di Rita Cersosimo*
I social media utilizzano algoritmi che ci mostrano soltanto le informazioni più affini alle nostre idee, intrappolandoci in echo chamber che ostacolano il pensiero critico e orientano le nostre opinioni. L’articolo tratterà del valore del nostro consenso oggi (ha senso parlarne, se non sappiamo districarci nella giungla di informazioni che ci vengono presentate?) e dell’importanza di una digital literacy che può e deve avvenire già nei primi gradi della scuola.
Nel 1979 il filosofo francese Jean-François Lyotard sancisce la fine della modernità. La condizione postmoderna, titolo del suo famoso pamphlet, inizia nel momento in cui l’uomo perde la capacità di giocare un ruolo nella storia della civiltà. L’impossibilità di entrare a far parte di una grande narrazione, la condanna a essere solo piccoli frammenti, modifica irrimediabilmente il pensiero dell’uomo e il proprio comportamento rispetto alla realtà.
I grandi cambiamenti avvenuti da quegli anni a oggi non hanno fatto altro che acuire questa sensazione. Il tentativo di riprendere la penna in mano, la matita per disegnare la storia, non si è esaurito, ma ha trovato altre forme che hanno sconvolto il nuovo millennio: i social media.
In quest’epoca assistiamo a un’iper-registrazione di ciò che accade e ciò che viene scritto non è più impresso per sempre, ma può sparire o essere facilmente dimenticato. L’impressione comune è quella di avere finalmente il mondo in mano: ho accesso a tutto e posso esprimermi liberamente – quanto voglio e come voglio – e posso decidere dove orientare il mio consenso. è davvero così?
La risposta è intuibile ed è, in un certo senso, negativa. I nostri pensieri non sono in mano a una persona, ma nemmeno a una cosa: il loro flusso, come fosse schiuma – per citare Peter Sloterdijk, che ha teorizzato questi processi dal punto di vista antropo-filosofico – è guidato dai tanto noti, quanto sconosciuti, algoritmi. Gli algoritmi, al di là del lato meramente tecnico, sono un insieme di informazioni che permettono di raggiungere un obiettivo, da quello più semplice come l’esecuzione automatica di un calcolo, a quello più complesso, come la gestione e il filtraggio delle nostre preferenze. In quest’ultimo caso, possiamo affermare che essi siano la benzina che alimenta il grande motore dei social media, quindi la circolazione delle informazioni su scala mondiale.
Se facciamo un passo indietro nella storia dei media, però, sorge il dubbio che questi fenomeni fossero già presenti da lungo tempo in formato offline.
Già Walter Lippman, politologo e giornalista statunitense vissuto nel secolo scorso, ragionando su come si sviluppassero i canali di informazione considerati attendibili, affermava che uno dei termini di selezione e di “delega” della lettura di informazioni era proprio la mancanza di tempo. Allora, i nuovi lavori impedivano l’attenta ricerca e la scrematura delle notizie, perciò ci si affidava a un giornale che rispecchiasse le nostre ideologie.
Oggi, come è evidente, è cambiato l’oggetto in cui riporre la nostra fiducia, ma non il motivo per cui lo facciamo: la facilità e l’immediatezza di ricerca. I social media sono diventati la fonte delle nostre informazioni e sono spesso percepiti come più genuini rispetto ai media tradizionali, considerati come lontani dalle necessità delle persone comuni, voce dei poteri politici di cui non ci fidiamo più.
è qui che si avverte la necessità del singolo di appropriarsi della “matita della storia” di cui parlavamo prima. La percezione che abbiamo dell’attività sui social media, però, è distante dalla realtà: alcuni studi empirici hanno dimostrato che gli utenti considerati come “attivi” online (quelli cioè che producono contenuti) oscillano tra 1% e il 5%, mentre gli altri si limitano al commento estemporaneo. Questo significa che si tratta comunque di un gruppo poco omogeneo e non rappresentativo e che in ogni caso continuiamo ad affidarci a quanto scritto da altri che la pensano come noi.
Perciò, nelle reti sociali online intercorrono processi che sono molto simili a quelli offline. Una delle caratteristiche comuni è definita “omofilia delle reti”: in tutte le nostre interazioni sociali, infatti, tendiamo a selezionare gli individui che sono simili a noi in termini di pensieri e ideologie. Si tratta del cosiddetto confirmation bias, un atteggiamento tipico della natura umana che tende ad accogliere solamente le informazioni che confermano le proprie convinzioni precedentemente acquisite. In altre parole, cerchiamo continuamente prove che confermino le nostre idee e trascuriamo quelle contrarie.
