del bambino, aiutandolo a rimettere ordine nel caos emotivo e relazionale in cui è stato costretto a crescere. I bambini che hanno vissuto la violenza domestica portano dentro di sé fragilità emozionali profonde e nutrono sospetti sulle proprie capacità di essere amati e protetti.

I trattamenti dovrebbero essere centrati sull’attivazione della riflessione emotiva e sulla creazione di uno spazio contenitivo in cui il bambino possa esplorare i suoi conflitti interni. La relazione terapeutica diventa una via per ristrutturare il legame di attaccamento e consentire al bambino di fare esperienza di una connessione sicura e sana. Il terapeuta, attraverso una continua attenzione al controtransfert, è in grado di monitorare le proprie reazioni emotive e utilizzare queste risposte per comprendere meglio le dinamiche interne del bambino e il modo in cui lui vive e rappresenta la realtà.

Occorre non forzare il bambino ad affrontare direttamente il trauma se non è pronto a farlo. Piuttosto, il terapeuta aiuta il bambino a integrare le proprie esperienze traumatiche in modo graduale, utilizzando tecniche come il gioco, l’espressione creativa e la ristrutturazione cognitiva delle emozioni. Questi strumenti non solo permettono al bambino di esprimere il dolore in modo sicuro, ma offrono anche una forma di catarsi emotiva che può favorire il processo di recupero.

Inoltre un altro aspetto cruciale è l’empowerment del bambino. I trattamenti devono mirare a restituire al minore la sensazione di controllo sulle proprie emozioni e sulle proprie esperienze, contrastando così i sentimenti di impotenza che derivano dal trovarsi nel contesto della violenza domestica. È essenziale che il trattamento aiuti il bambino a sviluppare una maggior consapevolezza di sé e a ricostruire la propria identità, affinché non si definisca in base al trauma vissuto, ma in base alle proprie risorse e potenzialità.

Solo attraverso un approccio terapeutico che tenga conto delle dinamiche emotive profonde e del rapporto terapeutico come strumento di cura, questi bambini possono intraprendere il lungo percorso di guarigione e, alla fine, imparare a costruire relazioni sane e sicure. Il trattamento della violenza assistita non è solo un processo di elaborazione del dolore, ma anche un’opportunità di riscrittura della narrazione emotiva attraverso il quale il bambino può guardare al futuro con maggiore speranza e resilienza.

BIBLIOGRAFIA

Alexander, K.E., Brijnath, B., Mazza, D., (2019), Parents’ perspectives on the value of a mental health screening tool in early childhood settings: A qualitative study. BMC Public Health.

Cicchetti, D., Toth, S.L., (2020), A developmental psychopathology perspective on child maltreatment. In: CICCHETTI, D. (ed.). Developmental psychopathology. 3. ed. v. 3. Hoboken: Wiley, 2020.

Di Blasio, P., (2000), Il ruolo della famiglia nella trasmissione intergenerazionale della violenza: Aspetti teorici ed empirici. Psicologia Clinica dello Sviluppo.

Fonagy, P., Target, M., (2001), Attaccamento e funzione riflessiva: La mente nella mente. Milano: Cortina.

Graham-Bermann, S.A., Lynch, S., Banbury, A., DeVoe, E., (2017), Community-based intervention for children exposed to intimate partner violence: An efficacy trial. Journal of Consulting and Clinical Psychology.

Katz, C., Stromwall L.K., Herzog, J., (2019), Children’s exposure to intimate partner violence: A systematic review of intervention programs. Trauma, Violence, & Abuse.

Lieberman, A.F., Van Horn, P., (2007), Don’t hit my mommy!: A manual for child-parent psychotherapy with young witnesses of family violence. Washington, DC: Zero to Three.

Lynch, S., Graham-Bermann, S.A., Banyard, V., DeVoe, E., (2021), Interventions for children exposed to intimate partner violence: A meta-analysis. Child Abuse & Neglect.

Macfie, J., Fitzgerald, M.M., Atkinson, L., Renaud, J., (2018), Mothers with borderline personality and their children: Reviewing the research and identifying potential mechanisms. Development and Psychopathology.

Malacrea, M., (2023), Curare i legami per curare i traumi: Diagnosi, cura e protezione nel lavoro clinico con bambini e adolescenti vittime di violenza. Milano: Raffaello Cortina.

McGee, C. (2020), Children and domestic violence: A relational perspective. London: Routledge.

Widom, C.S. (2020), The cycle of violence revisited 30 years later: A commentary on “The long shadow: Adult survivors of childhood abuse”. Child Abuse & Neglect.

*Maria D’Apruzzo: Psicologa e psicoterapeuta, referente abuso e maltrammento presso Istituto Ospedaliero Gaslini di Genova