di Bruno Barba *
Il candomblé(Nota 1) può essere considerato un culto di “frontiera”, rivolto com’è al passato ancestrale degli africani e al contempo capace di trasformarsi nel Nuovo Mondo in un culto duttile, plastico, moderno. È un movimento religioso “in” e “out”: accetta e condivide molte istanze della società globale brasiliana – al punto da poter essere usato come strumento interpretativo per capire quella cultura – e al contempo si propone come un microcosmo a sé stante, con alcune regole, visioni, tabù del tutto proprie ed esclusive.
Basato sulla credenza negli orixás (Nota 2), promuove non soltanto l’elevazione spirituale dell’individuo, associandolo a una divinità, ma gli restituisce una dimensione autentica, per via della corrispondenza tra le attribuzioni mitiche degli dei e gli elementi della natura, come piante, acqua, fulmini. Non solo, la ricchissima mitologia, tramandata oralmente – particolare tutt’altro che irrilevante per l’argomento che andremo ad approfondire – comprende ogni azione possibile, spiega e giustifica le contraddizioni della vita, ed è in grado di proporre soluzioni alternative. Questa riflessione, che non ci pare una premessa pleonastica, crea i presupposti per considerare come alcuni tratti, comportamenti e inclinazioni dei fedeli possano essere visti tanto come espressione della società brasiliana, quanto al contrario come permessi soltanto all’interno di un ambiente circoscritto e sensibilmente permissivo. Partiamo quindi da un dato incontrovertibile: qualunque ricercatore o viaggiatore frequenti un terreiro di candomblé si troverà di fronte a una realtà inequivocabile, ovvero la presenza di un numero considerevole di omosessuali. Si commetterebbe un errore di prospettiva se si usassero parametri tradizionali, occidentali e non si relativizzasse la distinzione tra i sessi in un ambito tanto differente quanto quella della comunità diasporica africana in Brasile.
Nota 1 Il candomblé è la religione afro-brasiliana che si è costituita a partire dall’inizio della schiavitù nelle piantagioni di canna da zucchero e tabacco nel Nordeste del Brasile. Prevede la credenza in un pantheon di divinità che si sono incontrate e quindi sincretizzate con i santi del cattolicesimo dei colonizzatori portoghesi. Verso la metà dell’Ottocento, nella città di Salvador de Bahia si sono costruiti i primi templi, chiamati terreiros. Da allora il candomblé, seppure demonizzato dalle élites culturali bianche, è progressivamente diventato un culto diffusissimo, capace di marcare tratti culturali – il comportamento, la gastronomia, la musica, il linguaggio, l’abbigliamento – ben al di là dell’adesione religiosa. Non si tratta quindi soltanto di una religione, ma anche di uno stile di vita; i fedeli, chiamati filhos de santo, imparano la gerarchia, il rispetto, la collaborazione, l’umiltà. Si tratta quindi di una vera e propria filosofia di vita, di un culto partecipato e, per via dello stato di trance o possessione, drammaticamente vissuto. La letteratura antropologica si sofferma a celebrare il prestigio di quelle mães de santo a capo dei terreiros riconosciuti come i più tradizionali di Salvador de Bahia come l’Ilê Axé Opô Afonjá, il Gantois, la Casa Branca do Engenho Velho. Donne forti, generose, accoglienti, sorridenti, rassicuranti, carismatiche.
Nota 2 Il termine orixàs è della lingua yoruba, divenuta quella ufficiale; le divinità sono chiamate anche voduns (in lingua fon) o inkissi (in bantu). Queste divinità̀ rappresentano forze della natura, caratteristiche umane, santi del cattolicesimo: è quest’ultimo l’aspetto più̀ evidente del sincretismo. Scendono sulla terra impossessandosi del fedele in trance e mostrando le proprie personalità̀. Così Iansã la guerriera sfodera la spada, Iemanjá la madre, la diva del mare, ondeggia ricordando il movimento dei flutti, Exu, lo scostumato, è osceno persino nel ballare; Oxumarê il serpente striscia in terra; Oxum la vanitosa si specchia fiera della sua bellezza.
Già la letteratura di Jorge Amado, così puntuale, densa, “antropologica”, capace di rivelare anche ai profani i gusti e i profumi – quelli baiani, quelli “afro” – di un certo Brasile, sembra indicarci la strada. In Dona Flor e i suoi due mariti (1977), ad esempio, vi sono innumerevoli riferimenti all’ambiguità sessuale: per noi almeno, dualisti occidentali.
Dona Flor, nel romanzo come nel film di Bruno Barreto, diventa un emblema della costruzione identitaria di un paese, della “strategia della non scelta”, dell’accoglienza meticcia, dell’ideale brasiliano della riconciliazione. Ma qui interessa soprattutto il concetto di sessualità trasmesso da Amado, anche in relazione al candomblé, la cui presenza permea il romanzo: travestitismo, omoerotismo e androginia rivestono un ruolo importante, e non etero normativo. Basti pensare all’incipit, con il protagonista Vadinho, primo marito di Dona Flor, che balla il samba vestito da baiana, un attimo prima di morire. La commistione fra abbigliamento maschile e femminile, la performance corporea, l’atteggiamento: tutto rimanda a un uomo “superatore di confini”. Amado si cura di spiegare che il “cross dressing” di Vadinho e di altri balordi è solo uno scherzo di carnevale, senza implicazioni di nessun genere in termini di comportamento sessuale (Strongman 2023, p. 224).
