di Giorgio Meneguz *
Il fatto che io sia dottore
e lei malato di mente
non dipende né dalla morale
né dalla logica,
ma dal puro caso.
Čechov “Il reparto 6”
Il termine narcisismo è notoriamente polisemico ed è qui inteso come una risorsa necessaria all’equilibrio umano. Tuttavia la riflessione verte sulle distorsioni narcisistiche come sintomi di una malattia professionale dello psicoanalista, che talvolta ricade sui pazienti e in altri casi danneggia i rapporti di colleganza. In alcuni casi, una certa immaturità e intima fragilità umana si rendono evidenti nell’uso supponente dell’appartenenza quale supplemento narcisistico di identità, nei neofiti così come in professionisti esperti dal nome altisonante nel mondo degli psicoanalisti. Non prenderò in considerazione le situazioni cliniche in cui soggetti con personalità narcisistiche completano la formazione diventando psicoanalisti con un difetto insanito alle origini, se così si può dire. Mi soffermerò inizialmente su un “campo lunghissimo”, nel senso cinematografico, restringendo sempre più verso un “piano americano” per poter entrare nella stanza dell’analista alle prese con il paziente in carne ed ossa.
Influenze sul campo psicoanalitico
Il campo psicoanalitico è influenzato e disturbato su molteplici piani e da diverse variabili: il contesto storico, la motivazione superficiale e profonda al mestiere di psicoanalista, il talento (in stretta relazione con il livello di qualità professionale, o con la misura della qualità del servizio erogato al paziente), la formazione (che promuove l’apprendimento di una specifica competenza tecnica e persino una “educazione carismatica” nel senso di Max Weber), la qualità dei rapporti che i colleghi intrattengono tra di loro; la psicopatologia del singolo e il problema dell’analisi didattica o personale.
Contesto storico. Un’asserzione preliminare: l’analista che non conosce la storia della psicoanalisi è limitato a muoversi con approssimazione sul piano culturale e professionale. Come una sottocultura, l’approssimazione si sta diffondendo non solo nell’ambito della psicoanalisi e della psicoterapia analitica e sortisce l’assenza di un’identità integrata. In tal senso ritengo fondamentale che un analista collochi criticamente la propria “psicoanalisi” nel momento storico attuale e conosca lo sviluppo storico della psicoanalisi inserendo nel contesto allargato il complesso di elementi teorico/tecnici, il metodo e la prassi di ciò che prende il nome di psicoanalisi. Per esempio, innovazioni teoriche (critica al modello pulsionale, reificazione del concetto di Sé, idealizzazione del narcisismo, enfasi sull’intersoggettività, ecc.) o teorizzazioni tecniche (questione della frequenza delle sedute, rifiuto del lettino, versamento dei fatti personali dell’analista nella relazione terapeutica), per essere comprese, vanno collocate nel contesto storico, socioculturale, in cui sono nate o hanno (o hanno avuto) successo su altre teorie e altre prassi. Il successo stesso della psicoanalisi nel mercato delle professioni, o la sua emarginazione, è in stretto rapporto con il periodo storico in cui la fase attuale dello sviluppo capitalistico spinge a denegare che l’unica differenza tra gli esseri umani è quella di classe, cioè economica. Da qualche anno si segnala la diffusione di una cultura dell’ignoranza in grado di creare un sottoproletariato cognitivo, sempre pronto a consumare lasciandosi convincere dalla rozzezza sottoculturale delle destre (Miccione, 2015) e dalla superstizione secondo cui la psicoanalisi sarebbe prescientifica, in relazione all’imperante ideologia organicistica (Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja, 2013).
Vocazione. Anche le motivazioni consce alla scelta professionale, cioè la “vocazione” per usare questo termine mistico, ma non fuori luogo per i “vecchi” psicoanalisti, variano a seconda dei periodi storici. Se in tempi passati erano intrise di passione, sofferenza personale che conduceva, alla fine, a una specie di conversione alla psicoanalisi con la conseguente scelta di intraprendere una formazione psicoanalitica, oggi sembra che le ragioni della scelta formativa subiscano molto più l’influenza del mercato, piuttosto che della soggettiva tribolazione esistenziale. Ma la faccenda non è nuova perché ad esempio Robert Knight, sosteneva che negli anni venti e nella prima parte degli anni trenta furono formati molti analisti che nel periodo in cui lavorava lui, primi anni cinquanta, sarebbero stati respinti. Lamentava il fatto che negli anni cinquanta la maggioranza degli allievi fosse «costituita da persone con carattere “normale”. Non sono portati all’introspezione, sono propensi a leggere solo i testi prescritti nei corsi degli istituti, e sperano di superare l’iter dell’addestramento il più rapidamente possibile. I loro interessi sono clinici prima che teorici e speculativi. I motivi per cui si fanno analizzare consistono più nel soddisfare i requisiti richiesti per l’addestramento che nel superare sofferenze nevrotiche in sé stessi o nell’esplorare introspettivamente e con curiosità la propria psiche» (in Gitelson, 1973, p. 178).
