Elena Meneghini
Mi viene in mente una frase da bacio perugina, o forse una citazione di John Lennon, la vita è quella cosa che capita mentre stai facendo progetti.
Io a fine febbraio del 2020 stavo facendo altro. Febbraio è il tempo dello sci, una delle cose che si avvicinano di più alla bellezza in movimento, stavo pensando ad un viaggio, la scoperta in un posto nuovo, le persone che conosco un po’ e con cui voglio condividere giorni risate ed esperienze per scoprirle meglio. Il passaporto in tasca, lo zaino a metà la testa tutta lì.
Ed è arrivato il Coronavirus, lo abbiamo chiamato tutti covid 19 solo dopo qualche tempo. È arrivato come una minaccia lontana, oggetto di barzellette per la parte di mondo che non lo stava fronteggiando. Strano come i problemi degli altri siano sempre risibili mentre in nostri fastidi sembrano enormi.
Faccio il medico, ho sentito di questo virus come molti altri suoi compagni prima di lui (aviaria, Sars, Ebola N1H1). Sono nomi, articoli, procedure e protocolli per l’emergenza. Ci si prepara ma un po’ come si paga l’assicurazione per l’auto, lo si fa per dovere senza percepire una vera minaccia.
E invece questa volta è arrivato qui.
Ho scritto che faccio il medico e non che sono un medico perché la medicina è il mio lavoro. Mi piace, a tratti mi entusiasma (la fisiologia del corpo umano è una stupefacente meraviglia) , mi dà tanto soprattutto in termini di relazione con le persone, ma non è tutto quello che sono. Invece di fronte a un pericolo essere un dottore diventa l’unico tratto che identifica, almeno per molti. Per il bisogno di rassicurazione di fronte all’ignoto alcuni vedono una specie di motore di ricerca alla voce malattie e sedazione dell’ansia, non si è più persone ma un’enciclopedia. Capita spesso nelle difficoltà, è comprensibile, questa volta però l’emergenza coinvolge anche me, un certo grado di timore verso una minaccia sconosciuta, e questo atteggiamento mi ha fatto riflettere. Possibile che del mio carattere, delle mie idee ed opinioni l’unica cosa che riesca a trasmettere sia il mio lavoro? È così potente un virus da far dimenticare tutto tranne la paura? Chi sono io? Gli altri di me cosa vedono? Sono così limitata che oltre alla medicina non esistono argomenti di conversazione? (un po’adolescenziali come quesiti, ma avere tanto tempo porta a vagare col pensiero e saltano fuori queste domande stravaganti).
I giorni passano e da argomento di scherno o curiosità esotica il virus si fa più vicino . Non si parla d’altro, devo rinunciare al viaggio, vuoi per il rischio di portare una malattia a chi dovresti aiutare, vuoi per il fatto che le ferie vengono cancellate. Si comincia a respirare aria di pericolo, il lavoro in ambulatorio è bloccato e mi spostano in medicina, un reparto che molto presto diventerà tutto dedicato al COVID (Reparto Corona 3 quasi regale). Inizia la quarantena, i negozi vengono chiusi non si può uscire se non per necessità e, la restrizione che ho sentito di più, non si può più uscire semplicemente a passeggiare. Quando qualcosa limita la libertà personale è lì che inizia a toccare veramente.
Le barzellette sui cinesi sono sparite chi abita in Italia è il nuovo bersaglio, la storia non è stata maestra purtroppo e i nostri vicini non hanno imparato il rispetto e la prudenza dalla minaccia che momentaneamente coinvolgeva solo il nostro paese
Continuo tutti i giorni a lavorare; stare in reparto è un’esperienza. I racconti dei notiziari, i dati, i malati, anche i morti. Non ho le competenze né le pretese per giudicare quello che è stato. Io ho visto persone. Io ed altri colleghi abbiamo lasciato il nostro lavoro quotidiano (la routine è stata sospesa e rimandata a dopo l’emergenza per evitare affollamento) e ci siamo trovati a supporto di chi in reparto ci lavora sempre. Ci siamo conosciuti, in un ospedale grande non è così comune, siamo tornati a fare gli “apprendisti”, ognuno ha portato la sua esperienza e la sua “specialità” e abbiamo creato un gruppo.
Son stati giorni caotici, molto da fare, molto da studiare, poche certezze, molto da organizzare e in fretta. Eravamo tutti letteralmente nella stessa barca e abbiamo remato insieme. Poco riposo, diverse situazioni frustranti, tempo e risorse da amministrare con estrema prudenza, ma respiravamo l’aria di persone che si aiutano per risolvere un problema. La collaborazione e rapporti che abbiamo costruito restano una ricchezza.
In quei giorni tutti gli operatori sanitari venivano chiamati eroi. Non mi sono mai sentita così, se avessi potuto scegliere sarei rimasta a casa o avrei continuato il mio lavoro di sempre, fa parte del lavoro avere giorni in cui si fa poco e giorni si corre soltanto Nell’emergenza son tutti giorni difficili; scegliere di starne fuori non è possibile. Perché oggi mi chiamano eroe e fino a ieri nelle situazioni di caos ho sentito minacce di denuncia e lamenti per le attese? Prima non c’erano scelte difficili o situazioni dolorose? E domani saremo ancora eroi o si dimenticherà tutto una volta passata la bagarre?
E poi una sera un numero: 38.5°.
Un numero e tutte la mia razionalità si dissolve. Delle settimane tra i pazienti riesco solo a ricordare cosa è andato male, improvvisamente scompaiono i volti delle persone che stanno guarendo o con un quadro lieve e ricordo solo chi è peggiorato, chi è finito in rianimazione o è morto.