Ci troviamo quindi in uno spazio culturale che deve essere affrontato con un’ottica relativista: altri schemi mentali, altre situazioni storiche rispetto a quelli cui siamo abituati. Non va neanche enfatizzato, come talvolta è stato fatto, il potenziale liberatorio delle religioni dell’Atlantico, che, dato il contesto storico aprivano spazi liberi da gerarchie ed esclusioni (Nota 3).
Nota 3 A farci desistere dallo scadere in un primitivismo romantico sono il divieto di accesso per le donne al particolare sacerdozio di Ifá, divinità preposta alla divinazione, la proibizione a sacrificare gli animali a quattro zampe per le donne non ancora in menopausa.
È certo tuttavia che fin da subito uomini queer riescono a ricavarsi uno spazio per sé, liberi dai divieti rivolti alle donne.
Il candomblé, recetto di afro discendenti reietti, si pone precocemente come uno spazio di accettazione di tutte le differenze, di accoglienza dei marginali e degli esclusi, come gli omosessuali. Qui all’interno del terreiro, non solo ci si sente protetti, ma c’è addirittura lo spazio per esprimere creatività, fantasia, gusto estetico, attitudine per la performance, abilità artistiche, pulsioni affettive.
Il candomblé va inteso pertanto come uno spazio tollerante in un contesto tendenzialmente intollerante sessista, maschilista, fallocentrico.
Peraltro, secondo l’immaginario collettivo occidentale in un mondo come quello della diaspora – le “Americhe nere” dei primi del Novecento, appena terminata la schiavitù – l’omosessualità veniva ampiamente praticata. Inutile dire che questa visione si scontra con un’altra idea, fossilizzata e resistente, che vede l’ambiente degli africani permeato di potenza, sessualità fortemente eterosessuale e copiosamente riproduttiva.
Logico che, almeno fino a un certo periodo, gli anni Sessanta-Settanta del Novecento, il candomblé fosse l’unico rifugio. Candomblé che: <<Unisce i santi ai peccatori, il macchiato al limpido, il brutto al bello>> (Strongman cit. p. 60).
L’argomento è delicato e, come è facile immaginare, pochi studiosi si sono accostati al tema con attenzione. Come ebbe a dirmi Hédio Silva Jr., avvocato ed ex Segretario di Giustizia dello stato di São Paulo (2005-2006), l’immagine di un candomblé come religione di omosessuali scaturisce da un pregiudizio. In realtàil numero di omosessuali che partecipano al culto è pressappoco la stessa che esiste in altri gruppi: sacerdoti cattolici, diplomatici, avvocati, ecc…
Come rivela Reginaldo Prandi, <<L’omosessuale, soprattutto uomo, è stato sempre obbligato a pubblicizzare la propria intimità come unico mezzo per incontrare il partner>> (2022, p. 59). In altre parole, << (… ) per essere omosessuale era mostrarsi omosessuale>> (idem).
Del resto, qualora vi fosse qualcuno che esponesse la necessità di un censimento che fotografi perfettamente la situazione, confesserei la mia perplessità, per il rispetto della privacy oltre che per la opacità di certi confini.
Comunque sia, l’associazione tra campo religioso afro e la sessualità costituisce un riferimento di uso corrente, oggetto permanente di discussioni, seppur raramente di ricerca socio-antropologica.
Nel pantheon del candomblé esistono divinità dotate di forza ed energia che possono essere manipolate per costruire o per distruggere; si tratta di divinità che possono essere maschili o femminili, ma che contengono in sé anche il principio del sesso opposto. Questo spiegherebbe, tra l’altro, il fatto che la divisione sociale e sessuale del lavoro, pur esistendo, non è così rigida, ma piuttosto interdipendente.
Se esiste un codice di divisione del lavoro, questo non è ricordato per stabilire i contorni di un conflitto tra i sessi, quanto per preservare la tradizione e l’anzianità di iniziazione. Una donna nel periodo del ciclo, ad esempio, non potrà toccare alcuni oggetti sacri, così come alcuni uomini non potranno mai conoscere i segreti di alcune funzioni femminili. È importante comunque sottolineare come le funzioni maschili e femminili si completino, e che è impossibile pensarle avulse dalle altre: una reciprocità fondamentale per la struttura del sistema mitico e sociale del candomblé.
In questo contesto, e anche in questo caso fino a una certa epoca, <<La possessione agisce come metafora sessuale, con la cerimonia religiosa presentata come evento orgiastico>> (Strongman cit., p. 128).
Significativo il campo terminologico: il termine iawõ in yoruba antico significherebbe “moglie”, e in un certo senso “femminilizza” le persone iniziate, mascolinizzando al contempo le divinità impegnate nell’atto di cavalcare, montare, in-corporare.
La trance crea interazione, è indispensabile alla realizzazione completa del culto: chi sente l’attrazione verso queste entità divine, come potrà mai sottrarsi alla fascinazione, a prescindere dalle sue attitudini sessuali?
Il comportamento dei posseduti è sicuramente non convenzionale, se non per la comunità dei partecipanti, soprattutto se si tratta di emulare i tratti mitici di divinità femminili, sensuali, allusive, sinuose; in alcuni casi può assecondare atteggiamenti tipici dell’omosessualità, in altri, come pensa qualcuno, persino indurla, in altri ancora è semplicemente considerato un momento performativo necessario, che non necessariamente costituisce una dichiarazione di appartenenza a un genere.
Dall’isteria all’accoglienza
Interessante è capire come si siano orientati gli studi nel corso degli anni.