E le ragioni profonde? Perché una persona sceglie di diventare psicoanalista o psicoterapeuta? Un’ipotesi proviene dall’ambito kleiniano e sostiene che la vocazione terapeutica è basata sulla riparazione, cioè sul bisogno del soggetto di difendersi dall’angoscia scatenata dal proprio sadismo innato. Il paziente rappresenterebbe per il terapeuta la madre arcaica, o altri oggetti danneggiati dalla sua distruttività inconscia: prendendosi cura di lui, questi riproporrebbe il bisogno e il tentativo di sanarli. Se qui, in quest’idea, è in primo piano il mondo fantasmatico del terapeuta, un’altra ipotesi enfatizza il ruolo dell’ambiente umano e del difficile processo di adattamento del bambino, e spiega la vocazione alla psicoterapia come conseguenza di microtraumi affettivi infantili e un’inclinazione depressiva del carattere. Nel mondo teorico kleiniano l’aggressione è dentro il bambino, mentre nel mondo ferencziano, winnicottiano e kohutiano, il bambino viene aggredito dal suo ambiente. Visti da questa prospettiva, i terapeuti sarebbero stati un tempo bambini sensibilizzati dai genitori a sintonizzarsi sui loro stati affettivi e sui loro bisogni inconsci. Harold Searles (1972) vi aggiunge l’ipotesi che il terapeuta sia profondamente motivato al suo mestiere da una coazione esistenziale a prendersi cura degli altri poiché i suoi genitori non sono stati in grado di accogliere il suo bisogno infantile innato di prendersi cura di loro. È evidente che, in base a queste teorie, la scelta di diventare psicoanalista si fondi su una motivazione inconscia radicata nella “ferita”. Ecco una delle ragioni decisive per cui ogni psicoterapeuta deve lasciarsi coinvolgere in una intensa analisi personale e analizzi il proprio desiderio di fare il terapeuta o l’analista. Mal che vada riuscirà a ridimensionare le proprie aspettative idealistiche rispetto al mestiere che svolge, o che svolgerà se è in formazione.
In alcuni rari casi l’analisi dissolverà le ragioni profonde che spingevano alla scelta di quel mestiere e il paziente intenzionato a fare lo psicoterapeuta si troverà di fronte alla drastica scelta di prendere un’altra strada professionale. Più in generale e con ipotesi più prudenti, si suppone che dietro alla motivazione ad aiutare i pazienti si nascondano: 1) angosce arcaiche, 2) ferite narcisistiche, 3) antichi bisogni inappagati, 4) proiezioni di parti malate sul paziente, 5) spinte narcisistiche a dominare il paziente e 6) fantasie d’onnipotenza.
In base agli studi più recenti sulle motivazioni possiamo sostenere che alle radici inconsce del desiderio di fare l’analista non esista un solo fattore, bensì un’intricata complessità di variabili in gioco, e che le fonti non siano esclusivamente psicopatologiche, ma altresì basate su un’etica e una moralità innate. Lo dimostra chiaramente lo studio del comportamento animale. La spinta a prendersi cura dei consanguinei è in diverse specie innata e, in molti casi, individui privi di relazione di parentela si aiutano reciprocamente e si prendono cura l’uno dell’altro. Nel mondo animale non umano è evidente lo stretto legame tra altruismo e reciprocità diretta e indiretta (cioè allargata all’intero gruppo e comunità). Gli esempi sono molti. I pellicani posso catturare i pesci ognuno per conto proprio, ma anche disponendosi a semicerchio: facendo muro con i palmi aperti dei piedi spingono i pesci verso l’acqua bassa e hanno il cibo assicurato grazie a un lavoro di cooperazione. In questo caso di cooperazione la ricompensa è immediata. I vampiri, invece, i pipistrelli ematofagi, esprimono un comportamento altruistico che comporta sacrificio e ricompensa differita nel caso in cui un membro del gruppo rimanga a digiuno per troppo tempo. Il vampiro che ha lo stomaco pieno rigurgita il sangue ingerito nella bocca dell’altro rendendolo debitore, perché all’occasione di un suo digiuno troppo prolungato il debitore arriverà a nutrirlo col sangue che egli ha nello stomaco. I comportamenti di consolazione e di soccorso, anche tra individui privi di parentela, sono molto diffusi tra i mammiferi e soprattutto tra i primati. Bambini di 12 mesi, se vedono qualcuno mentre cerca un oggetto perduto, lo aiutano spontaneamente. I giovani scimpanzé fanno altrettanto. Il comportamento di soccorso delle balene è ben noto: esse si dispongono a margherita attorno alla balena ferita per proteggerla. Un interessante comportamento di soccorso tra lemuri è raccontato da De Waal (1996): una lemure di tre mesi si arrampica su una palizzata elettrificata, prende la scossa e cade a terra in preda a convulsioni; la nonna se la carica sul dorso e la porta in un posto tranquillo, quando altri coetanei della piccola si avvicinano e le fanno grooming la lemure si risveglia e cerca sua madre, che è ignara dell’accaduto, poi le va in spalla, ma questa la rifiuta; la nonna aggredisce la figlia e le mostra come caricarsi la piccola sul dorso.
