Sapere aude e diritto di conoscenza

La ricerca della verità e della conoscenza
è una delle più alte attività umane
anche se spesso ne menano più vanto quelli che meno vi partecipano
ALBERT EINSTEIN


Cosa distingue la vita di un gruppo di uomini da quella di un gregge di pecore? La domanda, che di per sé potrebbe suonare meramente provocatoria, vuole introdurre ad alcune riflessioni relative alla possibilità dell’essere umano di emanciparsi e di essere un soggetto libero, nel senso più ampio del termine, per mezzo della conoscenza. Conseguentemente, l’effettiva necessità e il dovere di rendere lo studio e la conoscenza elementi della vita comune accessibili a tutti.

Così, per tornare alla domanda con la quale si è aperta la presente argomentazione, se le pecore si raccolgono in greggi semplicemente per necessità di calore e protezione, la vita dei gruppi umani coinvolge, invece, interazioni culturali e intellettuali. L’esistenza del gruppo umano è caratterizzata da una qualità spirituale che manca in un gregge di pecore e, mentre quest’ultimo si stringe in una forma di aggregazione, gli esseri umani si uniscono in forme di associazione. In questo senso, un’associazione è qualcosa di abbastanza differente rispetto alla mera aggregazione. Gli esseri umani si associano per condividere idee ed esperienze, per raggiungere scopi comuni, per scambiare opinioni e scoperte, per instaurare un legame affettivo. Il valore della prossimità fisica e del contatto risiede nell’interconnessione di affezione, pensiero e azione che i primi rendono possibile.1
L’uomo conduce una vita associata che, in quanto tale, è costituita da aspetti materiali che non possono certo essere ignorati, tuttavia non si può non sottolineare quanto essi abbiano un valore di gran lunga meno importante rispetto all’educazione e al vivere insieme. L’educazione, peraltro, non si limita all’istruzione poiché ogni sfumatura della vita associata ha, in potenza, un’influenza educativa. Così, laddove vi sono una vita associata statica e un’interazione minima, vi è molto poco potenziale educativo. Per contro, una vita associata che promuove la comunicazione della conoscenza, del pensiero e delle emozioni fra le persone, ha un valore educativo decisamente accresciuto. Perciò, se la vita materiale di un uomo costituisce una valida preoccupazione per la società, lo sviluppo della vita spirituale di ogni individuo è molto più importante, perché è nella dimensione spirituale che individuiamo i valori ultimi della vita umana associata.2 Per i motivi suddetti, il diritto alla conoscenza come possibilità di sviluppare libertà di coscienza, così come le ragioni che rendono questi aspetti di così elevata importanza sono, ancora oggi, temi di grande attualità su cui risulta necessario interrogarsi.

Negli ultimi anni, in particolare, si è discusso della possibilità di sancire in sede ONU il diritto alla conoscenza come diritto umano fondamentale. In Italia, tra i primi soggetti interessati al perseguimento di tale obiettivo vi è stato il Partito Radicale. A tal proposito, durante un’intervista radiofonica trasmessa il 15 aprile 2019, al fine di sensibilizzare il proprio pubblico sull’importanza di un riconoscimento giuridico a livello internazionale di tale diritto umano, Radio Radicale ha dato voce a Salvatore Veca, docente di filosofia politica presso la Scuola Universitaria di Pavia, di cui è stato anche Prorettore.
In tale occasione, è stato messo in evidenza quanto il diritto alla conoscenza, in prospettiva come diritto umano fondamentale, sia l’eguale diritto che ciascun cittadino o cittadina, che ciascun essere umano, specifica il professor Veca, ha di disporre di capacità cognitive, cioè della capacità di padroneggiare tutto ciò che ha importanza e rilevanza per la vita collettiva dal punto di vista istituzionale, dal punto di vista legislativo, dal punto di vista delle pratiche sociali. In una società spaccata dalla disuguaglianza, Salvatore Veca aggiunge come si possa parlare di un aspetto ulteriore che, il più delle volte, viene messo a fuoco con difficoltà, ovvero una disuguaglianza definita epistemica. «Epistemica è esattamente la disuguaglianza; è cioè lo human divide, vale a dire l’ineguaglianza tra coloro che dispongono di informazioni, le possiedono e hanno conoscenza su come stanno le cose, e coloro che sono esclusi dall’accesso alla conoscenza».3 Nelle società democratiche occidentali è presente, tutt’oggi, una disuguaglianza assolutamente radicale tra chi ha e chi non ha, tra chi ha conoscenza e chi non ha conoscenza. Chi va sostenendo la necessità di riconoscere giuridicamente il diritto alla conoscenza come diritto umano fondamentale, afferma che ciò vuol dire «muovere dal fatto radicale dell’ingiustizia come distribuzione iniqua, ingiustificabile, del titolo della conoscenza e dell’esclusione dalla conoscenza».4
Sempre i Radicali, il 15 gennaio 2021, hanno promosso un appello nel corso del webinar Martin Luther King Day: dai diritti civili al diritto alla conoscenza, con il sostegno e la partecipazione di: Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, Fondazione Luigi Einaudi, Siracusa International Institute, Nessuno Tocchi Caino–Spes contra Spem, Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI).