Fino alla metà del Novecento, inevitabilmente visto l’epoca in cui predominavano visioni positivistiche e fortemente connotate sul concetto di “razza” e sulle opposizioni binarie, l’omosessualità era percepita come vizio e degenerazione sociale. Argomento forte e diciamo così facilmente associabile agli altri stigma invocati per demonizzare il culto e i luoghi dove avvenivano i rituali: superstizione pagana se non diabolica, “antri” di perdizione, violenza, sottosviluppo mentale.
Gli africani, presentati come libidinosi e sessualmente degenerati anche durante rituali religiosi, sarebbero << (… ) Bestie intersessuali, incapaci di discernere le emozioni e comportamenti da tenere secondo i modelli della decenza che separano il religioso dell’erotico>> (Strongman cit., p. 128). Insomma, collegare possessione all’epilessia significa considerare le persone africane come parte di una cultura malata.
Fin da subito lo stato di trance, momento imprescindibile e come vedremo limite immaginato per la distinzione di genere, venne associato a sintomi di carattere psicopatico, dal momento che riproduce a grandi linee il quadro clinico dell’attacco isterico.
Raimundo Nina Rodrigues, medico mulatto baiano, lo associò all’isteria, distraendo i lettori e parlando del: << Basso sviluppo intellettuale del negro primitivo>>. Un’affermazione, oltre che razzista, poco preveggente: a cavallo dei secoli XIX e XX si osservava una realtà peculiare e contingente, oggi è nettamente cambiata. Non ci sono più soltanto neri, ex schiavi o discendenti di schiavi a cadere in trance, e neppure soltanto poveri e derelitti.
Si tratta dell’ennesimo equivoco che scaturisce dalla mancanza di empatia quando i parametri occidentali – binari, cartesiani, oppositivi – si scontrano con altre visioni del corpo, del genere, dell’universo. La nozione di corpo ad esempio, risulta assai differente rispetto ai nostri canoni e i concetti di razza e sessualità intrecciati e interconnessi. In questo contesto, femminile e maschile non sono oppositivi ed escludenti, ma complementari. Senz’altro questa è una delle ragioni, se non la principale, che attrae persone che possiedono un comportamento di genere diverso rispetto al canone oppositivo, che associa inequivocabilmente il maschio al genere maschile e la femmina a quello femminile.
Del resto, allora erano tutti afrodiscendenti tanti i sacerdoti quanto i fedeli. I sacerdoti maschi – allora una netta minoranza se è vero che Ruth Landes, nel 1947 scrisse The city of Women riferendosi proprio a Bahia e al suo culto – sarebbero usurpatori della femminilità. La schiavitù aveva completamente distrutto e smembrato non soltanto la famiglia africana, ma lo stesso concetto, alterando e rivoluzionando ruoli e gerarchie.
Tanto durante la schiavitù, tanto quando questa è abolita nel 1888, era la donna che aveva più possibilità di ascesa sociale, proponendosi nei ruoli di cuoca, domestica, balia, venditrice, mentre l’uomo veniva totalmente privato di fiducia, autostima, status sociale, ai margini com’era del mercato del lavoro, discriminato per il suo colore, oltre che per la sua miseria, totalmente incapace, perché impossibilitato, di mantenere il proprio gruppo familiare.
L’importanza della donna nel rituale delle religioni di derivazione africana ha quindi motivi storici: a lei spetta la responsabilità di trovare alternative per la sopravvivenza della famiglia, e per mantenerne l’unità e coesione, nonché per preservare le tradizioni, in particolare quelle religiose. Ma <<La discendenza>>, come dice lo scrittore nigeriano Teju Cole <<E’ una foresta di sentieri che si biforcano>> (2023, p. 64).
Durante e subito dopo la schiavitù, nonostante le difficoltà, le donne afrodiscendenti seppero allevare i propri figli, quelli dei padroni, e anche quelli “de santo”, cantando, danzando e cucinando per gli dei africani. Nel candomblé queste signore colsero l’opportunità di realizzarsi religiosamente, politicamente e socialmente, mischiando fatalmente e in maniera eccezionalmente feconda, i campi del sacro e del profano.
E persino con qualche opportunità in più: nel mondo profano le mansioni del cucinare e delle attività domestiche sono considerati ruoli umili e inferiori, nel candomblé queste assumono un valore importantissimo. Sono privilegi che non spettano a tutti.
Danzare per le divinità è considerato un atto femminile, ed è comunque un atto di sottomissione, di possesso quasi “sessualizzato” e di dominazione, di qualunque sesso sia l’orixá protagonista. (Lody 2006, p. 142).
L’apertura metaforica gay, nel sesso come nella trance, <<Li rende ricettivi per natura>> (Strongman cit., p. 156).
Tuttavia, a ennesima dimostrazione della complementarità che vige nel terreiro, perché la danza si possa effettuare, occorrono non solo equedes ma anche gli uomini, ovvero gli ogãs, di cui parleremo più avanti. (Nota 4)
Nota 4 Le equedes sono sacerdotesse particolari, di fatto le collaboratrici più strette del capo religioso: quando anche il pai o la mãe-de-santo entrano in trance, insieme agli ogãs rimangono a garantire la continuità e il buon andamento dei rituali.
I movimenti della danza – linguaggio universale e non traducibile in parole – “descrivono” i tratti mitici dell’orixá, ne rappresentano identità e gusti, regni (le onde del mare, ad esempio, per Iemanjá), tratti biografici.
Tuttavia, la valorizzazione della donna non implica la dominazione sugli uomini. Vediamo anche in questo caso che la cosmovisione del candomblé contrasta con quella occidentale, sia perché valorizza la dimensione politica e sociale, oltre che religiosa, sia perché è ben lontana dal binarismo uomo-donna, favorendo valori collettivi, integrazionisti, accoglienti, non escludenti. Si viene a formare così un microcosmo che nonostante la retorica delle radici è lontana dalla struttura strettamente gerarchica dei regni africani quanto dalla società bianca e occidentalizzata, proto-capitalistica del Brasile dei primi decenni del Novecento.
