Riflessioni sulla violenza nella pratica clinica

Introduzione

La violenza all’interno dei contesti di cura della salute mentale solleva numerose questioni cliniche e metodologiche. Le sue articolate manifestazioni costituiscono un’occasione per riflettere sul ruolo, i limiti e l’efficacia terapeutica in situazioni di crisi. La gestione del paziente violento è infatti un aspetto complesso del lavoro del terapeuta. La letteratura scientifica si interroga da tempo sulla relazione tra aggressività e trattamento all’interno dei Servizi pubblici. È un fenomeno che è stato a lungo dibattuto e che ha prodotto molteplici ricerche. Gli studiosi si sono occupati di ambiti di interesse diversificati quali lo studio del comportamento violento nei pazienti psichiatrici, il rapporto tra diagnosi e aggressività, i fattori protettivi e di rischio. Anche le risonanze emotive di tali eventi sugli operatori della salute, le tecniche di gestione della persona violenta, l’individuazione di best practice, le azioni preventive, la misurazione dell’aggressività con strumenti standardizzati, sono stati oggetto di approfondimento scientifico. Scopo del presente contributo è offrire una panoramica di spunti sulle manifestazioni aggressive in seduta terapeutica. Prima di proseguire, è necessaria una precisazione operativa: in questo testo aggressività e violenza vengono utilizzati come sinonimi, intendendo con esse qualsiasi azione manifestata verbalmente o agita, volta a far male o nuocere a un’altra persona (Krahé, 2005).

Attualmente esistono diversi Servizi che accolgono i pazienti psichiatrici: ne sono un esempio i centri di salute mentale, le strutture residenziali e semi-residenziali, le comunità terapeutiche, i centri diurni, il pronto soccorso, i reparti ospedalieri (SPDC). Come è noto, l’offerta delle cure dislocate sul territorio nasce in seguito all’approvazione della legge 180 del 1978 grazie alla quale vennero chiusi i manicomi. Con essa vi fu una rivoluzione sia nel concepimento dei Servizi per la salute mentale, sia, ancor più importante, nella rappresentazione sociale del malato. Per lungo tempo Basaglia e i suoi collaboratori hanno portato avanti nuove posizioni volte al contrasto della disumanizzazione del malato che divenne anch’esso un uomo con una storia personale, portatore di vissuti ed esperienze, e non solo una mera rappresentazione della malattia.

L’alto potenziale di aggressività presente in corsia è ben descritto, per esempio, dal recente volume di Paolo Milone “L’arte di legare le persone” (2021), dove l’autore racconta con precisione e franchezza cosa accade in un reparto psichiatrico d’urgenza. Di una visita ad una sua paziente avvenuta in pronto soccorso scrive: <<Mi mostri la lingua, poi mi ficchi quattro unghie nella carne viva e non le vuoi più mollare. Per estrarre le tue unghie dal mio braccio, devo stringere la tua mano con forza e tirarla via dal verso giusto. Ti ricovero, ti dico. Non voglio. Ti faccio il Tso>> (ibidem, p. 10). Sempre in quest’ottica è interessante un passaggio del testo che fa emergere l’imprevedibilità della violenza. Ne è protagonista lo stesso psichiatra, suo malgrado aggredito da Danilo, un ragazzo di due metri per centodieci chili di peso. A lui Milone si rivolge così: <<Sei un giovane schizofrenico, ma di carattere affettuoso. L’altro giorno, entri nella stanza dove stavo scrivendo una cartella. Ho fatto l’errore di darti le spalle: Milone lo sai che ti voglio bene, ma proprio bene? Due costole rotte. Danilo, meno male che mi vuoi bene>> (p. 16). Avendo come sfondo le mura dell’ospedale o i vicoli genovesi, per lo scrittore i pazienti si curano in tutti i modi possibili: metaforicamente legandoli a sé grazie alla relazione instaurata, oppure in alcuni casi, concretamente legandoli al letto.

