di Lorenzo Cremonini *
All’interno del seminario organizzato dalla scuola, che quest’anno aveva come argomento il punto di vista antropologico nei processi di cura, ho portato in supervisione un caso, che mi sembrava intersecare questi aspetti con quelli della stanza di analisi.
Elena ha 23 anni, è sudamericana, sta concludendo gli studi universitari con lo scopo di diventare assistente sociale.
Viene inviata da una collega, da un lato con l’obiettivo di iniziare un percorso psicologico per comprendere la sua relazione con il padre e in generale le figure maschili e dall’altro per evitare di trasmettere ai propri figli un’educazione a suo avviso sbagliata.
Nei primi due incontri, noto alcuni aspetti di Elena: si presenta come una ragazza curata, determinata e molto esigente con se stessa e con gli altri.
Racconta che oltre a frequentare l’università, si sta per laureare, lavora come commessa in un centro commerciale molto distante da casa sua, che la obbliga a svegliarsi molto presto e a trascorrere tanto tempo sui mezzi di trasporto pubblico.
Dopo aver raccontato il motivo della richiesta, chiedo come mai rispetto a queste problematiche avesse scelto proprio me, un uomo.
A questa mia domanda risponde che crede sia importante affrontare i problemi in maniera diretta e inizia a raccontare la sua ultima relazione.
Descrive l’ex compagno, più grande di lei, come una persona instabile, fragile e bisognosa del suo aiuto e, allo stesso tempo, verbalmente aggressivo e pessimista. Elena descrive le difficoltà nello stare in relazione con questa persona a cui sostiene di aver dato tutto quello che aveva, tanto da portarla a interrompere la relazione, salvo poi tornare sui suoi passi, varie volte.
Non si sentiva libera. Continua sostenendo che per il tipo di persona che è, difficilmente qualcuno riesce a donarle e a spendersi quanto lei fa per gli altri. Lei da tutto, forse troppo, ma c’è spesso uno squilibrio tale da sentirsi non corrisposta, sia in amore che in amicizia. Negli incontri successivi al primo, questa persona non verrà più nominata da Elena.
All’interno del periodo di consultazione, raccolgo meglio alcuni aspetti di come Elena “funziona” a livello relazionale. Caratteristiche che noto essere ambivalenti, soprattutto in ambito famigliare. Osservo una forte idealizzazione della madre, vissuta come una amica che riesce sempre a capirla e consolarla, una forza della natura, l’unico motivo per cui Elena ha la possibilità di realizzarsi sia come persona sia a livello professionale; invece il padre risulta spesso svalutato, nonché vissuto come povero emotivamente, manchevole dal punto di vista affettivo, il che la porta a soffrire, perché lei desidererebbe un rapporto più complice e nel modo più assoluto crede che questo non sia un modello educativo da tramandare ai propri figli.
La madre si pone anche come ponte tra le comunicazioni di Elena con il padre, in quanto quest’ultima fa fatica a dialogare in maniera diretta, partendo già rassegnata di non essere capita. L’unica colpa che ha la madre, è quella di dover accudire il padre, occupandosi delle faccende di casa.
Prima del nostro ultimo incontro a ridosso dell’eventuale presa in carico chiedo a Elena di raccontare la sua vita da quando è nata fino ad ora.
Ho fatto questa scelta perché essendo nata in America del Sud, ho immaginato un periodo “di rottura” tra la nascita e il trasferimento in Italia. L’idea di mettere insieme qualche altro elemento, per aver chiaro che tipo di contratto terapeutico era eventualmente possibile fare, di solito mi aiuta a contestualizzare meglio la situazione e a raccogliere in generale elementi di natura anamnestica.
Il giorno della seduta mi avvisa di sentirsi poco bene e che non riuscirà ad esserci, concordiamo un altro appuntamento dove arriverà con largo anticipo.
Inizia a raccontare di aver vissuto dalla nascita fino ai 9 anni, nel suo paese di origine. Sua madre, infermiera, quando Elena ha 2 anni, decide di trasferirsi da sola in Italia, poi raggiunta qualche anno più tardi dal padre.
In questi 9 anni, viene cresciuta e accudita dalla nonna materna, con cui abitava e trascorreva gran parte del suo tempo.
Ѐ proprio “una mamma per me” dice. Il fratello, più grande di lei di un paio d’anni, in questo periodo invece abitava presso la zia, in una casa diversa, sempre nello stesso villaggio e anche lui si è trasferito in Italia, ma non sembra essere una persona significativa perché se n’è andato via di casa molto giovane.
Del padre, senza la madre, non vi è traccia.
La storia di Elena, è tale che agli occhi di un terapeuta può preoccupare; la frammentarietà del suo percorso di crescita e sviluppo, l’idea della distanza dai suoi genitori per così tanto tempo e in un momento della vita così intriso di bisogno per i bambini può far pensare subito ad alcuni aspetti traumatici della sua esistenza. Ma a questo mio sentire, Elena descrive con accezioni positive il periodo in Sud America, salvo poi sottolineare che considera il suo paese d’origine molto pericoloso, preferendo di gran lunga l’Italia ed è qui che immagina il suo futuro.
