“Nella classifica degli eventi esistenziali più drammatici, la carcerazione viene al terzo posto dopo la morte di un figlio e la morte della moglie. In un contesto drammatico dove dominano la miseria e la promiscuità, attualmente le carceri sono degli enormi serbatoi, dove la società, senza eccessive remore, continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari, di disturbati mentali, sembra un tentativo per neutralizzarli e renderli inoffensivi. I numeri parlano fin troppo chiaro e sono numeri preoccupanti, mai raggiunti nella storia del nostro Paese, che rendono tutto più complicato. Sovraffollamento vuol dire inevitabilmente minor vivibilità per i detenuti. Ci troviamo di fronte uomini e donne degradati ed umiliati. Prevalgono i “poveri diavoli”, i cosiddetti “cani senza collare”, tutti appartenenti agli strati sociali più deboli e poveri, “allevati” sui marciapiedi e nei sobborghi delle città”.
Francesco Ceraudo, Dirigente Sanitario della Casa Circondariale di Pisa.
(Il medico e il detenuto, 2002, “Il Manifesto”, www.ristretti.it)
Quando si affronta il tema della violenza in carcere, si fa, tendenzialmente, riferimento alle forme di prevaricazione, fisica e psicologica, subite dai detenuti da parte del personale penitenziario o di altri “coinquilini”, tralasciando, tuttavia, quella violenza, meno manifesta e più infida, a cui viene sottoposta la totalità dei detenuti: l’isolamento
Non mi riferisco ai regimi 4-bis o 41-bis, bensì alla dimensione di emarginazione sociale a cui si viene tradotti una volta in carcere.
Goffman (1961), il sociologo canadese inventore della definizione di “istituzione totale”, paragonando la situazione del detenuto a quella del paziente di un ospedale psichiatrico, si è soffermato sull’aggettivo “totale” per sottolineare l’ampiezza della coercizione.
Secondo Goffman (ibidem.) il primo fenomeno a cui si va incontro sarebbe quello della “spoliazione”, ossia: <<quel processo attraverso il quale il soggetto recluso si spoglia, della propria identità fino ad arrivare, in alcuni casi, a perderla del tutto>>. In seguito alla privazione dei beni materiali, corredo di vita fino ad allora e alla rescissione dei legami sociali, per tutti noi punto di riferimento, il detenuto si ritrova ostracizzato da quello che era stato il suo mondo prima della condanna.
Daniel Gonin (1994), medico francese autore di ricerche sulla vita intra moenia, ha raccolto dati molto significativi sulle ripercussioni dei lunghi soggiorni in carcere.
I primi organi a venire coinvolti, secondo uno studio epidemiologico condotto alla fine degli anni ottanta del secolo scorso negli istituti penali di Lione, sono quelli di senso. Si comincia con vertigini e conseguente perdita di equilibrio, dovuti alla carenza di luce naturale e alla permanenza in luoghi chiusi e di ridotte dimensioni. Alcuni reclusi registrano un’acutizzazione dell’udito, unico senso a non essere direttamente intaccato e che, come spesso avviene, si rafforza della menomazione degli altri fino ad arrivare alla manifestazione di sintomi di iperestesia uditiva, ossia la percezione di suoni e rumori lievi come assordanti.
Eppure la sensorialità più defraudata sembra essere quella del tatto: come sostiene Gonin, ben presto viene a mancare la piacevolezza del toccare a causa della penuria di quelli stimoli sensoriali a cui il nostro corpo e la nostra mente sono stati abituati. Riscontrabile maggiormente nelle detenute, abbiamo una serie di disfunzioni del sistema endocrino, manifestate, solitamente, sotto forma di irregolarità del ciclo mestruale e amenorrea, riflesso di quella fisiologica ciclicità dell’organismo che viene bruscamente inibita (Astarita, www.ristretti.it).