Noi sottoscritti, convinti che non sia più rinviabile un’azione a tutela della democrazia, dei valori e dei diritti fondamentali che plasmeranno la società globale e digitale di un futuro ormai alle porte, avvertiamo la necessità di munire i cittadini con lo scudo del diritto e la spada della conoscenza affinché siano in grado di comprendere e valutare le opzioni e le decisioni prese in loro nome. Occorre far emergere e affermare quale diritto umano fondamentale di nuova generazione, il Diritto alla Conoscenza.5
Si ritiene qui doveroso e necessario, peraltro, sottolineare come il diritto alla conoscenza cui fa appello, in primis, in Italia, il Partito Radicale, sia un diritto che emerge in relazione alla rivoluzione tecnologica che l’individuo sta vivendo in questo nuovo millennio. Infatti, viene evidenziato come, le nuove tecnologie, dall’essere strumenti nelle nostre mani e al servizio della nostra volontà, e quindi anche strumenti di liberazione, facilmente possano diventare strumenti di fronte ai quali l’uomo si adatta, fino a subirli e a venirne schiacciato.

Se, da un lato, la conoscenza illimitata cui oggi l’individuo ha potenzialmente accesso grazie ad internet è una vera e propria “riserva d’oro”, dall’altro lato è reale il rischio di una conoscenza che cristallizza la società in una società di privilegiati.
Come affermato in più ambiti e da più voci autorevoli in campo filosofico, sociologico ed educativo, il diritto alla conoscenza si estrinseca anche, e soprattutto, attraverso il diritto ad avere un sistema educativo che fornisca strumenti di padroneggiamento della conoscenza. In tal senso, è doveroso sottolineare l’esistenza di una profonda relazione tra educazione e democrazia. L’educazione è fondamentale per la democrazia poiché la democrazia si basa sulla convinzione che il maggior numero di persone abbia il diritto, la capacità e la possibilità di imparare. Peraltro, non solo una società democratica dovrebbe offrire un’educazione quanto più possibile eguale e diffusa al proprio interno, ma dovrebbe pretendere che coloro i quali hanno avuto il privilegio di accedere ad un’istruzione adeguata si dedichino, nel corso della loro vita, al pubblico servizio e, allo stesso tempo, continuino ad imparare come hanno fatto a scuola. In altri termini, ogni persona verrebbe così chiamata a dare il proprio contributo alla propria società. L’educazione e l’istruzione, di fatto, veicolano conoscenza ed avere conoscenza significa essere messi nella condizione di poter prendere quanto più possibile coscienza di sé stessi e del mondo; infine, prendere coscienza di sé stessi e del mondo metterebbe nella condizione di sapere quanto il benessere di ognuno sia intimamente interconnesso con quello dei propri compagni e, da qui, sempre per quanto possibile, attivarsi in tale direzione.