Questa sorta di “culto del matriarcato”, con una donna, madre e padrona della casa a costituire un modello dominante, e di fatto fondante per la comunità afro-brasiliana, si presume fosse anche fin troppo ingombrante e condizionante.
In questi orientamenti che vedono il culto colorato ineluttabilmente di femminile si riscontrano due rischi: creare un cliché insolitamente rigido, secondo il quale tutti gli uomini che cadono in trance, ovvero sono “posseduti” dalla divinità siano adés, termine che nel culto designa gli omosessuali passivi. (Nota 5)
Nota 5 In questo caso l’attuale predominanza (o comunque la parità numerica), di uomini a capo dei terreiros sarebbe un’eccezione, un’infrazione alla regola; e sarebbe un’altra trappola del determinismo attribuire alla donna capacità, sensibilità, affabilità, empatia superiori a quelle degli uomini etero.
Edison Carneiro, altro studioso dell’epoca, sottolinea come il candomblé, che richiede abilità specifiche nella danza, sia fatto per uomini anormali (1947). Effetto dei tempi.
Anche un sociologo eminente come Roger Bastide considera il desiderio omosessuale una patologia associata al fallimento, a una sorta di compensazione per gli insuccessi nell’amore etero (2001). Da qui il desiderio di far parte di quelle comunità – i centri di candomblé – di sole donne. Secondo René Ribeiro, che non riesce a nascondere un’omofobia certamente diffusa, i maschi che frequentano i candomblé sarebbero persone sessualmente disadattate che possono aderire a gruppi di culto per molte ragioni, tra le quali la compagnia femminile, la necessità di esibire le loro stravaganze o identificarsi con le divinità femminili in gruppi guidati di omosessuali o da uomini e donne severe (in Strongman cit., p. 203). Gli uomini che frequentano i terreiros vengono definiti disadattati ed esibizionisti che amano stare con le donne perché vogliono identificarsi come tali. Per quanto severe e frettolose, queste prime disamine lasciano comunque trapelare un fatto: che il centro di culto è comunque un contesto nel quale gli omosessuali si trovano a loro agio.
È ben chiaro tra gli adepti del culto come il sesso possa essere anche una scelta, un’inclinazione che coglie un determinato punto dello spettro di genere che va dal maschile al femminile. Gli orixás, che interpretano alla perfezione questa vastità di opzione, capiscono benissimo le inclinazioni dei loro fedeli.
Fin da subito appare chiaro come la presenza di divinità femminili, maschili e contenenti i due principi, come Oxumarê, entità nelle quali uomini e donne possono riconoscersi indifferentemente è un presupposto fondamentale, tipico, esclusivo di un culto, che a differenza di molti altri non solo prevede il sacerdozio femminile, ma non discrimina nessun appartenente alla comunità queer. E come un orixás quale Exu problematizzi la dualità sessuale: è il signore dei confini, della trasgressività, della ridiscussione del principio tra bene e male e della eteronormatività: in altre parole illustra bene come il sistema di genere che opera nel candomblé è diverso da quello binario occidentale. Il corpo diventa un recipiente aperto, pronto a ricevere e accogliere. Accogliere sotto vari punti di vista: ancora negli anni Sessanta, in un’epoca in cui ben poche leggi nazionali nel mondo proteggevano le persone queer, viene raccontata la storia di una comunità afro-religiosa che le accoglie e le protegge. Il candomblé predica la piena inclusione, in aperto contrasto con un’immagine mediatica che contrappone la gente nera omofoba alla borghesia bianca illuminata (Nota 6).
Nota 6 Fino agli anni Sessanta, e per la verità ancora oggi, una vasta parte dell’opinione pubblica brasiliana – molti esponenti delle religioni evangeliche, molti seguaci di Bolsonaro – ritiene i culti sincretici di origine africana come mere superstizione di feticisti arretrati mentalmente e geneticamente inferiori. Guarda caso, di “razza” nera.
Tanti maschi appartenenti alle classi inferiori, cresciuti in quelle famiglie di madri sole, dispotiche e padri negligenti, depressi, quando non totalmente assenti, erano destinati, secondo questa interpretazione, a mostrare dipendenza materna, introversione e immaturità, egocentrismo, esibizionismo, narcisismo, sensi di colpa, sospetti e timidezza (in Strongman, p. 204). Insomma, questi uomini manifesterebbero una grave difficoltà a relazionarsi con l’immagine femminile, una crescita emotiva mancata, uno sviluppo psicologico interrotto. Non c’è dubbio che questa interpretazione ha l’effetto di “patologizzare” il candomblé come culto di persone disadattate, psicologicamente incompetenti e reietti sociali.
Per fortuna, con il passare del tempo, la preponderanza delle persone queer si svuota di problematicità, e viene presentata come un fatto, senza la necessità impellente di giudizio o analisi. Data l’omofobia della società brasiliana, questa manifestazione di libertà di espressione viene presentata come un fattore positivo. La stessa idea che il terreiro possa configurarsi come luogo di scambio sessuale non viene presentata come scandalosa, ma come un’opportunità offerta a una comunità.