Ho preso il virus è la paura granitica che invade la serata. Non ho ancora conferme ma ne sono sicura. Questa volta è toccata a me. Adesso è sul serio, la vita al di là dei miei progetti.
Il tempo ha acquisito una dimensione diversa. Gli impegni, le ore, i pensieri è tutto imprigionato in un hic et nunc fatto di attesa e controllo di febbre e respiro.
Il periodo in cui sono stata male è avvolto in una nebbia lattiginosa di fatica e stanchezza, ritorna la ricerca del senso di questi e di tutti gli altri giorni, delle scelte che ho fatto e del loro significato. Da questo limbo di giorni emergono delle immagini nette e nitide in un mare di ore confuse ed uguali.
Penso alle telefonate ai miei genitori per spiegare che in fondo andava tutto bene, anche senza veramente esserne convinta, la preoccupazione nascosta da loro e da me che rimaneva come un rumore di fondo tra le parole.
La notte in cui respirare è diventato difficile; pensare di andare in ospedale da paziente senza neppur potere usare la macchina (disposizioni dell’emergenza) è stato stranissimo. Era fine marzo, mi sembrava di usare inutilmente un’ambulanza che potesse servire a qualcuno più grave, ma le regole sono regole. Non so perché per me sia così difficile chiedere aiuto, significa ammettere di non poter gestire da sola un problema, riconoscere che le sole risorse individuali non bastano, il solo fatto di chiedere rende il problema più grande e reale.
Indescrivibile entrare in pigiama nel reparto che avevo lasciato pochi giorni prima. Fortunatamente l’infermiere di turno mi ha prontamente preso in giro perché non avevo il camice e non stavo lavorando, così abbiamo sdrammatizzato.
Durante il ricovero il mio universo era una camera con una porta chiusa, ma ho sempre sentito negli sguardi dei colleghi e degli infermieri un grande sostegno, si sono presi cura con cura. Li conoscevo e avevo sempre visto questo splendido modo di lavorare, ma provarlo sulla propria pelle in un momento di difficoltà è davvero diverso. Non ringrazierò mai abbastanza chi mi ha portato le fragole, il primo sapore che ho sentito dopo giorni senza gusto.
Conoscere le persone e cosa sta succedendo è stato un grandissimo vantaggio. Per evitare il rischio di contagio si cerca di ridurre al minimo le esposizioni, vuol dire che durante tutta la giornata entrano in stanza medici e infermieri tre volte al giorno per un totale di circa 45 minuti, a meno di necessità naturalmente. Tutto il resto è silenzio e tempo per pensare, io sapevo che fuori dalla porta nessuno mi stava dimenticando. Per la mia compagna di stanza è stato più difficile, la solitudine fa rima con angoscia, se non sai cosa succede per 23 ore al giorno.
E finalmente la gioia del primo giorno senza febbre e quella del rientro a casa.
In tutti quei giorni mi ha aiutato concentrarmi solo sugli aspetti positivi: chi ho conosciuto, come ho lavorato, il fatto di non aver avuto bisogno del casco per respirare, le videochiamate (benedetto telefonino), essere tornata a casa. Parlando con gli amici sembrava quasi che nulla di negativo fosse accaduto.
La consapevolezza è arrivata paradossalmente dopo. Ricordo la collega che mi ha mandato a casa dicendomi quanto fossi “brutta” il primo giorno e di come fosse felice che tutto fosse andato bene, l’amica che mi ha detto di esservi preoccupata al telefono perché non riuscivo a parlare velocemente come al solito e il fatto di sentire una stanchezza infinita anche solo per aver fatto una doccia. Era come se tutto quello che avevo vissuto non fosse realmente successo, come se fosse capitato ad un’altra, scollegato dalla realtà. Tornata al lavoro, sono rientrata nella stanza che era stata casa mia per due settimane; mi sembrava inconcepibile essere riuscita a stare lì per un tempo così lungo, ho riguardato le analisi a la TAC e mi sono sembrate più brutte di quando le avevo viste la prima volta. Strane le vie della mente che conservano la paura anche per i giorni in cui tutto è finito, quasi a voler prolungare il senso di pericolo per non farlo dimenticare.
Mi piacerebbe trovare un senso e una logica in questi mesi deliranti di fatica, paure, isolamento, e di pensieri sul senso della vita. Mi piacerebbe soprattutto tirare le somme pensando che tutto sia finito, ma il Covid si è solo un po’ placato, è ancora da domare.
Restano i discorsi e i pensieri che ho scambiato in questi giorni: le lunghe chiacchierate di nulla con gli amici per riempire di normalità le ore della paura, il sollievo di averla scampata, la rabbia per le molte parole che spese, che hanno confuso e spaventato invece di confortare per, per l’ignoranza di chi sostiene che sia stato tutto una macchinazione. Tra tutte spiccano le parole educate e gentili della mamma del primo ragazzo che ho visitato tornando al lavoro, mio coetaneo; tutti i giorni telefonava con garbo preoccupazione e dolore sperando di ricevere buone notizie che non sono mai arrivate. Se cerco un ero in questi giorni penso a lei.
La sensazione più forte è quella di aver avuto molta fortuna. Colleghi e persone che conoscevo non sono più qui, io si. È una seconda occasione. Una seconda possibilità, per fare qualcosa di bello e importante se ne sarò capace, o per lo meno di godere del bello di ogni giorno, gustare i momenti preziosi che la vita mi regala.
Elena Meneghini: Medico diabetologo presso l’Ospedale Niguarda di Milano