In questo contesto si inseriscono gli algoritmi dei social media, i quali assecondano una già naturale tendenza dell’uomo. Essi sono finalizzati al miglioramento dell’esperienza dell’utente, ma ci attirano in reti nelle quali rischiamo di rimanere impigliati. I processi di algorithmic gatekeeping[1], quindi, modificano il libero flusso di informazioni e questo può avere un impatto se consideriamo che un numero sempre crescente di utenti utilizza i social media come fonte di informazione, come dimostrano le ricerche del Pew Research Center (2014) e gli studi di Kartik Hosanagar, Daniel Fleder, Dokyun Lee e Andreas Buja[2] dell’Università della Pennsylvania.
Nel 2011, Eli Pariser pubblica un libro che si intitola The Filter Bubble: what the Internet is hiding from you, dove discute gli effetti degli algoritmi che personalizzano la nostra esperienza online. Il web ha aperto la strada a una quantità di informazioni sterminata, quindi al problema della selezione di ciò che è rilevante per il singolo, e i principali attori tecnologici hanno risposto di conseguenza (per primo Google, nel 2009, con la personalized search). Il suo ragionamento riporta a quello di Walter Lippman, che affermava che la scarsità di tempo e la nostra attitudine alla velocità e all’immediatezza fossero agenti modellanti dei media. Diventa così evidente il motivo per cui Eli Pariser ci parla di filter bubble: ognuno di noi è circondato da informazioni filtrate in base ai propri interessi e rimane all’interno di una bolla che limita l’esposizione alle idee diverse dalle proprie. Per questo motivo, l’accesso alle posizioni discordanti resta più complesso, mentre quello che rinvia alle simili viene in un certo senso “potenziato”.
In questa prospettiva è interessante lo studio condotto nel 2016 da Seth Flaxman, Sharad Goel e Justin M. Rao, dal titolo Filter Bubbles, Echo Chambers, and Online News Consumption. Essi, analizzando le cronologie di navigazione degli utenti, hanno rilevato come i fenomeni che abbiamo delineato in precedenza siano associati a un aumento della distanza ideologica media tra gli utenti. Si può parlare, in questo caso, di polarizzazione, un termine derivante dalla fisica che indica la netta distinzione delle ideologie ai poli estremi: se analizziamo i discorsi sui social media, infatti, sarà molto più frequente trovare opinioni diametralmente opposte, piuttosto che idee equilibrate e argomentate.
C’è un’altra dinamica, in particolare, che incrementa il nostro grado di polarizzazione e lo “spessore” della superficie della nostra bolla, menzionata anche nel titolo dello studio che abbiamo appena citato: echo chamber.
Prima di spiegare di cosa si tratti, però, mi sembra utile ricordare le origini della parola “eco”, che risiedono nella mitologia, ma ben si attualizzano nel nostro ragionamento. Ovidio, nelle sue Metamorfosi, è uno dei tanti autori che ci narra la storia di Eco e Narciso, una timida ninfa e un giovane tanto bello, quanto superbo. Lei è una fanciulla molto loquace che può riportare solamente la fine delle parole del suo interlocutore, dunque le è impossibile iniziare qualsiasi conversazione. Innamoratasi di Narciso, Eco non può fare a meno di imbattersi nella sua indifferenza, e il dolore per essere stata respinta diviene tanto grande da farle perdere la sua natura corporea e trasformarla in voce, quella che si sente tuttora in natura. La vanità di Narciso sarà punita dalla dea Nemesi con un amore altrettanto impossibile, quello per sé stesso.
Qual è, dunque, il legame che ho trovato con il mito? Sicuramente, siamo tutti un po’ Narciso. Quando scriviamo sui social media, tendiamo a curarci molto di noi stessi e della nostra immagine, costruiamo un ethos che rispecchi solo le caratteristiche migliori che ci contraddistinguono, usiamo nella maggior parte dei casi il pronome io, come si evince dai numerosi studi della branca dell’analisi del discorso digitale. Inevitabilmente, quindi, ci torna nelle orecchie (come un’eco) la nostra stessa voce amplificata, più e più volte. L’echo chamber, camera dell’eco, è quindi una metafora di quanto ci succede sui social media, quando le nostre opinioni vengono rinforzate perché ci sono continuamente riproposte. Questa dinamica può rendere molto difficoltosa una riflessione critica, perché il fatto di essere continuamente esposti alle nostre idee ci rende meno flessibili a considerarne altre.