La conoscenza e il sapere consentono all’individuo di disporre delle competenze e degli strumenti necessari per aprirsi a nuovi campi di opportunità, libertà ed espressione. È la cultura che rende possibile una tensione verso l’espansione di sistemi di senso delle persone e delle comunità. La cultura definisce anche l’identità della società stessa, permette alle persone di stare insieme e di identificarsi come soggetto unitario, nel riconoscimento e nel rispetto delle diversità. Rendere più accessibile la cultura, promuovere la conoscenza, offrire opportunità, spazi di dialogo e confronto tra le persone, significa aumentare la libertà dei cittadini e delle loro comunità, dando reale significato alla parola democrazia.6
Democrazia, nell’affrontare il tema della libertà derivante dal sapere, è una parola che non può mancare: dove non c’è democrazia, nei paesi soggetti a dittature, la scuola è tenuta poco in considerazione da chi possiede il potere oppure la utilizza come canale privilegiato per la propaganda e per l’indottrinamento di coloro che, fin dalla tenera età, rappresentano la futura generazione. Laddove vige un governo dittatoriale, ai cittadini vengono negate le libertà di pensiero e di espressione, dato che temono le conseguenze derivanti dal riconoscimento di tali libertà. Una dittatura esiste solo fintanto che è in grado di negare la libertà di parola, di pensiero, di stampa; al contrario, il godimento della libertà intellettuale determinerebbe il rovesciamento della dittatura. Quindi, si può sottolineare come la libertà intellettuale non sia solo indispensabile per una società democratica, ma costituisca anche la minaccia più grande e più temuta da un governo dittatoriale. Infatti, si può affermare come tale libertà sia condizione necessaria per il progresso umano. Il progresso della civiltà dipende, in larga parte, dalla libera comunicazione di conoscenza e pensiero e quando si combatte per la libertà intellettuale si sta, in primo luogo, combattendo per il progresso civile e sociale, oltre che per quello del singolo individuo.7
Nonostante tutto, ancora oggi, c’è chi sostiene come sia impossibile per un governo interferire con la libertà di pensiero delle persone, dato che pensare è un processo interiore di cui gli altri non possono venire a conoscenza. Ammettono, cioè, come i cittadini possano tollerare restrizioni alla propria libertà manifesta di espressione (di stampa, di discorso e di aggregazione), senza per questo subire una compromissione anche della libertà di pensiero. Ma, nel sostenere questa posizione, in realtà, si dimentica che il pensiero e la sua espressione sono due facce della stessa medaglia. Un’idea, infatti, è inutile se non può trovare forme attraverso le quali esprimersi e per l’individuo, pensare, ha poco o nulla di significativo se non è, insieme, accompagnato dall’opportunità di esprimere e condividere con gli altri la propria idea. In definitiva, le idee non possono essere organizzate senza venire espresse ed è scontato che esprimere le proprie idee sia parte integrante dell’avere pensieri propri.8
La conoscenza, dunque, rende liberi, non il lavoro, come invece tristemente scritto dai nazisti all’ingresso di Auschwitz. La libertà che nasce dalla conoscenza è una libertà interiore ed è, innanzitutto, libertà del dubbio: più si conosce e più ci si accorge di non sapere, perché la cultura è sinonimo di curiosità, ma anche di critica e di capacità di analisi. È quanto affermava, più di duemila anni fa, il padre della filosofia Socrate. Quest’ultimo identificava la virtù con il sapere, un sapere basato sul dubbio, sulla critica e sulla domanda riguardo alla natura delle cose, cose date invece per certe dagli Ateniesi. Una ricerca di verità, quella socratica, che si conclude quasi sistematicamente con la caduta e l’abbandono delle false convinzioni, tanto da arrivare alla celebre affermazione secondo cui: il più sapiente di tutti è proprio colui che sa di non sapere. Socrate dedicò, in tal senso, tutta la sua vita a rendere consapevoli gli uomini della propria ignoranza, spronando a conoscere se stessi attraverso la dialettica e la confutazione dell’opinione.
Senza però dover andare indietro di millenni, nella prima metà del Novecento, un pensatore che ha dato un enorme contributo sul tema relativo all’importanza della scuola, della conoscenza, dell’accesso diffuso alla cultura, è stato Antonio Gramsci, intellettuale non sempre riconosciuto in Italia nella sua ricchezza ed interezza. Essere citato non è sufficiente per affermare l’importanza e la notorietà di un autore; e questo vale, di certo, anche per Gramsci. Peraltro, l’eredità gramsciana è così vasta da correre l’effettivo rischio di tralasciare passi fondamentali del suo pensiero e di banalizzarne altri, dato il poco spazio di approfondimento qui a disposizione.
Prendendo comunque spunto da alcune affermazioni, relative alle teorie e metodologie pedagogiche, il pensatore sardo, in un arco di tempo che va dagli scritti giovanili ai Quaderni del carcere, introduce innovazioni concettuali riguardo il fondamento e l’importanza della cultura.
Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da riempire […]; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario […]. Questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. […]

La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio Io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. […]
Critica vuol dire cultura […], vuol dire appunto coscienza dell’Io. […] Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono gli altri, la loro storia […]. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito.9
Sempre Gramsci afferma: «Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, il nostro rapporto con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con gli altri esseri».10
Nei Quaderni del carcere sono presenti diverse sue note in merito al tema dell’educazione. Qui, ad esempio, Gramsci accusa l’università italiana di abbandonare gli studenti a se stessi e di essere incapace di andare incontro anche ai bisogni delle classi povere, così come sostiene che in Italia sia presente un modello di insegnamento incapace di essere per gli studenti un vero e proprio atto di liberazione, perché caratterizzato da una didattica nozionistica, che non ha nulla del metodo universitario e, in tal senso, risulterebbe falsamente democratico.