Il talento. Che dire a proposito del talento? Il talento riguarda quell’insieme di variabili soggettive che rendono incline un individuo a esercitare una qualche forma di arte o mestiere, ed è in stretta relazione con il livello di qualità professionale, o con la misura della qualità del servizio erogato al paziente. Sembra che il talento psicoterapeutico derivi, da diversi fattori, tra cui: 1) una maturità personale che sia dinamica e non cessi di svilupparsi, 2) molte e intense esperienze esistenziali, 3) una rete di profondi rapporti umani, 4) conoscenze di altre culture, 5) una disponibilità a prendersi cura degli estranei, 6) una capacità empatica, 7) una capacità di sopportazione della sofferenza, propria e altrui, 8) esperienze corporee e abilità manuali, 9) una (o più) esperienza di una analisi personale in un rapporto sufficientemente prolungato nel tempo (almeno 400 ore) con un analista in grado di insegnare ad ascoltare il mondo interiore e a gestire le variabili soggettive e i conflitti.
Il rapporto tra colleghi
Considerati il contesto storico, la vocazione professionale, il talento, bisogna dire qualcosa sui fattori che giocano un ruolo di primo piano sulle problematiche inerenti il declinarsi del narcisismo dell’analista nel lavoro clinico nel rapporto tra colleghi.
Siccome ogni ambiente umano di lavoro, ogni categoria lavorativa, vive tribolazioni relazionali paragonabili a quelle che osserviamo all’interno della comunità psicoanalitica, è necessario distinguere tra fattori psicologici responsabili del malessere in ogni ambito lavorativo e dunque non specifici alla psicoanalisi, e fattori che invece sono ad essa specifici.
I fattori non specifici. Riguardano il temperamento e gli aspetti caratteriali e psicopatologici degli individui, nel senso che in qualsiasi mondo del lavoro troviamo colleghi arroganti, prepotenti, autoritari, litigiosi, nevrotici eccetera. Oltre al carattere e alla patologia dei singoli, un altro insieme di variabili psicologiche di rischio per espressioni di malpratica e narcisismo con i pazienti e nei rapporti di colleganza riguarda il funzionamento dei gruppi per assunti di base (dipendenza da un leader; costruzione di un nemico; attesa che arrivi qualcuno a risolvere i problemi del gruppo), funzionamento che presuppone un disturbo di intensità diversa dell’emotività inconscia del gruppo che agisce contro la realizzazione dei progetti e della collaborazione.
I fattori specifici alla psicoanalisi. Li si potrebbero suddividere in intrinseci, e in estrinseci.
I fattori intrinseci al lavoro clinico dello psicoanalista: sono variabili indicate, assieme a diverse altre, all’origine del malessere relazionale degli psicoanalisti e riguardano la pratica clinica. Sono intrinseche e dunque applicative, perché riguardano da un lato la difficoltà che ogni terapeuta incontra a coniugare le regole della tecnica psicoanalitica alla situazione clinica, come vedremo più avanti, e dall’altro i pericoli derivanti da un’esposizione continua ai transfert dei pazienti all’interno del setting analitico per diverse ore al giorno (lo ricorderò più avanti: Freud, 1937, aveva paragonato questa esperienza al rischio derivato dall’esposizione ai raggi X).
Nel primo caso sono in gioco diverse identificazioni: 1) il modo in cui abbiamo vissuto (e introiettato) la nostra esperienza di analisi, 2) il tipo di rapporto che intratteniamo col Super-io della tecnica appreso durante la formazione, 3) le nostre rigidità caratteriali e 4) il ruolo che hanno svolto i nostri supervisori nell’armonizzare la relazione tra equazione personale, tecnica, interazione terapeuta-paziente e terapeuta-supervisore.
Nel caso dell’esposizione ai fattori di rischio connessi ai transfert dei pazienti, entrano in gioco i nostri aspetti personali, attuali e antichi, consci e inconsci, ed è una delle ragioni per cui ogni tot anni (cinque secondo Freud) dovremmo entrare in analisi se siamo immersi in un intenso lavoro clinico per diverse ore al giorno tutti i giorni lavorativi della settimana. Come non concordare con Jung (1934), quando sosteneva che: «gli analisti hanno nevrosi molto particolari. Sono infettati da tutti i transfert che ricevono, e ciò li rende individui dalla mente contorta. Subiscono un avvelenamento, e di norma diventano ipersensibili e suscettibili, individui con cui non è facile avere a che fare. Invariabilmente è questa l’infezione della professione maledetta: sono colpiti dalla maledizione del loro Vecchio Saggio, che è così perfetto. Dovrebbero saperne di più degli altri, ma non è così» (vol. 1, p. 164).
I fattori “estrinseci” al lavoro clinico dello psicoanalista. Oltre ai fattori intrinseci ci sono altri fattori, anch’essi specifici della psicoanalisi. Riguardano l’istituzione. Nella fattispecie, il modo in cui viene organizzata la trasmissione e l’amministrazione del sapere, come viene gestito il bisogno di appartenenza degli analisti e come viene favorita l’identità professionale. Di questi fattori fanno parte l’organizzazione della formazione e l’organizzazione dell’associazione che riunisce i colleghi che si riconoscono nello specifico statuto. La ScuolaoIstituto di formazione ha a che fare con la filiazione e cioè risponde alla seguente domanda: Che cosa, dell’eredità degli antenati, i “genitori” analitici lasciano ai “figli”? E risponde al problema di come gestire il bisogno di sapere dei “figli” analitici, che è il problema della trasmissione del sapere, della trasmissione dell’eredità culturale e identitaria.