Il gruppo di candomblé, formata da padri, madri, figli, fratelli, nipoti permette a chiunque, e quindi anche alle persone omosessuali, di investire in relazioni che si pongono al di fuori dei vincoli della famiglia etero normativa. (Nota 7)
Non avendo obblighi familiari strictu sensu, o comunque mantenendo legami molto labili, alcuni dei fedeli possono investire tutte le loro energie nelle relazioni sociali previste dal contesto religioso. I maschi omosessuali hanno il vantaggio di poter trascendere i ruoli di genere e assumere quelli maschili e femminili, chi li osserva può crogiolarsi nello stereotipo che assegna loro un’attitudine artistica, e un gusto, superiori a quello degli uomini etero e addirittura di molte donne.
Nota 7 Ogni gruppo fa riferimento alla familia de santo, con tanto di pais, mães, filhos, irmãos, netos (padri, madri, figli, fratelli, nipoti).
Diversi i compiti, diversi i destini
Come detto, al centro del culto del candomblé vi è la possessione, che attraverso la trance permette l’interconnessione tra mondo terreno e sfera sacra: una riproposizione della nozione di persona. Inevitabile, anche per la proposta linguistica – “possessione, “cavalcare”, “penetrare”, “sposa” – l’assimilazione logica alla sfera femminile, il doppio senso sessuale. Lo stato di trance, o meglio la possibilità concessa a certe categorie di “cedere” alla possessione, descrive il discrimine forse più netto e insuperabile all’interno del sistema del candomblé.
In ogni caso la possessione funge da operatore di differenze: coloro che cadono in trance entrano automaticamente in un mondo “al femminile”. Si tratta tuttavia di una femminilità diversa rispetto alle giovani filhas de santo, chiamate iâo.
Superata, almeno per i più, la discussione sulla devianza, ecco che a partire dalle ricerche di Patricia Birman, la possessione diventa un importante elemento nell’operazione di distinzione di genere, forgiando nuovi stili e microgruppi.
Secondo vari studiosi, possiamo identificare quattro categorie: “[…] uomo (cui piacciono le donne); adé/adéfontó (uomo cui piacciono gli uomini) […]; donna (che ama gli uomini); monokó o mona do aló (donna cui piacciono le donne)”. Si potrebbe aggiungere una quinta categoria, quella del bisessuale (uomo cui piacciono tanto le donne quanto gli uomini), anche se ancora una volta non favorirei questa insistenza classificatoria, che si scontra con una realtà per la verità piuttosto fluida e contradditoria (Amim, 2018, p. 122). La Birman sottolinea come: <<Al contrario degli adés, che costituiscono un’identità di genere positiva, le monokos “soffrono” di un’identità che è marcatamente negativa..>>” (1995, p. 126) (Nota 8).
Nota 8 Delle donne omosessuali comunque, meno si parla. Le donne sono donne, anche se hanno tendenza omoerotiche. La loro posizione non pare alterata in questo spazio, né si differenzia sostanzialmente dalle espressioni presenti nella società globale. Sono la maggior parte, numericamente parlando, e occupano posti importanti e necessari, ma in un certo modo non hanno questa visibilità, specialmente quando entrano in gioco elementi della sessualità. Quando compariamo l’universo maschile e quello femminile, vediamo una pluralità di organizzazioni costituirsi per quanto riguarda il primo, è una specie di unità designata per il secondo. E questo è sicuramente curioso (cfr. Ribeiro Mesquita 2004, p. 104).
Confutabile anche l’idea che esista una stretta e necessaria relazione tra la sessualità mitica e quella umana, ovvero tra quella degli dei e i propri fedeli. Vero che molto spesso alcuni tratti del mito degli orixás (Nota 9) vengono usati per spiegare e giustificare gusti e attitudini sessuali dei fedeli, ma è pur vero il contrario, ovvero che un uomo etero può venire associato a una divinità femminile, così come può accadere l’esatto contrario. Inutile dire, agli occhi di chi non è avvezzo a questa varietà di opzioni, che gli accostamenti potranno apparire talvolta sospetti, soprattutto in presenza di un uomo percepito come “macho” che danza per un’orixá dai tratti molto femminili, ma non vorremmo cadere proprio in quella ansia classificatoria binaria che si sta cercando di destrutturare.
Nota 9 Cfr. Mitologia dos Orixás di Reginaldo Prandi (2014), la più completa raccolta di miti afro-brasiliani.
A proposito di sessualità mitica, anche gli orixás venerati in Brasile sono soggetti a una classificazione: aborôs (divinità maschili), iabás (entità femminili) e metá-metá (dei contemporaneamente maschi e femmine).
Nello specifico, sono aborôs: Oxalá, Xangô, Oxóssi, Ogun; iabás Oxum, Iemanjá, Iansã, Ewá, Obá, Nanã; metá: Oxumaré, che muta sesso ogni sei mesi, Ossaim e Logun Edé.
Esistono in ognuna delle divinità “qualità” che possono rovesciare stereotipi di comportamento: ad esempio Oxum, considerada la più femminile delle iabás, dolce e sentimentale com’è, nella qualità di Ye yê Karê, sposa di Ogum, l’orixá della guerra, è una Oxum particolarmente combattiva e pugnace, che impugna la spada e affronta la lotta.
Ecco l’escamotage che apre alla possibilità di ibridazione. E questa potenzialità trans-genere è espressa con drammaticità nel mito di Logun Edé, figlio incestuoso di Oxossi e Oxum, essere ibrido e in constante metamorfosi. È rappresentato un cavalluccio marino, ibrido acquatico il cui maschio conserva la prole nel ventre. Non si attiene ai limiti imposti dalla biologia e dalla società: vuole trasformarsi, pur dotato di pene, in iabá, per frequentare luoghi riservati alle donne che altrimenti gli sarebbero interdetti, ama i lavori domestici così come la caccia, che sarebbe lavoro da uomini.