L’arrivo nel nostro paese lo descrive in maniera positiva, l’ambientamento e l’ostacolo della lingua non sembrerebbero essere stati un problema.
Le difficoltà racconta, sono arrivate dopo, al secondo anno di superiori.
La vicinanza con una amica, anch’essa sudamericana, l’ha portata “sulla cattiva strada”. Spesso non andava a scuola per andare a zonzo e festeggiare con lei arrivando al punto di non aver accumulato abbastanza giorni scolastici per accedere all’anno successivo. In questo periodo, sua madre, accusava il padre di non riuscire a controllare le uscite di Elena, essendo che lei tornava dal lavoro troppo tardi.
In questo contesto Elena mostra che la flessibilità del padre non fosse un problema e che anzi le andasse bene. L’evento della bocciatura ha come risultato la delusione di quest’ultimo e le difficoltà della madre nel coinvolgerlo nelle vicissitudini scolastiche della figlia.
Gli anni successivi portano Elena a diplomarsi senza ulteriori interruzioni. Il traguardo raggiunto viene vissuto da Elena come veramente molto faticoso, anche per il fatto che dalla quarta superiore ha iniziato a lavorare in una pizzeria. Contemporaneamente riferisce di aver avuto molti problemi legati all’ansia, di aver perso peso e di aver avuto diversi attacchi di panico.
Tutto ciò sembrerebbe essere legato alla rottura con il suo primo ragazzo che l’ha tradita con la sua migliore amica dell’epoca.
Al termine del periodo di consultazione, decido di prenderla in carico, con l’idea di vederci una volta a settimana e la ragazza acconsente salvo poi, la seduta successiva, chiedere una riduzione delle sedute a due al mese per problemi di natura economica, in quanto con l’improvvisa morte del fratello della madre, ha dovuto pagare a quest’ultima il viaggio per tornare in Sud America e stare vicino alla nonna. Acconsento alla sua proposta con l’idea di fare un bilancio dopo due mesi.
Essendo la figura del padre e il rapporto con lui, argomento frequente e ingombrante dei nostri incontri, viene considerato come uno degli aspetti su cui lavorare insieme.
In realtà con il passare delle sedute ai miei occhi, il padre, mostra caratteristiche di accudimento nei confronti della figlia, e improvvisamente Elena, con mia incredulità rispetto alle premesse, racconta di un rapporto più saldo e vivo che mai, tanto da considerarlo praticamente risolto. Improvvisamente tutte le problematiche che avevano portato Elena da me, per lei sembravano risolte, e altre non se ne presentavano ai suoi occhi.
Mi sentivo, rispetto a situazioni passate, come se a ogni seduta il mio ruolo fosse pian piano spogliato di utilità.
In maniera fulminea tutto sembrava essersi riparato in Elena, ma la mia sensazione era quella di aver appena iniziato a conoscerci. Siamo passati da sedute in cui parlava molto concitatamente e per tutta la durata del tempo, a lunghi periodi di silenzio. Uno dei quali mi ha colpito molto, perché rispetto al passato, ho sentito uno sguardo seduttivo e di sfida, che mi ha messo molto a disagio, tanto da pensare di aver di fronte un transfert erotizzato. Nota
Nota Il transfert erotizzato è quello che maggiormente può preoccupare l’analista in quanto tende ad apparire in maniera improvvisa con una forte tenacia e con tendenze distruttive mettendo a dura prova il terapeuta a causa dell’intolleranza alla frustrazione che lo accompagna e questo può portare l’analisi ad un punto di rottura. Lo stesso Freud si accorse delle potenti forze dell’amore che si attivano tra paziente ed analista, riconoscendo in questo processo la via di guarigione e contemporaneamente un lato oscuro in grado di opporre al trattamento un ostacolo.
Dopo pochi mesi mi comunica che per ragioni economiche, con la laurea in arrivo e l’idea di andare a trovare la nonna in Sud America e quindi per il costo del viaggio, non potrà più permettersi la terapia, senza possibilità di salutarci e riflettere insieme sul breve percorso fatto insieme, la sensazione che ho percepito è quello di un forte dispiacere.
Nel momento in cui ho condiviso con i colleghi questo caso, mi è stato possibile andare molto più a fondo. Mi sono reso conto che il dispiacere era solo una parte superficiale di quello che avevo provato, ma che avevo negato la sensazione di essere stato abbandonato da Elena.
Custodisco la storia di Elena, con l’idea che in gioco, nonostante i pochi mesi trascorsi, c’è tanto di quello che è successo in quei nove anni senza i suoi genitori. Una volta avevamo parlato della rabbia, in un contesto molto generale, e alla mia domanda di provare a raccontarmi un episodio in cui si era molto arrabbiata, non era riuscita a trovarne neanche uno.