Il filosofo tedesco Beck (1986) afferma che tutti gli studi compiuti sulle stimolazioni sensoriali hanno dimostrato che esse sono indispensabili, a qualsiasi età, per un sano sviluppo e per la tutela della nostra personalità. In quanto “animali sociali” abbiamo fisiologicamente bisogno dell’altro. Coltivare una vita affettiva permettendo di mantenere vivi almeno i rapporti sociali più significativi, renderebbe meno debilitante la pena, ostacolando quel meccanismo di spoliazione, testé menzionato e favorendo il successivo reinserimento. Nel momento in cui ci si veste del nuovo ruolo di internato si ha con sé come unico bagaglio la cultura dell’ambiente di appartenenza, che, talora, viene sostituita de quella vigente nell’ambiente penitenziario (attraverso il processo che Goffman chiama di “esposizione contaminante”). Altre volte si assiste al fenomeno, più insidioso, della “dis-culturazione”: ossia la perdita della propria identità sociale e culturale, senza che questa venga rimpiazzata, fino ad arrivare ad un reale deterioramento delle capacità di interazione e integrazione sociale.
Per coloro i quali riescono ad adattarsi alla nuova dimensione, contraddistinta da leggi, abitudini e gerarchie che la rendono una realtà a sé stante, le regole della casa, i piccoli compensi, le concessioni e le punizioni tendono con il tempo a diventare gli effettivi pilastri della comunità in cui sono stati catapultati.
La sempre maggiore conoscenza dei “trucchi del mestiere” consente ai ristretti di ottenere qualche soddisfazione proibita, senza porsi in posizione di aperta sfida con il personale. Questi divertissement diventano per il detenuto una prova significativa dell’esser ancora padrone di sé. Lo sviluppo di analoghi adattamenti favorisce in primo luogo la fraternizzazione con gli altri ospiti, in secondo luogo la sensazione di opporsi al sistema, di non cedere.
Questo progressivo processo di adattamento alla subcultura penitenziaria è stato definito dal sociologo statunitense Donald Clemmer “processo di prigionizzazione” (1966): studiando le relazioni tra gli internati e la loro organizzazione sociale all’interno della struttura di massima sicurezza dell’Illinois, Clemmer illustra quali sono le fasi del lento e progressivo processo che: <<culmina nell’identificazione più o meno completa con la realtà in cui si trova, con l’adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del codice d’onore del carcere>>. Il verificarsi del fenomeno di prigionizzazione completa dipende in primo luogo dal singolo individuo, ossia dalla sua permeabilità all’ambiente circostante, in secondo luogo dal mantenimento o meno di relazioni interpersonali, permettendo di non isolarsi del tutto dalla società esterna, giacché, quando i ricordi dell’esperienza pre-penale iniziano a sfumare, una prima barriera contro la prigionizzazione viene rimossa.
In quest’ottica i colloqui rivestono un ruolo di grande importanza, unici momenti in cui diviene possibile, per usare le parole di Leopardi, nutrire il bisogno di “rimembranza” e tenere saldo nella memoria chi siamo.
Non di meno, la compressione della capacità di autodeterminazione, privando della facoltà di esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria volontà e costringendo a chiedere il permesso per azioni del tutto naturali, favoriscono, in aggiunta, una regressione psichica agli stadi infantili. Non dobbiamo compiere l’errore di sottovalutare la portata dell’itinerario mentale che la persona (anche quella innocente) percorre dal momento in cui viene informata di essere sottoposta ad indagini giudiziarie, fino alla conclusione della pena, conducendola in contesti e situazioni profondamente destabilizzanti che, talvolta, determinano la messa in atto di meccanismi di difesa aggressivi e primitivi, unica via interna all’individuo per salvaguardare il proprio equilibrio psichico.
Esito frequente l’appiattimento della propria identità con i ruoli di volta in volta assunti: indagato, imputato, condannato, detenuto (Tamanza, 2016).
Medesima riflessione possiamo avanzare circa la sfera sessuale. Il carcere, come ogni altra istituzione composta da membri di un unico genere, può facilmente portare a sviluppare un disadattamento sessuale, con conseguente stravolgimento della propria percezione intra ed inter-personale (Clemmer, ibidem.).
Gli effetti devastanti che la privazione dei rapporti sessuali comporta sulla personalità dei reclusi sono stati analizzati da un noto sociologo americano del nostro secolo; Sykes (1958), nel suo libro “The Society of Captives”, come Clemmer, studia la vita dei detenuti all’interno di un istituto penitenziario in Virginia. Il cosiddetto “celibato involontario” a cui sono sottoposti i reclusi se provoca, in primo luogo, una fisiologica sensazione di frustrazione, induce, ben presto, a comportamenti devianti e altamente destrutturanti per la personalità dell’individuo. La sessualità è elemento costitutivo dell’apparato esistenziale dell’uomo.