Disordine e struttura
Il termine adé designa pertanto l’omosessuale passivo. (Nota 10)
La parola deve essere però più vista come un’espressione dialettale, un neologismo cherimanda a una categoria di genere prodotta dal sistema religioso, incomprensibile al di fuori del contesto.
Nota 10 All’interno della comunità del candomblé c’è chi suggerisce di non usare il termine adé proprio perché troppo stringente e classificatorio.
L’adé diventa una parte necessaria e strutturale, una nuova categoria di genere ben più importante e, per così dire nobilitata, rispetto a quella considerata dai primi studiosi. L’omosessuale passivo che incorpora assume un ruolo positivo, strutturante nel campo delle rappresentazioni dell’universo religioso afrobrasiliano, diventando una parte costitutiva e imprescindibile del capitale simbolico del terreiro. Lungi dall’essere derisi e discriminati, gli adés diventano i rappresentanti di un genere distinto, che gode del raro privilegio (per gli uomini) di cadere in trance, ovvero della comunione con gli dei. Integrati, necessari alla dinamica del gruppo: un rovesciamento netto rispetto al paradigma che li avrebbe visti, se non esclusi, certamente discriminati.
L’aspetto che caratterizza in maniera netta gli orixás e ne fa celebrare anche l’estetica è la maniera di danzare, differente, esplicita, significativa. Logico che le performance e gli stili di divinità femminili quali sono Nanã Buruku, Oxum, Iemanjá, risultino particolarmente distinguibili, sensuali e allusive come sono. Peraltro, orixás “metá-metá” come Oxumaré e Logunedé, permettono ai seguaci di trovare un logico e coerente quadro espressivo e concedono alla platea la possibilità di un’estesa gamma di interpretazione (Amim cit. p. 122).
La trance permette pertanto la possibilità di rendere “flessibile” l’esperienza di genere in contrapposizione al sesso biologico, ora in un’approssimazione evidente rispetto a quella che è l’esperienza del quotidiano, ora in opposizione al comportamento nella vita di tutti i giorni. Il dramma della trance, grazie a questa possibilità di interpretazione “aperta”, diventa così l’occasione per permettere la libera espressione del proprio status e della propria volontà.
In un continuum difficilmente comprensibile agli occidentali, mascolinità e femminilità, vittoria e sconfitta, passività e azione, positività e negatività, permissività e intolleranza fanno parte del bagaglio di conoscenza delle divinità, del proprio ruolo di fedele, della propria vita.
Il fatto che, fino agli Novanta del Novecento, la trasmissione del sapere avvenisse in maniera esclusivamente orale, ha creato i presupposti perché ogni candomblé, se non ogni fedele singolo, agisse in (quasi) totale libertà.
Non è quindi il candomblé a favorire, o addirittura a “creare” l’omosessualità; offre piuttosto, un ambiente e una lingua favorevole, modalità d’espressione e possibilità inaspettate.
Esiste quindi un’interpretazione chiaramente funzionale, che descrive la realtà, giustificandola in termini essenzialmente pragmatici, che giustifica l’irrazionalità di certi comportamenti.
Un recente orientamento di studi valorizza l’aspetto ludico come rilevante nell’interpretazione dei dati antropologici (Nota 11). All’interno del gruppo, al di là dell’estrema serietà e devozione richieste per lo svolgimento dei rituali, non è raro assistere a disinvolti scambi di scherzi e prese in giro da parte degli appartenenti alla famiglia. Il pettegolezzo, soprattutto in ambito sessuale, non solo è tollerato, ma addirittura favorito da una sorta di esaltazione dell’informalità. Se non si scherza in famiglia, in quale altro luogo sarà possibile farlo?
Nota 11 Vedi ad esempio D. Le Breton (2019).
In ogni caso, nel linguaggio segreto del culto sembra esserci un’ipervalorizzazione della sessualità: la si riscontra nei gesti, nelle parole, nelle posture corporali e negli atteggiamenti durante le feste nonché nella netta divisione di ruoli nell’organizzazione sociale del terreiro.
Per la Birman: <<L’omosessualità del candomblé si presenterebbe in funzione di una liberalità, una maggiore permissività presente tra i suoi praticanti, il che avrebbe consentito l’emergere di questi elementi devianti rispetto al comportamento sessuale normale. In altri termini il candomblé offrirebbe una cornice culturale adeguata per qualunque azione. La relazione tra l’omosessualità e il candomblé sarebbe nell’ordine di una totale esteriorità e niente più…>> (1995, p. 71).
È evidente che per un uomo filho di Iansã potrebbe risultare più semplice assumere atteggiamenti femminile, così come una donna posseduta da un aborô potrà far leva su questa associazione per giustificare i propri gusti rivolti alle donne. Se si è figli di Logunedé o di Oxumarê, nessuno può commentare, né avere troppi dubbi. È per questo che ogni veado’ o sapatão vorrà appartenere a Logunedéo a Oxumarê (Nota 12).
Nota 12 Veado e sapatão sono i termini colloquiali, se non volgari, con i quali vengono indicati gli omossessuali rispettivamente maschili e femminili.