Fin dall’età giovanile, Gramsci dimostra interesse per le problematiche educative e per il ruolo centrale che l’istruzione poteva assumere nel riscatto dei gruppi marginali. Già durante la giovinezza, la sua idea di cultura è fortemente indirizzata verso il rifiuto di una concezione spontaneistica. La cultura è, appunto, «organizzazione e presa di possesso della propria personalità […] e non sapere enciclopedico in cui l’uomo […] è visto come un recipiente da riempire e stivare di dati empirici».11 L’intellettuale, secondo l’accezione gramsciana, coincide con il principio della formazione umana e il maestro, nel più ampio significato di insegnante, non è colui che impartisce nozioni, saperi e contenuti astratti, bensì colui che insegna ad interpretare la realtà sociale e a divenire cittadini autonomi. Più specificamente: maestro è colui che, rappresentando la coscienza critica della società, svolge un ruolo di mediazione tra la società e l’individuo in formazione. È, in altri termini, colui che è capace di collegare l’ambiente e l’educando. Gramsci, inoltre, era convinto che l’analfabetismo poteva essere debellato tramite l’approvazione di leggi e regolamenti istituzionali ad hoc. Ma non solo: anche la consapevolezza da parte dei cittadini dell’importanza della propria alfabetizzazione era considerata da Gramsci una reale necessità per il benessere sociale.
L’educazione e la sua centralità è, nel discorso gramsciano, uno dei fattori fondamentali e si pone come fatto ideologico e politico, ma anche, di certo, pedagogico. Contrario al modello di scuola creato dalla riforma gentiliana, perchè conservatrice della distinzione tra i vari tipi di scuola, una distinzione dovuta più a fattori sociali che non intellettuali, Gramsci propugna una scuola unica fino ad età adolescenziale, di formazione generale e non professionale, uguale per tutti, in cui i ragazzi avrebbero potuto e dovuto studiare seriamente, effettivamente e faticosamente. Quella gramsciana è una scuola umanistica, ma non nel senso classico, quanto piuttosto in una chiave nuova e moderna: è, infatti, un umanesimo che vuole promuovere la crescita e lo sviluppo delle future generazioni, immettendoli nella storia dell’uomo. Questo umanesimo sarebbe possibile solo grazie allo sviluppo di capacità intellettuali, pratiche e creative, tali da rendere l’individuo un cittadino autonomo, padrone di se stesso e delle proprie scelte, orientato nel mondo e in grado di agire sulla base di un’iniziativa personale.

Conoscenza fa rima con libertà, quindi.
Quando si vive all’interno di una società in cui la cultura non è appannaggio di pochi, ma è una meta raggiungibile per tutti e laddove è presente un sistema scolastico democratico che funziona, e che funziona bene, le persone vengono formate e, soprattutto, vengono abituate a conoscere, a dubitare, a farsi domande e ad essere curiosi durante tutto il corso della proprio vita. Questo permetterebbe all’uomo di avere maggiore consapevolezza di se stesso e dei propri limiti, di dubitare e di non dare per buono, a priori, ciò che viene scelto e deciso da altri all’interno della propria comunità. Diritto alla conoscenza significa essere messi nella condizione reale di elaborare una propria idea sul mondo circostante, di mettere e rimettere in discussione, per tutto il corso della propria esistenza, se stessi e l’ambiente in cui si vive; significa fare delle scelte, assumersi la responsabilità delle proprie idee e delle proprie posizioni sociali, politiche, lavorative. Avere accesso alla cultura, inoltre, significa poter comprendere i propri doveri nei confronti degli altri, come cittadino e cittadina e, di conseguenza, significa comprendere l’importanza che può avere il singolo e piccolo contributo del singolo individuo nel raggiungimento del bene comune.

Tornando ad Antonio Gramsci, a distanza di un secolo, le sue parole risuonano ancora oggi con la stessa forza e verità di allora: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza».