Quando siamo chiusi nella nostra echo chamber, è molto difficile valutare il valore di veridicità di un’informazione, perché non abbiamo abbastanza elementi per leggere una data informazione in toto e anche perché la nostra fiducia verso quella piattaforma è tale da non farci dubitare della sua affidabilità.
Essendo soggetti a una preselezione delle notizie, si attivano i canali di “risparmio cognitivo” che ci permettono di portare avanti un’azione di per sé complessa come la ricerca di informazioni con una facilità sorprendente, tanto che spesso preferiamo passare qualche ora sui social media poiché ci diciamo troppo stanchi per leggere un libro.
Questi processi cognitivi fanno sì che l’utente possa diventare estremamente resistente al cambio di opinione (o anche solo alla considerazione di un’altra idea) e uno dei risultati che apparentemente non c’entra nulla, ma in realtà è prodotto di questo fenomeno, è la continua manifestazione di indignazione. In un recente studio pubblicato su Nature[3], un Gruppo di ricercatori ha evidenziato i motivi che portano gli utenti a denunciare i comportamenti scorretti altrui, anche quando l’offesa non ci riguarda direttamente; è emerso che il processo inconscio che mettiamo in atto è quello di esaltazione della propria persona, un personal advertisement finalizzato a farci considerare come degni di maggiore fiducia da parte degli altri e ad aumentare la nostra reputazione. Anche la critica, quindi, alimenta l’echo chamber e ci lega a persone con idee simili alle nostre, che per questo motivo ci apprezzano particolarmente.
Se ci guardiamo alle spalle, però, abbiamo la conferma che tutti questi atteggiamenti non sono certo figli dei social media, bensì sono caratteristici dell’azione umana.
Secondo una riflessione proposta da Claire Wardle e Hossein Derakhshan in un rapporto pubblicato dal Consiglio d’Europa, siamo parte di un information disorder, ossia di un problema di approccio alle informazioni. Esso è causato dalla tendenza a leggere e a diffondere informazioni in assenza di approfondimenti o di pareri autorevoli e più in generale di un deficit dell’attenzione, ma è bene notare che questi sono problemi della società nella sua totalità, quindi di tutti i media in genere, come risulta anche dallo studio di Matthew Gentzkow e Jesse M. Shapiro[4], che dimostra come la segregazione ideologica nel consumo delle notizie sia assolutamente comparabile tra l’online e l’offline.
Possiamo, dunque, uscire dalla camera dell’eco oppure siamo destinati, per natura, a restarci?
Prima di tutto, è bene tenere presenti tutti i processi sottostanti alla formazione delle nostre convinzioni. Non è possibile, in nessun caso, convincere qualcuno se si mettono in discussione il suo ethos, la sua identità o i suoi riferimenti sociali. Per questo motivo, in psicologia si parla di nudge (la “spinta gentile”), un approccio atto a orientare i comportamenti umani che consiste nel modificare il contesto decisionale in cui si trova la persona. L’idea è molto utilizzata nel marketing, ma potrebbe essere impiegata in maniera etica per smuovere gli utenti dalle proprie bolle.
Perciò, una prima soluzione potrebbe essere quella di comprendere come intervenire per evitare di restare fermi nella propria convinzione ed essere così meno resistenti alle “spinte” positive.
Imparare significa essere educati. Non è scontato: è vero che noi giovani siamo cresciuti in mezzo alla tecnologia e sappiamo usarla come se fosse parte del nostro corpo, ma non abbiamo la minima idea dei processi che stanno dietro lo schermo, così come non abbiamo idea (se non lo abbiamo studiato) di come il sangue circoli nelle nostre vene. Per gli adulti, i quali hanno avuto accesso alla tecnologia più tardi, il discorso non cambia. è assolutamente indispensabile, quindi, che ci si attivi per dotare chiunque degli strumenti di comprensione dei social media e dei meccanismi della comunicazione in generale.
Essendo internet la principale fonte di informazione e di studio, è essenziale sapersi muovere nella mole di informazioni con consapevolezza e senso critico. Mettiamo, per esempio, che l’insegnante assegni agli alunni una ricerca sulle migrazioni (uno degli argomenti più soggetti alla polarizzazione ultimamente): lo studente che ha una determinata ideologia, troverà per primi i risultati che la confermeranno e lo stesso varrà per lo studente con il pensiero opposto; un lavoro mirato all’apertura dei propri orizzonti, se condotto con superficialità, non farà altro che confermare le proprie idee di partenza.