Ma i fattori estrinseci riguardano anche l’affiliazione, nei termini di organizzare i colleghi in una Società ouna Associazione finalizzate ad amministrare e a gestire la specifica eredità culturale e identitaria della psicoanalisi. Il problema di una società è anche quello di gestire istituzionalmente il bisogno di appartenenza e di rispondere alla seguente domanda: Che cosa se ne fanno i discendenti dell’eredità degli antenati?
È noto che in psicoanalisi il sapere è trasmesso su due piani: inconscio, piano che segue tra l’altro la linea rossa del transgenerazionale didattico, e conscio, sulla via della formazione esplicita.
A proposito di queste faccende, Sergio Bordi (1999) ha scritto che abbiamo da un lato un esecutivo istituzionale (IPA) che continua a richiamarsi alla tradizione/teoria, e da un altro lato gli psicoanalisti singoli, che si mettono al servizio dei pazienti e della flessibilità per le patologie “attuali” e la rilevante richiesta di terapie brevi e a basso costo. La questione, qui solo sfiorata, porterebbe direttamente ad approfondire l’indagine sulla formazione in Italia negli istituti canonici, come la SPI e nelle scuole statali (riconosciute dal MIUR).
Nella cosiddetta formazione esplicita, prendendo a paragone la formazione istituzionalizzata, è empiricamente possibile rintracciare almeno tre tipi di scuole e tre modelli formativi.
I rischi della formazione istituzionalizzata. La formazione istituzionalizzata può tendere a riprodurre la situazione edipica, in particolare in tre dispositivi che potrebbero risultareinfantilizzanti: i colloqui di ammissione (anche definiti di “selezione”) risultano infantilizzanti quando esplorano i complessi, il carattere, i difetti ecc. del candidato; l’eventuale piano istituzionale di studio della teoria e della tecnica può infantilizzare se non tiene conto delle esigenze degli allievi e del rischio discrepanza tra Super-io e ideale dell’Io professionale da un lato e pratica clinica reale con i pazienti dall’altro lato. Un altro fattore, strategicamente infantilizzante ma progettualmente emancipante, è l’esperienza personale di analisi.Si dice che è importante fare un’analisi personale perché così si impara il metodo. In realtà dalla propria analisi non si impara il metodo analitico, la propria analisi non può mai essere didattica, perché nessun analista si comporta allo stesso modo con tutti i pazienti. Racker (1968) sosteneva che: «Ogni paziente crea un diverso analista (come ogni figlio differenti genitori), attraverso la richiesta di grandi o piccole variazioni tecniche» (p. 247).
Per quali ragioni l’analisi personale è d’importanza fondamentale per la professione? Perché: 1) “insegna” ad ascoltarsi, riconoscere gli autoinganni della mente e conoscersi; a beneficio della dimensione professionale, 2) “insegna” implicitamente ad ascoltare le risonanze interne provocate dal materiale del paziente (ascolto analitico del controtransfert); 3) “insegna” implicitamente a distinguere il controtransfert come risonanza e come nostri problemi personali; 4) “insegna” indirettamente il metodo dell’attenzione e dell’ascolto fluttuante tramite l’esperienza delle libere associazioni.
L’analisi personale può essere fatta per diverse ragioni e in diversi momenti della vita: per “libera scelta”, oppure per ottemperare un “protocollo burocratico”, che può essere di tipo extra-ecclesiam (vedi alcune scuole riconosciute dal MIUR) oppure tradizionale (IPA).
L’analisi per libera scelta. Un’analisi per “libera scelta” può essere antecedente la formazione, cioè il terapeuta può viverla prima di iniziare la formazione, ed è la situazione considerata ideale. È provato che quando la motivazione è la sofferenza personale, l’analisi ha migliori probabilità di concludersi in modo soddisfacente. L’analisi può anche svolgersi durante la formazione e in questo caso il problema è senz’altro la difficile gestione dei tre ruoli (apprendista, paziente, terapeuta). Ma può anche svolgersi dopo la formazione: il problema principale di un’esperienza di analisi vissuta a formazione conclusa (analisi post-formazione) è il difetto nelle capacità fondamentali di ascolto del controtransfert e di attenzione fluttuante durante gli anni formativi.
L’analisi burocratica. I problemi principali di un’analisi burocratica secondo le direttive di una qualsiasi Scuola riconosciuta dal MIUR riguardano: 1) la difficile gestione dei tre ruoli (apprendista, paziente, terapeuta), 2) la motivazione – che in questo contesto è fortemente influenzata dal bisogno di acquisire un diploma che legittimi lo svolgimento della professione di psicoterapeuta, mentre la sofferenza è quasi esclusivamente incentrata sulla paura del fallimento – e 3) lo sviluppo di problematiche narcisistiche.