Qualche decennio dopo la lezione politica, educativa e morale di Gramsci, sempre nel nostro Paese, sarà, invece, un prete a testimoniare il profondo legame tra conoscenza e libertà, arrivando a teorizzare che il compito della scuola è quello di coltivare il diritto alla libertà di coscienza di ogni persona. Don Lorenzo Milani fu accusato e processato per apologia di reato tra il 1965 e il 1966, in quanto difese la scelta di molti giovani di disertare la leva militare, condannando la legge che a quel tempo la prevedeva, ed appellandosi alla Costituzione. Sia il contesto storico, così come le norme giuridiche che hanno portato al processo a Don Milani, non sono ad oggi più valide, essendo il servizio di leva obbligatorio decaduto da decenni. Eppure, le parole del prete di Barbiana sono di un’attualità bruciante; infatti, i motivi per cui fu accusato di apologia di reato parlano, da una parte, del valore della coscienza individuale e della legge, dall’altra, invece, della responsabilità del cittadino e del valore della disobbedienza di fronte ad ordini illegittimi. Le parole di dissenso di Don Milani prendono forza dal senso di responsabilità che il parroco ha nei confronti dei giovani che educa, i ragazzi della Scuola di Barbiana, ai cui occhi è un adulto credibile e appassionato, in altre parole, un Maestro: «In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservare quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate». L’educazione, secondo il prete, «è l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo del rasoio: da un lato formare in loro il senso di legalità, dall’altra la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico».12
Dopo aver elencato le atrocità commesse nel suo secolo, in virtù di una cieca obbedienza alle leggi, giustificata da un processo di deresponsabilizzazione che ha permesso a migliaia di uomini di compiere tali crimini nascondendosi dietro alla frase ho solo obbedito, il prete di Barbiana conclude la sua difesa con la frase diventata celebre: «C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole: avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è oramai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini e né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».13
Il lascito più prezioso della difesa di Don Milani consiste nell’individuare nella cultura della legalità e nel senso di responsabilità individuale ciò che permette di distinguere tra leggi buone e leggi cattive, tracciando, così, una differenza netta tra illegalità e libertà di coscienza: in un caso si trasgredisce la legge per ricavarne vantaggi individuali, mentre nel secondo caso si viola una legge di cui si ha coscienza che è ingiusta e per cui si è pronti a pagare personalmente il prezzo del dissenso, perché chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri.
Come Don Milani, ma in tempi molto più recenti, un altro intellettuale ha sostenuto il diritto alla parola contraria assumendosi la responsabilità delle sue opinioni in tribunale, in quanto accusato e processato per istigazione a delinquere, a causa di dichiarazioni rilasciate alla stampa. Nel Settembre 2013 Erri de Luca, intellettuale con un passato e una storia personale ben diversa da quella di Don Milani, è stato accusato di aver dichiarato all’«Huffington Post» che la TAV in Val di Susa andava sabotata. Il 19 Ottobre 2015 lo scrittore è stato assolto in virtù della libertà costituzionale garantita dall’articolo 21: <>. Interessanti sono alcuni passaggi della sua personale difesa, al pari di quella di Don Milani qualche decennio prima, in cui De Luca pone l’attenzione sul valore fondamentale della parola contraria espressa dall’intellettuale e sul suo ruolo educativo e politico: «La cui funzione è quella di rasentare i confini di un pensiero, fornendo così al lettore il perimetro dell’argomento. Chi invece asseconda l’opinione prevalente, l’intruppato al centro, toglie dal suo impasto il lievito e il sale». Erri de Luca, continua, sottolineando le responsabilità proprie dell’intellettuale: «Ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Tra i tutti comprendo in prima fila i muti, gli ammutoliti, i detenuti, i diffamati da organi d’informazione, gli analfabeti e chi, da nuovo residente, conosce poco e male la lingua».14

Se si sostiene, quindi, che il compito degli intellettuali e della scuola, in una società democratica, sia proprio quello di esercitare il diritto alla conoscenza e la conseguente libertà di coscienza, occorre che gli istituti e le agenzie educative si interroghino, come già affermavano Dewey e Gramsci all’inizio del secolo scorso, non tanto su come trasferire nozioni, quanto su come educare al pensiero, che per sua natura mette in discussione l’esistente e sfugge dalle briglie della cieca obbedienza.