A questo proposito la già citata Ruth Landes (in Birman, 1995, p. 68) parla dell’esistenza di un ruolo femminile disponibile, che può essere assunto da uomini identificati come donne sul piano sociale. Gli oppositori di questa tesi sostengono che, in realtà, non vi è nessun ruolo femminile occupato da omosessuali, ma un ruolo neutro che può essere svolto tanto da uomini quanto da donne. Esiste, corroborata da alcune evidenze storiche, un’altra tesi ancora: vi sarebbe, nell’origine africana del candomblé, un ruolo maschile che a poco a poco fu, per le note ragioni storiche ed economiche, occupato dalle donne. Queste diverse interpretazioni potrebbero portare a concludere che la divisione dei ruoli secondo il sesso non sia pensata come significativa.
All’interno di un candomblè esistono comunque alcuni tabù, determinati per lo più dal grado di iniziazione e quindi dalla carica che si ricopre, ma anche, almeno pregiudizialmente, dal sesso biologico. Ad esempio un uomo può preparare l’ambiente dove si svolgerà la festa pubblica, cucinare le offerte soltanto in assenza di una donna (cosa peraltro molto rara). Il fatto è, come detto, che gli orixás ammettono la variabilità, in quanto è la loro stesso mitologia a trasmetterla.
Gli ogãs (uomini etero)e le equedes (donne)non devono assolutamente cadere in trance. Questa è una delle pochissime regole ferree che non ammettono deleghe. Si tratta di due categorie importantissime per lo svolgimento del culto.
Durante la trance le equedes si occupano degli orixás, o meglio, per noi “razionalisti”, dei fedeli posseduti, e questo è un atto che presuppone molta responsabilità: spetta a loro far tornare gli dei all’Orum, nel mondo ultraterreno e fare in modo che, risvegliandosi dalla trance, il filho-de-santo non soffra.
Esistono varie tipologie di ogã. Tra queste si segnalano quella di difensore di quei terreiros che subirono la persecuzione compiuta dalla polizia nel ventennio che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta del Novecento. La presenza di una personalità ben vista in società – scrittori come Jorge Amado, giornalisti, politici – garantiva l’immunità. Esaurito questo compito gli ogãs restano come figure di assoluto prestigio in un “mercato religioso” assai competitivo e anche come trait-d’union tra il mondo popolare del candomblé e quello colto e più evoluto della società brasiliana moderna.
Vi sono poi alabês, i suonatori delle percussioni chiamate atabaques: se cadessero in trance regnerebbe il caos, mentre invece le cerimonie procedono sotto un ordine riconoscibile, che chiama in causa ordinatamente le divinità, da Exu a Oxalá. Infine vi sono gli axogums, coloro che compiono i sacrifici di animali, ruolo centrale e come è possibile immaginare, molto delicato e criticato.
Comunque sia, l’ogã non manifesta gusti femminili, è molto rispettato e onorato per il ruolo di avocare gli orixás con il suono degli atabaques, offrire loro sacrifici, svolgere le funzioni di… addetto alla comunicazione.
Gli ogãs sono quindi uomini “in vista” – giornalisti, politici, accademici, uomini d’affari, scrittori – che proteggono il terreiro, ne accrescono il prestigio, ne promuovono le attività e ne sostentano le finanze. Come mi disse – e scrisse – il mio caro amico e pai de santo Armando Vallado: <<Devono essere uomini forti, virili, disponibili, dinamici, abili, soprattutto eterossessuali>> (Vallado 2010, p. 37). A onor del vero, secondo la mia esperienza, persino questo dato può essere disatteso, in quanto durante le mie ricerche mi è capitato di incontrare più di un ogã omosessuale.
Il fatto che non cadano in trance permette comunque una definizione soddisfacente, seppur parziale, di genere, un discrimine che permette di opporre i poli maschili e femminili. In sintesi il maschile diventa il polo che esclude la possessione, mentre il polo opposto, quello che riceve la possessione, non va definito necessariamente come femminile, in quanto lo spazio può essere occupato da donne, omossessuali, da filhos de santo eterosessuali.
Quindi soltanto gli uomini posso “sacrificare”, suonare le percussioni e officiare i particolari rituali rivolti agli egunguns (gli ancestrali); e soltanto le donne danzano, badano alla cucina sacra e venerano le iamis (le streghe sacre); al di là delle eventuali trasgressioni, questa divisione determina la presenza contemporanea di uomini e donne affinché si possano svolgere i rituali all’interno del terreiro.
Di certo, vale la pena ribadirlo, la relazione tra fedeli e divinità è una costruzione estremamente delicata, e la possessione rovescia un ipotetico ordine precostituito: gli dei “scendono” nel nostro corpo, in una dimensione “dionisiaca”, sconosciuta ad esempio ai cattolici adusi a favorire interiorità, rituali sussurrati, decoro.
Il carattere “femminile” della possessione degli adés, costituirebbe una dimensione trasgressiva certamente inopportuna, o per lo meno scandalosa al di fuori del contesto.
Comunque sia, la categoria degli adés risulta piuttosto amata all’interno del centro di culto; tutti ammirano le loro performances, e fanno riferimento all’imprescindibile loro presenza a ogni festa per animarla. Gli adés incarnano il gusto della trasgressione, e come tutti i “liminali” creano attenzione o disgusto, godono di privilegi, ma anche di divieti e tabu. È per questo che l’adé, in quanto tale, non diventerà mai un pai de santo. Se un omosessuale otterrà la carica di pai de santo, lo farà grazie a percorsi e seguendo una logica del tutto differente. In pratica, mascherando la propria identità sessuale.
In sintesi si potrebbe dire che gli uomini appartenenti alla categoria degli adés possono cadere in trance; che i miti, soprattutto quelli riferiti alle metás, giustificano la varietà e la fluidità dei comportamenti; che questa vasta gamma di opzioni offerta dal candomblé attenua il dramma personale di chi intraprende un percorso doloroso per risolvere il problema della definizione del proprio genere; che l’ogã, almeno programmaticamente è un uomo che non fa trasparire atteggiamenti femminili.