I problemi di tipo narcisistico riguardano: 1) l’idealizzazione del proprio analista – idealizzazione che difende dalle ferite narcisistiche relative all’apprendimento della professione, difende dall’invidia verso il proprio analista, difende dalle angosce edipiche mobilitate in modo massiccio dalla situazione professionale, e struttura nel paziente apprendista un’identificazione narcisistica con l’analista e col ruolo di analista (o di psicoterapeuta) – e 2) la collusione transfert/controtransfert, nel senso che, abitualmente, i problemi narcisistici originati dall’analisi burocratica vengono nascosti in un’area transfert/controtransfert non analizzabile, di collusione inconsapevole tra analista e paziente.
L’analisi didattica. Dei problemi dell’analisi didattica si è scritto e discusso molto, dentro e fuori dall’IPA, e la faccenda è in discussione. I problemi sono gli stessi dell’analisi burocratica (difficile gestione dei tre ruoli; motivazione corrotta; idealizzazione difensiva dell’analista; collusione transfert/controtransfert), ai quali è necessario aggiungere: a) il contratto, perché in questo caso le ragioni della presa in carico sono istituzionali; b) la valutazione, perché il didatta in molti casi giudica l’idoneità professionale del candidato (vedi es. l’analista di Masson che lo screditò cercando di rovinargli la carriera; l’analista di Devereux che lo “cacciò” dall’analisi; il caso di Wilhelm Reich, di cui il suo analista andava dicendo in giro che era uno psicotico) e una commissione giudica l’idoneità dell’analisi; c) il fatto che transfert e controtransfert sono in questo caso influenzati dalle rivalità presenti nell’istituto di formazione; il fatto che l’analisi didattica favorisce le rivalità fraterne fra candidati.
Oltre alla Scuola e alle relative problematiche di filiazione, tra i fattori estrinseci delle variabili specifiche responsabili del narcisismo professionale e del livello di qualità dei rapporti tra colleghi, va ricordato nuovamente il ruolo della Associazione (o della Società) che tramite l’affiliazione gestisce l’eredità culturale e il bisogno di appartenenza degli psicoterapeuti.
L’organizzazione gerarchica, tipica delle società che riuniscono gli analisti, porta con sé elementi di infantilizzazione nella selezione preliminare tra chi può diventare socio e chi no, nella suddivisione in classi disposte a struttura piramidale – aggregato, ordinario, “didatta” (o altro) – e la creazione di figure di status come il didatta (oggi messa in discussione anche nella SPI). I problemi riguardano il fatto che la struttura gerarchica ripropone tale e quale la struttura edipica mobilitando comportamenti tipici – la scalata edipica ai vertici, la rivalità fraterna, il complesso di Laio (espulsione dei membri “pericolosi”) – ciascuno con le inevitabili ferite e rivendicazioni narcisistiche. L’organizzazione gerarchica delle società psicoanalitiche è attivamente percorsa in filigrana da: 1) una rete di transfert non risolti con i didatti e con i relativi raggruppamenti in clan; 2) gli antagonismi fra gruppi; e 3) le piaggerie; 4) i “parricidi” e 5) i “figlicidi”.
Infine, una organizzazione che gestisca malamente il bisogno di appartenenza degli iscritti può rendere difficile l’emancipazione dal modello di psicoanalisi trasmesso dalla scuola.
L’identificazione con il ruolo e l’identità professionale. La frequentazione di una Scuola di formazione a cui seguirà l’appartenenza a una Associazione di colleghi strutturano l’identificazione con il ruoloe l’identità professionale. Il problema più evidente sul versante narcisistico riguarda l’accezione acritica del proprio ruolo, l’idealizzazione del ruolo stesso e l’idealizzazione dell’identità professionale, fattori che, gratificando il narcisismo dell’analista, favoriscono rischiosi spontaneismi, atteggiamenti suggestivi, manipolatori, seduttivi e talvolta di indottrinamento verso il paziente ed espressione di giudizi di valore. Ancora una citazione di Jung (1935): «Se il paziente si immagina che il suo analista sia la personificazione dei suoi sogni, non un medico comune, ma un eroe spirituale e una sorta di salvatore, naturalmente l’analista […] rischia di persuadersi di essere veramente un tipo importante, di grande statura spirituale, una specie di Mahatma dell’Himalaya, di appartenere a una confraternita. […] Conosco diversi colleghi che hanno imboccato questa strada. Un caso dopo l’altro di persone che proiettavano il complesso del salvatore, le relative attese religiose e la speranza che quell’analista, con le sue “conoscenze segrete” potesse rappresentare la chiave smarrita dalla Chiesa, e rivelare la verità che porta alla redenzione» (p. 159).