Come abbiamo visto, gli studi in materia sono moltissimi e basterebbe introdurli nei programmi scolastici, perché sono la nostra nuova grammatica di ragionamento: si tratta della cosiddetta digital literacy, o alfabetizzazione digitale, intesa come la capacità di ricercare, trovare e valutare informazioni equilibrate e corrette attraverso l’utilizzo dei nuovi media. A questo proposito, teniamo presente anche una recente riflessione di Marco Gui, autore del libro Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?[5] che evidenzia come «l’urgenza di intervento della scuola rispetto alla digitalizzazione non è la didattica con le tecnologie, ma lo sviluppo di un uso consapevole dei media», identificati come un modo per “leggere” la nuova realtà che abbiamo sottomano.
Dunque, anche se molti processi sono insiti nella natura dell’uomo, la varietà delle impostazioni e dei contenuti della rete può davvero rompere le nostre bolle informative, cosa che non poteva avvenire, ad esempio, quando le uniche fonti di informazione erano i giornali o la televisione.
Quindi, se da una parte le dinamiche del web acuiscono la nostra chiusura in noi stessi, dall’altra sono l’unico importante modo per aprire davvero le nostre vedute. La rete non va in alcun modo demonizzata, perché ha al suo interno un’incredibile varietà di fonti (che, certo, vanno gestite nel miglior modo possibile), ma è importante che esistano proprio per garantire la nostra libertà di scelta e di espressione. Non dimentichiamoci che il web non è altro che uno specchio della nostra società, che riflette i nostri comportamenti, il nostro modo di essere, compreso come ci approcciamo alle informazioni.
Per questo, solo quando avremo il controllo di quello che ci viene presentato potremo finalmente arrivare a parlare di consenso come capacità di orientare autonomamente le nostre preferenze, ma anche come scelta consapevole di affidare i nostri dati a terzi. A questo proposito, la recente legge sulla privacy è proprio figlia di questa esigenza di civiltà, perché gestire le nostre informazioni e decidere se affidarle a delle piattaforme oppure tenerle per noi è davvero un diritto fondamentale.
Non c’è un comportamento giusto o sbagliato, si tratta solo di avere consapevolezza degli strumenti che abbiamo in mano. Solo allora, avremo la chiave per uscire dalla camera dell’eco.
Bibliografia
Flaxman S., Goel S., Rao J.M., Filter Bubbles, Echo Chambers, and Online News Consumption, in Public Opinion Quarterly, n. 80, Issue S1, pp. 298–320, 2016.
Gentzkow M., Shapiro J.M., Ideological Segregation Online and Offline, in NBER Working Paper n. 15916, 2010.
Gui M., Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio? Il Mulino, Bologna, 2019.
Hosanagar et al., Will the Global Village Fracture Into Tribes? Recommender Systems and Their Effects on Consumer Fragmentation, in Management Science n. 60, pp. 805-823, 2014.
Jordan et al., Third-Party Punishment as a Costly Signal of Trustworthiness, in Nature n. 530, pp. 473–476, 2016.
Pariser E., The Filter Bubble: What The Internet Is Hiding From You, Penguin, Londra, 2011.
Saetta B., Polarizzazione, bolle ideologiche e quei miti da sfatare sull’informazione digitale, in Valigia Blu, dicembre 2017.
Thaler R.H., Sunstein C.R., Nudge: Improving decisions about health, wealth, and happiness
Yale University Press, New Haven, 2008.
Veltri A., Scorciatoie mentali, bolle e post-verità: la sfera pubblica 3.0, Volta Italia, Milano, 2017.
Wardle C., Derakhshan H., Information Disorder: Toward an interdisciplinary framework for research and policy making, Council of Europe Report, 2017.
*Rita Cersosimo. Laureanda in Lingue e letterature moderne per la comunicazione internazionale
[1] Veltri A., Scorciatoie mentali, bolle e post-verità: la sfera pubblica 3.0, Volta Italia, Milano, 2017.
[2] Hosanagar et al., Will the Global Village Fracture Into Tribes? Recommender Systems and Their Effects on Consumer Fragmentation, in Management Science n. 60, pp. 805-823, 2014.
[3] Jordan et al., Third-Party Punishment as a Costly Signal of Trustworthiness, in Nature volume 530, pp. 473–476, 2016.
[4] Gentzkow M., Shapiro J.M., Ideological Segregation Online and Offline, in NBER Working Paper n. 15916, 2010.
[5] Gui M., Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?, Il Mulino, Bologna, 2019.