Pur ammettendo che esista la giustificazione per ogni rappresentazione e autorappresentazione della propria sessualità, essere posseduti da entità femminili – Iansa, Iemanjá – fornisce ad esempio la possibilità concreta di dare libero sfogo alle proprie tendenze nascoste e di trovare il coraggio di togliersi la maschera ipocrita che la società civile costringe a indossare. In nessuna ricerca, tantomeno in nessun testo, l’equazione omossessuale-filho de santo è resa esplicita, automatica, incontestabile. Esiste sempre un jeitinho, una maniera, un escamotage per allentare la tensione. (Nota 13)
Nota 13 Il termine, molto usato nella lingua portoghese brasiliana si riferisce alla “modalità”, “maniera” con la quale si ottiene ciò che si desidera “aggirando” le difficoltà e talvolta le regole.
Come esiste, anche, un rovescio della medaglia: i maschi che vengono posseduti potrebbero soffrire per una supposta perdita di virilità. Non dimentichiamo che, nonostante la specificità brasiliana, la forte influenza dell’élite progressista e della leadership afro, ci troviamo in un ambiente, quello della società brasiliana, latina, cattolica, per lo più conservatore. Ma questo spiega almeno in parte, alcune resistenze che coinvolgono molti potenziali fedeli, non omosessuali, tentati dall’iniziazione ma restii a concedersi a questa palese evidenza. In questo senso la resistenza al richiamo degli orixás può essere letta e interpretata anche come una forma per mantenere intatta la propria mascolinità. (Nota 14)
Resiste un pregiudizio di fondo: ovvero che sia poco dignitoso cadere in trance e che quindi chi diventa filhos de santo rodantepossa essere percepito come omosessuale, e trattato con meno rispettabilità. (Nota 15)
Nota 14 Dopo anni di persecuzione da parte delle élites cattoliche, in questo scorcio di XXI secolo le religioni afro-brasiliane devono difendersi dall’attacco dei culti evangelici, particolarmente aggressivi.
Nota 15 “Ruotante”, da roda, ruota, ovvero capace di cadere in trance.
In altre parole segli adés risultano chiaramente riconoscibili, poiché sfruttano al massimo la visibilità sociale dei loro atteggiamenti, enfatizzando l’amore per i colori, le collane, i vestiti, la danza, individuare i gusti sessuali degli altri protagonisti potrebbe risultare oltremodo difficile.
Un mondo a parte
Si avvalora così l’impressione che la classificazione sia un’esigenza sentita più dai ricercatori occidentali che non dalla gente del culto, e in genere dagli stessi brasiliani. Per quanto ho potuto verificare durante le mie più che trentennali ricerche, il clima all’interno dei terreiros è in genere rilassato. Tutti i seguaci sono al corrente dei ruoli da onorare e delle attitudini di ognuno, comprese quelle sessuali. Come detto, può esistere tanto il pudore di chi non vorrebbe essere identificato con un’orixà femminile, quanto l’orgoglio e la gioia per questa assegnazione, ma questo in genere prescinde dagli orientamenti sessuali.
La corrispondenza con le divinità ha a che vedere con il carattere, l’indole e quell’insieme che definiremmo l’identità culturale dell’individuo e non con una deterministica imposizione basata sulla biologia. Non dimentichiamo che è il sacerdote a “interpretare”, durante la divinazione effettuata con le conchiglie sacre chiamate búzios a determinare l’associazione. Nonostante l’apparente femminilizzazione della trance, l’uomo iniziato non è un essere “sessualizzato”, ma un individuo che entra in una dimensione sacra.
La vita nel terreiro richiede una buona capacità di adattamento, un grande impegno per apprendere il rituale, un’attenzione particolare verso il cambiamento, proprio e degli altri, che si traduce in empatia, una fervida curiosità, e persino una buona dose di autoironia. E un ambiente attrattivo, non c’è che dire.
Per questo il candomblé non soltanto seduce, ma propizia l’avvicinamento degli omosessuali, che vengono a contatto con un territorio di sociabilità nel quale è possibile, riprendendo una famosa citazione di Patricia Birman: <<Proporre uno stile creando un genere>> (1995), ovvero accedere a un’esperienza religiosa unica ed esclusiva.
Certo ogni religione conta sulla presenza di fedeli omosessuali, ma fino a prova contraria non li accoglie serenamente come il candomblé.
Se finora questa opportunità, prevista dalla struttura è stata osteggiata, è tempo di valorizzare questa situazione che qualcuno, fantasioso o particolarmente polemico con il cattolicesimo ha definito “paradiso” delle minoranze sessuali. Il candomblé dimostra, in altre parole, la possibilità di abolire ogni forma di discriminazione e pregiudizio di carattere sessuale, oltre che sociale o razziale.
In questa full immersion nella sessualità dei candomblés ho cercato di illustrare come i candomblés si propongono come microcosmo capaci di riprodurre la società tradizionale africana, ma anche di rappresentare, pur con tante contraddizioni, la società globale, fluida, sempre in movimento e, come racconta l’Antropologia, “da interpretare”. In questo senso i terreiros non vanno rappresentati come isole di diversità, ma come l’emblema, magari inaspettato e irrepetibile in un altro contesto, di una nuova proposta di accoglienza.
Una lezione, l’ennesima, che ci viene da quel paese meraviglioso, multicolore e meticcio che è il Brasile.
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* Bruno Barba è Professore associato di Antropologia nel Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università di Genova