L’identità professionalepuò fondarsi su diversitipi di identificazione:1) identificazione mimetica,detta ancheimitativa(o adesiva); è fisiologica e non costituisce un cambiamento durevole della rappresentazione del Sé; 2) identificazione contraria:indica un capovolgimento nell’atteggiamento col paziente rispetto a quello veicolato dai formatori, e/o una virata nella strada teorica, in opposizione all’indirizzo del proprio analista o dei diretti responsabili della formazione (esempio: Kohut, il quale, da zelante freudiano, plaudente all’insegnamento ortodosso, come lo definì Strozier, 2001, diventò l’eroe fondatore di un nuovo movimento psicoanalitico non scissionista); 3) identificazione con l’aggressore:l’obiettivo dell’Io è quello di difendersi da un oggetto idealizzato o molto potente e comunque temuto, vissuto come aggressore, assumendo su di sé gli attributi dell’oggetto (si rimanda agli esempi relativi ai rapporti fra Freud, Tausk, H. Deutsch, M. Mahler, vedi Meneguz, 2011 pag. 85-94) 4) identificazione critica:è una identificazione al servizio dell’Io e svolge le funzioni di un fattore maturativo.
Nella stanza dell’analista
Quando l’analista incontra il paziente in carne ed ossa sa che la realtà del rapporto interpersonale è molto complessa. Come evidenzia Cremerius (1980), l’analista considera nella stanza d’analisi tre realtà: dell’analista, del paziente e dell’interazione. E ognuna di queste realtà ha diversi livelli: la realtà, per così dire, visibile (l’arredamento, il corpo, gli atteggiamenti, le parole, ecc.) e la realtà che non si vede (i pensieri, le fantasie, i desideri) la realtà del non detto, dell’inconscio e del preconscio. L’analista ha di fronte a sé uno sconosciuto e vuole capire chi è, come funziona la sua mente e se può essergli utile; sa bene che meno si espone e più possibilità ha di conoscere il paziente. Anche il paziente si trova di fronte uno sconosciuto e vuole capire chi è, se può essergli di aiuto; inconsciamente mette alla prova l’analista. L’analista capisce la diffidenza e la curiosità e cerca di metterlo a suo agio. Entrambi sono ansiosi (di solito in misura differente). Entrambi sono mossi dal bisogno di essere riconosciuti (anche qui, solitamente in diversa misura). Di solito l’analista è consapevole che al suo tentativo di capire il paziente corrisponde il tentativo del paziente di capire l’analista ma il paziente, spinto dalla sofferenza, ha delegato all’analista il potere di governare formalmente la relazione. A volte l’analista ha l’impressione di trovarsi di fronte una persona gravemente compromessa, a volte ha realmente di fronte una persona così compromessa, ma sa che chiunque si porta dentro una parte sana, una spinta pre-patologica, una risorsa vitale che aspetta di essere risvegliata. Il paziente apre il colloquio, l’analista sa che lo deve aprire il paziente e mentre ascolta si fa mille domande: su quello che il paziente dice, che non dice, che egli stesso prova, che egli stesso pensa; e cerca di capire qual è il nucleo del problema. Intanto raccoglie informazioni, riflette sul funzionamento del Super-io e sulle difese, si chiede quale obiettivo raggiungere con questo specifico paziente, con quale strategia, cerca di capire come improntare il rapporto e s’ingegna di risolvere il problema di come adeguare a questa persona la miscela giusta di sostegno e di analisi. Cerca di capire se sta bene con la persona che ha di fronte, se può costruire un’alleanza di lavoro, se il problema del paziente tocca la sua nevrosi o qualche punto del suo funzionamento che non ha ancora analizzato. Quando il paziente se ne è andato, l’analista razionalizza ciò che gli è rimasto dell’incontro e ascolta le sensazioni e i pensieri su come ha condotto il colloquio. Successivamente, concorda col paziente il contratto e impronta la relazione per favorire lo sviluppo della nevrosi di transfert. Costruisce con quel paziente una relazione in cui questi possa vivere la curiosità di conoscersi e confida nella capacità del paziente di vivere il “come se” nel processo di coinvolgimento transferale. Sa che il setting è fondamentale, ma senza il lavoro su resistenze, transfert e controtransfert non può curare con la psicoanalisi. Sa che le regole tecniche devono essere applicate con elasticità e a misura di quel paziente in quella fase dell’interazione. Educa il paziente al rapporto terapeutico, all’atmosfera quasi rituale della psicoterapia; lo aiuta a capire che la relazione terapeutica non segue le regole sociali e che il rapporto personale e sociale è rigorosamente da evitare. Aiuta il paziente a pensare i propri pensieri, a dirli, a immergersi nell’esperienza della seduta, mentre col tempo, con un’altra parte di sé, il paziente si identifica con la funzione analitica dell’analista, il quale lo sorprende, risveglia in lui la curiosità di capirsi, di capire come funziona la sua mente, e crea il giusto livello di tensione emotiva. Ci deve essere un posto per ogni paziente nella mente preconscia dell’analista.
L’analista, per come la vedo io, non inventa narrazioni sul paziente: segue piuttosto le tracce come un segugio, tracce che lo portano a capire il paziente sulla base di ciò che porta lui, consapevole di essere fatto fondamentalmente della stessa sostanza del paziente. Durante una seduta la sua mente è un laboratorio cognitivo/emotivo in continua attività silenziosa, dove vengono costantemente considerate ipotesi interpretative tacitamente confrontate con il materiale verbale e non verbale del paziente, rivedute e corrette per prove ed errori, e rapportate con ciò che l’analista sa delle figure genitoriali, delle dinamiche familiari così per come le ha vissute il paziente, degli eventi fondamentali della storia del paziente e della storia della propria relazione terapeutica con questo paziente. Solo quando l’analista si sente sufficientemente sicuro permette il nascere dell’interpretazione dal processo di auto-osservazione, lascia che l’intuizione interpretativa si costruisca nella propria mente con le parole che in questo momento il paziente può capire e la formula verbalmente.