Per arrivare ad una proposta educativa sistemica capace di porre al centro la stimolazione del pensiero critico, occorre aspettare il lascito del filosofo contemporaneo ed atipico Matthew Lipman, assente nei programmi dei licei e appena accennato nei percorsi universitari, insieme alla filosofa Ann M. Sharp. La proposta, denominata Philosophy for Children (P4C), è un progetto educativo rivolto a tutti coloro che, solitamente, non sono considerati i destinatari classici della filosofia, cioè i giovani adulti che vogliono accedere ai più alti gradi dell’istruzione e agli accademici. I soggetti qui privilegiati sono, invece, i bambini, a partire dalla scuola dell’infanzia, passando per i ragazzi frequentanti ogni scuola e contesto, fino ad arrivare alla comunità nel suo complesso (Philosophy for Community).
Si tratta di una metodologia di impronta socratica, ideata negli anni Settanta, che si pone come obiettivo principale di insegnare a pensare in modo autonomo in una relazione dialogica di condivisione con un gruppo cooperativo di riferimento, chiamato comunità di ricerca. La filosofia esce così dalle accademie e non è più ostaggio di una ristretta élite culturale, ma riacquisisce una sua valenza pratica e universale, in quanto ogni essere umano si pone domande sul mondo e ogni adulto è stato bambino; l’infanzia viene infatti vista come una fase della vita con una tendenza innata all’indagine filosofica, poiché è l’età della scoperta e della meraviglia, delle domande e del pensiero creativo.
La filosofia viene intesa così come pratica di ricerca di gruppo intorno ai campi dell’esperienza umana in grado di sviluppare le abilità di ragionare, di formare concetti, di indagarne il significato in modo fluido, creativo e originale, pensando ciò che ancora non si era pensato, valorizzando il dubbio, abitando la domanda senza l’ansia di dover fornire una risposta. L’errore è visto come necessario per procedere nell’indagine filosofica: è un’occasione per aprire spiragli e nuovi interrogativi, indagando territori del pensiero prima sconosciuti; tutto questo è reso possibile grazie al fatto che si è sempre in un processo di apprendimento dialogico con l’altro, e questo implica una costante rinegoziazione di significati, linguaggi e percorsi di pensiero dati prima per scontati, permette di andare oltre a risposte stereotipate e favorisce la costruzione di orizzonti condivisi.
Lipman parte proprio dalle considerazioni del saggio di John Dewey How We Think, pubblicato per la prima volta nel 1903, per mettere in discussione le pratiche pedagogiche “normali” ancora in uso a scuola, che spingono gli allievi ad imparare la soluzione, ovvero la risposta, anziché spingerli ad indagare il problema e affrontare la ricerca con i loro mezzi. L’educazione standard, anche quando pone domande, scrive Lipman: «lo fa senza che si provi quella minima sensazione di dubbio o smarrimento, senza che abbia luogo una vera attività di pensiero, perché il processo è meccanico e forzato». In questo contesto asettico, l’educazione e la scuola viene vissuta dagli stessi alunni come un biglietto per accedere al mercato del lavoro con qualche credenziale accettabile: «per gli studenti le conoscenze apprese a scuola non sono importanti per la vita, sono importanti per le prove che consentono di accedere alla vita. Una volta superata la prova, le conoscenze che essa richiedeva possono essere dimenticate senza provare maggior dispiacere di quando si getta via un bicchiere di carta».
Tutto questo deriva da un’idea di educazione volta a instillare conoscenze e al massimo ci si è interrogati su come migliorare la qualità di lavoro di trasmissione. Lipman vuole invece cambiare completamente paradigma e rivendica il diritto alla capacità di pensiero per l’infanzia, così come si riconosce il diritto all’educazione fisica o all’alfabetizzazione: «Non è chiaro se ai bambini si riconoscano diritti di pensiero, che non siano relativi ad abilità di lettura e scrittura accettabili, bensì a parametri che trascendano la mera accettabilità: la ragionevolezza, la capacità di giudizio, di immaginazione e di valutazione».15
Il filosofo sostiene quindi che nelle scuole si deve insegnare a coltivare il pensiero nelle sue tre dimensioni: pensiero critico, creativo e di caring. Il pensiero critico è inteso come percorso intellettuale finalizzato alla ragionevolezza argomentativa: la Philosophy for Children è prima di tutto una pratica di democrazia che permette di formare una futura cittadina o cittadino scevro da condizionamenti e capace di assumersi l’onere della scelta. D’altronde, già Platone vedeva nella filosofia il mezzo attraverso cui il giovane diventa un adulto degno di responsabilità. Il pensiero creativo ha origine dalla sorpresa e dalla meraviglia propri della filosofia e dell’infanzia: è un pensiero che stimola la produttività, l’immaginazione, l’originalità, e per questo si nutre di spontaneità e provocazione. Il pensiero caring implica invece la connotazione emotiva del pensare che significa sia pensare con premura all’oggetto o alla persona dei nostri pensieri, il caring about, sia implica occuparsi del proprio modo di pensare e del proprio stile cognitivo, e quindi sviluppa un approccio metacognitivo, il caring for.