Una società monosessuale, come quella degli istituti di pena, rappresenta una grave minaccia per l’identità dell’individuo. Francesco Ceraudo, presidente di A.M.A.P.I. (“Associazione Medici dell’Amministrazione Penitenziaria Italiana”), sostiene che l’attività sessuale nell’uomo rappresenti un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto traumi fisici e psichici. Le pratiche omosessuali, benché abitudini molto diffuse nel tentativo di compensare le contrapposte esigenze di esternazione delle istanze pulsionali e di adattamento al contesto, si rivelano terreno fertile per una successiva frammentazione dell’Io e un profondo smarrimento identitario (Ceraudo, www.ristretti.it).
Il primo, onnipresente, ossessionante pensiero di ogni detenuto è quando e se gli sarà consentito tornare in libertà; ma, per quanto fondato e dilaniante questo desiderio possa essere, al momento di abbandonare la sua cella è un altro il dubbio principale: <<ce la farò?>>. La detenzione, soprattutto quando protratta, induce molti a pensare di non essere più idonei a vivere in una società civile.
Il processo di alienazione dell’individuo da se stesso e dalla comunità ha raggiunto purtroppo il suo traguardo con successo e, al posto di un incommensurabile sentimento di felicità, lo lacera una sconsolante percezione di inadeguatezza e paura.
Chissà che talvolta il suicidio non sia dettato dal panico all’idea di uscire e non dalla sofferenza della vita “dentro”.
Forti della convinzione di non aver compiuto alcun torto al nostro grande Beccaria (1764), che nel suo celebre “Dei delitti e delle pene” sancì “l’intangibilità” del corpo del recluso, forse dovremmo liberarci dal velo di Maya che cela i nostri occhi e riconoscere le lesioni di natura fisica e psichica che vengono perpetuate in queste micro-società ai margini.
I legami affettivi vengono spezzati, quasi sempre dalle pene più durature, rendendo il rilascio un ulteriore abbandono, di quella realtà divenuta nel tempo familiare, per venire scortati in una a cui non si appartiene più. Analogo alle situazioni subite dai soldati, a lungo lontano dalla patria, diviene arduo sincronizzarsi con i nuovi tempi, trovandosi in un limbo che se si riconosce come passato, risulta difficile identificarlo come proprio futuro.
Le famiglie in particolare, conferma identitaria dell’individuo, si ritrovano colpite, non meno del singolo, dalla condanna alla reclusione. Si tratta di un devastante lutto, contornato talvolta da un’infelice notorietà. La perdita del partner, di figli, di genitori, la privazione del proprio lavoro, si rivelano fratture emotive idonee a isolare non soltanto durante, ma oltre la pena.
Non c’è da stupirsi dunque, se la sensazione che lamentano molti detenuti sia quella di abbandono e risentimento. Risentimento per un abbandono, altresì, istituzionale, di chi, erogata la pena, si disinteressa del reinserimento di chi l’ha scontata. Una spirale distruttiva che si autoalimenta dal momento dell’ingresso in carcere ad oltranza, come se dalle mura dell’istituto, in fondo, non si uscisse mai.
BIBLIOGRAFIA
Astarita L., Detenzione femminile, www.ristretti.it
Beccaria C. (1764), Dei delitti e delle pene, Mursia Editore, Milano
Beck U. (1986), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Editore
Ceraudo F., La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, www.ristretti.it
Clemmer D. (1966), The prison community, Holt, New York.
Goffman E. (1961) Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Doubleday, New York.
Gonin D. (1994), Il corpo incarcerato, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
Sykes (1958), The Society of Captives, Princeton University Press, New York.
Tamanza G. (2016), Psicodinamica della colpa, della punizione e della riparazione, in Una giustizia diversa, il modello riparativo e la questione penale, a cura di L. Eusebi, Vita e Pensiero Editore, Milano.
*Giulia Chiappero è Assistente Sociale, mediatrice familiare ed è laureata in Giurisprudenza