Oscillare in una relazione intersoggettiva tra affettuosa distanza e benevola frustrazione è un processo di equilibrismo non sempre facile da mantenere. Nonostante la preparazione tecnica intervengono molte variabili a livello transferale e controtransferale. L’analista sta con il paziente in una posizione di accoglienza ed evita rigorosamente di intrattenere una relazione amichevole; evita agganci reali alle proiezioni idealizzanti che lo vorrebbero saggio conoscitore e dispensatori di verità; veicola il “principio di grazia” come sostituto alla legge del taglione; lavora coerente con la teoria dell’azione responsabile. Ascolta partecipe l’espressione dei sentimenti e dei segreti più intimi del paziente, ascolta le proprie emozioni, i propri sentimenti, le risonanze più intime suscitate dal paziente. Si scopre perplesso, limitato e debole, umanissimo, di fronte a scelte terapeutiche riguardanti una persona in qualche modo sofferente che si affida alle sue competenze. E lui sa bene che le competenze tecniche non sono sufficienti perché la relazione diventi terapeutica. È necessaria la presenza, la sensibilità, la capacità di identificazione, il coinvolgimento misurato, la partecipazione emotiva. Questa incertezza, derivata dal disporre di regole tecniche che non sono altro che una mappa mentre il territorio è ben altro, è terreno fertile per la spinta dei desideri e degli interessi narcisistici. In generale il paziente si concede fiducioso al suo terapeuta, al suo potere, e in breve tempo egli è disarmato e “soggiogato” dall’idealizzazione.
Tuttavia, l’analista non può prescindere dalla sua soggettività, nella quale sono presenti la sua nevrosi, il suo stile caratteriale, la sua biografia, le sue intime simpatie e antipatie, la sua filosofia privata e i pregiudizi inconsci. Senza la partecipazione emotiva non ha alcuna possibilità di comprendere il suo paziente, e parlare di partecipazione emotiva nella situazione psicoanalitica significa parlare di controtransfert. E sul controtransfert si fonda la possibilità di comprendere e di aiutare il paziente.
Troppi pazienti hanno vissuto esperienze malsane con terapeuti che agivano in seduta un controtransfert non elaborato (o vero e proprio transfert verso il paziente) e bisogni in cerca di appagamento: la ricerca del potere, dello splendore personale, della superiorità spirituale, di contatti e compagnia (analisti solitari e privi di un partner amoroso o infelici), di figli (analisti che desiderano sentirsi padri o madri). Il paziente dovrebbe essere protetto da soddisfazioni pulsionali preedipiche dell’analista, che egli mostra attraverso atteggiamenti meticolosi, di tipo anale, oppure col rappresentarsi fallicamente, o col pretendere dal paziente e (magari) da se stesso rispetto sadomasochistico delle regole, o ancora col bisogno narcisistico di essere amato e ammirato dai pazienti. Alcuni analisti non sono in grado di criticare i valori dell’inconscio sociale nei quali cercano sicurezza e appagamento, e si propongono di rendere i propri pazienti sani e felici, di spingerli al matrimonio, alla monogamia, all’eterosessualità, eccetera, invece di aiutarli a trovare ognuno la propria strada, anche se orientata in direzioni socialmente non accettate. Owen Renik (1996) indicava il più comune tipo di abuso nei confronti del paziente: «quello che assume la forma di una relazione protratta e terapeuticamente improduttiva, che serve solo per i bisogni finanziari e (talvolta in modo sottile e misconosciuto) sessuali dell’analista» (p. 25).
Freud scrisse che l’inconscio del paziente influisce sull’inconscio dell’analista: l’idea, in sé, è intersoggettiva. In base ai principi psicodinamici, se l’inconscio del paziente influisce sull’inconscio dell’analista è ovvio che anche l’inconscio dell’analista influisca sull’inconscio del paziente. Infatti, nello scritto di Freud (1915) sull’inconscio leggiamo (pag. 74) che l’inconscio: «è vivo, capace di sviluppo…si lascia condizionare dalle vicende della esistenza», influenza il preconscio e dal preconscio si lascia condizionare. E più avanti (pag. 78) Freud dice che: «l’inconscio di una persona reagisce all’inconscio di un’altra eludendo il conscio». La tesi è riconfermata in Analisi terminabile e interminabile, là dove Freud (1937) avverte che il continuo contatto col transfert dei pazienti costituisce un fattore nocivo di rischio per la salute dell’analista. Nel 1926 Freud introduce il concetto di «equazione personale» dell’analista (pag. 387) e in Analisi terminabile e interminabile sostiene una concezione globale del controtransfert, che comprende sia le «caratteristiche peculiari» della personalità dell’analista (pag. 530) sia i suoi aspetti nevrotici. Riconosce che «gli analisti non hanno sempre raggiunto nella loro stessa personalità quel tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro pazienti» (p. 530). Ogni analista porta la sua patologia all’interno della situazione psicoanalitica e nell’uso dei suoi strumenti di lavoro. Purtroppo la formazione non garantisce nulla, continua Freud, e lo evidenzia il fatto che tra i colleghi c’è un clima diffuso di ostilità reciproca e di faziosità.