A tal proposito, negli stessi anni in cui Lipman mette a punto la sua proposta filosofica-educativa, un altro pensatore, da tutt’altra latitudine e prospettiva, vince un premio Nobel per l’Economia riformulando il concetto di povertà e di benessere. Infatti, l’economista Amartya Sen ristrutturò il concetto di benessere e povertà con numerosi studi e pubblicazioni a partire dagli anni ‘80, definendo la povertà come deprivazione di capacità. La povertà è un fenomeno fluido e multidimensionale che consiste, oltre il dato economico, nella mancanza di opportunità e di prospettive: «La povertà non è solo mancanza di denaro», ha scritto Amartya Sen, «è non avere la capacità di realizzare il proprio pieno potenziale come persona».16
E’ quindi necessario che lo Stato costruisca e favorisca un sistema di opportunità, cioè di mezzi, che diano modo a ogni persona di esercitare effettivamente le proprie capacità, nel senso di poter concretamente fare o essere quello che si desidera fare o essere. Nel 2003, lo stesso anno in cui Lipman pubblica il volume sopracitato Thinking in Education e struttura la metodologia della Philosophy for Children, la filosofa Martha Nussbaum -ideatrice con Sen del concetto di capacitazioni- fonda la Human Development and Capability Association, realtà che ritiene compito dello Stato non tanto promuovere una visione di sviluppo del progresso umano rispetto al valore del PIL e del reddito pro capite, quanto quello di promuovere il benessere e la qualità della vita delle cittadine e dei cittadini mettendoli nelle condizioni di coltivare quelle capacità e quei funzionamenti, che li rendano in grado di essere soggetti attivi e critici nel mondo.
Nell’ultimo decennio la sociologia e la psicologia stanno conducendo numerose ricerche sul tema della povertà educativa, intesa come concetto multidimensionale, figlio degli studi della Nusbaumm e Sen; tali studi hanno evidenziato come, malgrado le evidenze scientifiche dei danni che questa provoca, in Europa e negli USA dal 2008, secondo i dati Eurostat, sia in crescita, e come questa arresti sul nascere talenti e aspirazioni, costringendo le persone a ridimensionare la portata dei propri sogni, se non a rinunciarvi in toto, segnando profondamente il loro presente e ipotecandone il futuro.17
Rispetto a ciò, sono molto esplicativi i risultati ottenuti dai questionari della ricerca psicologica su benessere e infanzia “International Survey of Children’s Well-being (ISCWeB) – Children’s Worlds” condotta dalla dott.sa Migliorni dell’Università di Genova; i questionari sono stati somministrati a 3701 bambine e bambini liguri tra gli 8 e i 12 anni. In tale ricerca si è indagato quali fossero gli aspetti materiali che incidessero di piú sul benessere dei bambini. I risultati hanno mostrato come i valori più alti di benessere fossero quelli collegati alla presenza in casa di libri dedicati alla lettura per piacere e divertimento: i bambini che dichiaravano di possedere e leggere libri, erano anche quelli che avevano dei valori di benessere più alti. Tale dato, se letto con la lente del costrutto di povertà educativa, ci suggerisce quanto sia fondamentale per il benessere dei bambini crescere in un contesto che stimoli la loro creatività e la loro cultura. Bambini senza favole, senza racconti, senza un contesto che stimoli le loro capacità intellettuali immaginifiche e trasformative sono esposti maggiormente a quella povertà educativa intesa anche come una carenza di strumenti del pensiero, che alimenta anche la povertà economica materiale, in un circolo vizioso, con conseguenze destinate ad aggravarsi nel tempo.
La conoscenza come strumento per l’esercizio del diritto di coscienza è, di certo, un tema che merita cura, attenzione e tempo, data la sua complessità, importanza ed ampiezza. Tuttavia, attraverso queste pagine e questa carrellata di personaggi storici ed intellettuali citati, si è tentato di mettere in rilievo quanto il tema della libertà di coscienza sia sempre stato un aspetto della vita individuale e sociale che ha portato l’essere umano a porsi numerosi interrogativi, a partire, come evidenziato nella presente argomentazione, da Socrate.