Questa cosa mi ha incuriosito perché neanche a me ha dato la possibilità di poter discutere la sua decisione, e la mia reazione emotiva al suo drop out è stata prima di rabbia inespressa e poi di natura abbandonica.
Elena, per quanto mi ha raccontato, non ha mai espresso rabbia verso la madre per il tipo di decisione che ha preso, la giustifica intellettualizzando
La sua fatica di madre coraggiosa, che indubbiamente è a mio avviso, ma a quale costo?
La lettura simbolica che Elena fa di questo evento è di aver ricevuto dalla madre un dono/debito che possa permetterle non solo di riscattarsi a livello sociale ma di ripristinare un ideale di accudimento molto più occidentale, elemento che è molto forte in lei.
Elena ha riportato in forma attiva alcuni aspetti del suo trauma nella nostra breve relazione terapeutica, in seguito alla separazione dai genitori, portando un transfert erotizzato che richiamava una certa vicinanza, per poi mostrare atteggiamenti più distanzianti, fino ad emigrare dal rapporto che stavamo costruendo, un po’ come i genitori nel momento in cui si sono trasferiti in Italia, un po’ come lei ha fatto con il suo ex ragazzo con cui si poneva inizialmente in un rapporto più di accudimento, per poi distanziarsi. Distanza che caratterizza la storia dei migranti, che si trovano ad allontanarsi dal paese natio per darsi l’opportunità di stare meglio, o dare un futuro migliore ai propri figli, che però in alcune occasioni si portano con loro.
Sembra che Elena, nel nostro breve percorso insieme, si sia concessa di rileggere la sua storia, e abbia intravisto la sofferenza di quella bambina che, da un giorno all’altro, ha visto la propria madre trasferirsi in un altro continente.
A livello culturale questo aspetto è accettato, la comunità sudamericana ha una forte presenza nel tessuto urbano genovese, figlia dei periodi migratori degli ultimi trent’anni, ma integrarsi è un processo immediato? Cosa lasciano nelle persone e nel tessuto famigliare questi cambiamenti? Elena si è svegliata una mattina, e non ha più visto sua madre, partita nella notte, senza un saluto. Ѐ stata accudita dalla nonna, e poi a nove anni si è trasferita in un paese straniero andando a ricomporre quello che era il mosaico famigliare iniziale, ma paradossalmente perdendone un altro pezzo fondamentale, la nonna stessa, che insieme al resto della famiglia vive ancora in Sud America.
In conclusione, è noto che la migrazione può essere traumatica, in quanto colloca la persona in un contesto culturale esterno che non è più congruente con il contesto culturale interno. Nella storia di Elena, c’è una frammentazione accentuata, in quanto il nucleo famigliare è sembrato disgregarsi con la partenza della madre, ricomporsi nella diade Elena-nonna e dopo 9 anni in un altro paese senza la presenza della nonna, ricomporsi con la madre.
In tutto questo, nella relazione con la madre, a tratti non sembra esserci spazio nella mente di Elena per il fratello e il padre, tanto da sentire la figura genitoriale quasi un intruso, un ostacolo e un papà privo di qualsiasi qualità.
Tutto ciò sembra aver creato una vulnerabilità diffusa nella costruzione e nel mantenimento dei legami, sia di natura famigliare, sia relazionale, sia terapeutica. Nel passato di Elena, i legami genitoriali hanno avuto delle oscillazioni tali, da dover resistere alla distanza, ai cambiamenti radicali, a un’integrazione complessa in un nuovo habitat, al faticoso confronto tra il paese in cui si è emigrati e quello d’origine.
Elena è arrivata con una preoccupazione, quella di poter trasmettere ai futuri figli un’educazione sbagliata, in questa richiesta, è possibile osservare forse un’iniziale messa in discussione del sistema valoriale dei genitori, anche rispetto al modello occidentale di considerare la famiglia, che lei ha appreso una volta trasferita qui e che ha approfondito nel momento in cui ha iniziato a studiare, per intraprendere una professione, quella da assistente sociale, fortemente di tutela verso l’individuo, il nucleo famigliare e i legami.
Possibile che Elena, o la relazione che stavamo costruendo, non fossero ancora pronte per rileggere questa storia, metterla in discussione ed esprimere anche rabbia o biasimo rispetto a quello che ha vissuto?
Quanto può essere faticoso per un migrante, condividere con un estraneo e mettere in dubbio tutti questi aspetti fortemente identitari?
BIBLIOGRAFIA
Moro, M.R., Neuman, D., Réal, I., e Di Vita, A.M. (2010), Maternità in esilio: bambini e migrazioni. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Safran, J.D., e Muran, J.C. (2011), Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica. Trad. Savi E., GLF Editori Laterza, Roma.
Scabini, E., e Cigoli, V. (2012), Alla ricerca del famigliare. Il modello relazionale-simbolico. Raffaello Cortina Editore, Milano.
SITOGRAFIA
* Lorenzo Cremonini è psicologo specializzando in psicoterapia