Inoltre, il mestiere dell’analista porta ad un aggravarsi della patologia personale dell’analista. «Sembra dunque che molti analisti imparino a usare determinati meccanismi di difesa che consentono loro di escludere dalla propria persona (riversandole probabilmente sugli altri) le conseguenze e le prescrizioni dell’analisi; essi restano quindi quello che sono e riescono a sottrarsi all’influsso critico e correttivo dell’analisi» (Freud 1937, pp. 531-32). Siccome il rapporto col paziente richiede all’analista un sovrappiù di richieste pulsionali e narcisistiche che non possono essere soddisfatte, praticare il mestiere dell’analista è pericoloso, e la patologia professionale più frequente, scrive Freud, si manifesta nella forma dell’«abuso di potere» (pag. 532). Dunque la faccenda dei problemi etici nella psicoanalisi potremmo sbrigarla molto rapidamente indicando le diverse declinazioni dell’abuso di potere da parte dell’analista sul paziente (Meneguz, 2005; 2011) e sul piano psicologico l’abuso di potere è sempre un abuso narcisistico. I rischi di trasgressione sono consustanziali alla pratica analitica intensiva. Tranne rare eccezioni, gran parte degli errori che gli analisti commettono nelle terapie non sono causati da difetti di cognizione o di integrazione del sistema morale, ma dal fatto che sono, in un modo o nell’altro, coinvolti in un incontro umano molto speciale. Desideri irrealizzabili, molto spesso resistenze contro l’analisi, fragilità dell’Io, illusioni d’amore, premono talvolta così forti dentro l’analista che solo l’ascolto rispettoso e analitico dell’ansia, che segnala il pericolo, può evitare di cadere in azioni iatrogene.
Voglio concludere ricordando il contributo di Ferenczi alla tecnica in relazione al narcisismo del terapeuta. Nel ciclo di conferenze tenute alla Società psicoanalitica ungherese tra il 1927 e il 1928, focalizzato sull’elasticità della tecnica psicoanalitica, Ferenczi dimostra l’inevitabile, dilemmatico incontro fra i rischi del potere narcisistico e la tecnica analitica. Nella pratica analitica, scrive Ferenczi (1927-1928), l’equazione personale, cioè la soggettività dell’analista, per dirla con Husserl, assume una importanza fondamentale: è per questo che «chiunque voglia analizzare gli altri, deve prima essere stato a sua volta analizzato» (p. 24). L’aveva già suggerito Jung nel 1912, in Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica, criticando la «psicologia alla barone di Münchhausen» di chi crede di evitare con l’autoanalisi il consueto rischio di collusione tra il proprio transfert e quello del paziente (1912, p. 217). Ferenczi (1927-1928) ricorda ai colleghi che in una buona analisi sono necessarie alcune misure precauzionali riassumibili col termine tatto, cioè «capacità di “empatia”» (empatia “vera” poiché «il paziente fa presto a smascherare ogni tipo di posa», p. 30). È indispensabile che noi – oscillando instancabilmente «tra empatia, autosservazione e attività valutativa» (p. 30), «tra l’identificazione (amore oggettuale analitico) e l’autocontrollo, ovvero l’attività intellettiva» (p. 32) – obbediamo alla «esigenza morale di non fare agli altri ciò che nelle medesime circostanze non vorremmo fosse fatto a noi stessi» (p. 25). Benché tale atteggiamento susciti nel paziente l’impressione che l’analista sia buono con lui, le ragioni della delicatezza empatica dell’analista sono razionali e tecniche. All’empatia occorre affiancare l’altro elemento tecnico decisivo: «la valutazione consapevole della situazione dinamica» nell’interazione durante la seduta (p. 34). Ferenczi ci tiene infatti a sottolineare che «i processi empatici e valutativi dell’analista si svolgono non nell’inconscio, ma a livello preconscio» (p. 34). L’analista dovrà guardarsi bene dal «lasciarsi guidare unicamente dai propri sentimenti» (p. 26) o dallo spontaneismo del «fattore soggettivo» e dall’intuizione. Non meno dannoso sarà un atteggiamento cattedratico e autoritario: «Ogni nostra interpretazione deve avere carattere di proposta piuttosto che di asserzione, e questo non solo allo scopo di non irritare il paziente, ma proprio perché ci possiamo effettivamente sbagliare» (p. 29). Ferenczi propone un analista «leale», «corretto», capace di essere modesto col paziente («La modestia dell’analista non è una posa, ma l’espressione della consapevolezza dei limiti del nostro sapere», p. 29), capace di «riconoscere francamente i propri errori», di sorvegliare le proprie reazioni emotive e il proprio narcisismo.
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*Giorgio Meneguz è psicologo e psicoterapeuta