L’uomo è spinto dall’esigenza di avere certezze su se stesso e sul mondo circostante; nel corso della Storia, in modo costante, ha provato a dare delle risposte definitive alle proprie domande e, forse, questo è accaduto e accade perchè tollera poco, o quasi per nulla, l’incertezza e il dubbio.
Oggi viviamo in un mondo digitale e globale che permette di conoscere realtà disparate e lontane da ognuno di noi in tempi alquanto rapidi, avendo, così, l’impressione di poter entrare in possesso di una conoscenza illimitata; forse, si potrebbe osare dire, che si tratta solo di un’impressione. Come ci insegnano pensatori ed intellettuali, del passato e del presente, la conoscenza non si riduce solo alla quantità di nozioni possedute o alla ricerca di un significato dato una volta per tutte. La conoscenza è molto di più e consiste nella capacità del singolo di accedere a delle nozioni, a delle informazioni, a temi più semplici o più complessi, per poi potersi costruire un proprio pensiero sul mondo.
Proprio perchè nella nostra epoca, quella digitale, su uno stesso fatto vengono fornite infinite informazioni, in pochi secondi sul web, si rende ancora più evidente e necessario l’esercizio costante, e fin dalla tenera età, di un pensiero critico. Questo, però, è possibile solo grazie alla conoscenza e ad un’educazione che spinga a farsi domande, a dubitare, ad essere curiosi del mondo.

NOTE:

1John Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), Rosenberg & Sellier, Torino 2017, pp. 217-230.
2 Ibidem.
3 Emiliano Silvestri (a cura di), Diritto umano alla conoscenza e Radio Radicale: intervista al filosofo Salvatore Veca, Radio Radicale, intervista 15 aprile 2019.
4 Ibidem.
5 www.articolo21.org, Appello per il riconoscimento del diritto alla conoscenza, 30 marzo 2021.
6 Francesco Macrì, La cultura come fattore di libertà e di sostenibilità, in Blog Riflessioni, 2 marzo 2015.
7 John Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), cit., pp. 217-230.
8 Ibidem.
9 Antonio Gramsci, Socialismo e cultura, «Il Grido del popolo», 26 gennaio 1916.
10 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 1929-1935.
11 Antonio Gramsci, Socialismo e cultura, «Il Grido del Popolo», 29 gennaio 1916; poi in Scritti giovanili 1914-18, Einaudi Editore, Torino 1975, pp. 23-25.
12 Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù, con presentazione di Beniamino Deidda, a cura della fondazione Don Milani, 2012.
13 Ibidem.
14 Erri De Luca, La parola contraria, Edizione Feltrinelli, 2015.
15 Matthew Lipman, Educare al pensiero, Collana Vita e Pensiero, 2005.
16 Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, 2000.
17 Save the Children (a cura di Cederna G.), Atlante dell’infanzia a rischio 2016. Bambini e supereroi, Marchesi Grafiche, 2016.

Bibliografia
Erri De Luca, La parola contraria, Edizione Feltrinelli, 2015.
John Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), Rosenberg & Sellier, Torino 2017.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 1929-1935.
Antonio Gramsci, Scritti giovanili 1914-18, Einaudi Editore, Torino 1975. Antonio Gramsci, Socialismo e cultura, «Il Grido del popolo», 26 gennaio 1916. Matthew Lipman, Educare al pensiero, Collana Vita e Pensiero, 2005.
Francesco Macrì, La cultura come fattore di libertà e di sostenibilità, in Blog Riflessioni, 2 marzo 2015.
Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù (presentazione di Beniamino Deidda), a cura della fondazione Don Milani, 2012.
Save the Children (a cura di Cederna G.), Atlante dell’infanzia a rischio 2016. Bambini e supereroi, Marchesi Grafiche, 2016.
Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, 2000.
Emiliano Silvestri (a cura di), Diritto umano alla conoscenza e Radio Radicale: intervista al filosofo Salvatore Veca, Radio Radicale, intervista 15 aprile 2019.
www.articolo21.org, Appello per il riconoscimento del diritto alla conoscenza, 30 marzo 2021.

*Valentina Trinchero è laureata in Società e Sviluppo Locale presso l’Università di Alessandria e in Informazione ed Editoria presso l’Università di Genova.
*Marianna Pederzolli è laureata in Psicologia Clinica e di Comunità, operatrice sociale, si sta abilitando all’insegnamento del Sostegno e delle materie di Scienze Umane e Filosofia nelle scuole superiori.

Valentina Trinchero e Marianna Pederzolli sono entrambi attiviste dell’associazione culturale “Genova che osa”.