Il passaggio citato sopra mostra una situazione di consuetudinaria difficoltà nella gestione di casi particolarmente complessi in relazione alla sicurezza del medico e del paziente stesso. A tal proposito Biondi e Picardi (2018), pur apprezzando i significativi miglioramenti nell’assistenza al malato dovuti alla riforma Basaglia, sottolineano alcuni aspetti complessi legati al quotidiano lavoro dei clinici delle strutture pubbliche che esulano dalla patologia psichica. Gli autori sostengono che sia opportuno diversificare i cosiddetti “casi difficili” in rapporto a: implicazioni etiche, circostanze che minacciano la salute psico-fisica del curante, condizioni sociali dei malati e infine la resistenza dei pazienti al trattamento.
In prima battuta approfondiscono le difficoltà connesse alle implicazioni etiche di alcuni interventi terapeutici, offrendo come esempio prototipico il trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Si parte da un dato statistico: un’indagine nazionale del 2008, ripresa nell’articolo in questione, stima che in Italia vengano effettuati circa trentanove TSO al giorno. Nella nostra penisola sono eseguiti meno ricoveri coatti rispetto al resto d’Europa: nel vecchio continente i TSO sono il 13,2% dei ricoveri totali, mentre in Italia si raggiunge il 9%. Nonostante la minore incidenza, restano problemi di ordine morale, come per esempio la scelta faticosa di dover realizzare un ricovero contro la volontà della persona, e le complicazioni che insorgono quando i pazienti preferiscono interrompere le cure nonostante la necessità di proseguirle.

Successivamente individuano i “casi difficili” che mettono a rischio la sicurezza fisica e psicologica del sanitario. Tra essi vi sono i pazienti poco collaborativi, che commettono gesti autolesivi o eterolesivi, con difficoltà di regolazione del comportamento, violenti verbalmente, che ingiuriano, sputano, bestemmiano, minacciano o molestano con insistenza. Queste situazioni aumentano il carico di stress del clinico e più facilmente favorendo il rischio di burnout.
Le complicazioni di natura sociale riguardano i pazienti senza fissa dimora e le difficoltà di comunicazione con le persone straniere. Non avendo un luogo di riferimento per la dimissione, i tempi di degenza dei senzatetto si allungano rispetto al necessario e spesso sono presenti incomprensioni linguistiche. Ciò rende difficoltosa la valutazione psicologica e la proposta delle cure adeguate. I problemi aumentano quando si è in compresenza di patologie mediche generali e di consumo di alcol e altre sostanze.
Infine risultano “casi difficili” i pazienti resistenti al trattamento in cui non si manifesta una remissione sintomatologia né con l’utilizzo dei farmaci né con la psicoterapia. Gli autori ritengono che nella psichiatria italiana dei Servizi pubblici, oggi, i clinici si trovino quindi a lavorare con un livello di complessità elevato, poiché oltre alla patologia psichiatrica si devono tenere in considerazione gli aspetti etici, sociali e gestionali che possono impattare sull’operato dei professionisti.

Aspetti generali

Ma qual è la relazione tra psicopatologia e violenza? Nivoli e collaboratori (2017) hanno studiato questo binomio nei pazienti psichiatrici che hanno agito quello che loro definiscono Comportamento Violento sulla Persona (CVP).
Gli studiosi sostengono che il CVP abbia origine da cause plurime quali i fattori biologici, psicologici, sociali, culturali e situazionali. Il disturbo psichico può essere solo uno degli elementi che intervengono nelle situazioni violente. Il professionista deve comunque monitorare il rischio di CVP soprattutto se vi è una giustificazione clinica (per esempio se il paziente possiede un’arma e ha verbalizzato minacce di morte). Il CVP non è prevedibile con certezza e la valutazione del rischio può essere effettuata con il colloquio clinico, grazie al quale vengono raccolte informazioni anamnestiche utili alla definizione della diagnosi e del trattamento. Avere indicazioni biografiche è necessario per esplorare precedenti comportamenti violenti. Oltre al colloquio clinico è possibile utilizzare strumenti standardizzati quali interviste, questionari, proiettivi. Il CVP è comunque multideterminato, ragion per cui non esistono metodologie certe per prevenirlo.

Il rapporto tra malattia mentale e violenza è quindi articolato. La presenza della patologia non è sufficiente a spiegare l’aggressività del paziente, la quale è correlata ad altre variabili. Infatti il rischio di comportamento violento aumenta moderatamente se associato all’abuso di sostanze come alcol e droga, condizioni ambientali stressanti, maltrattamenti subiti nell’infanzia. I farmaci in questi casi agiscono sulla sintomatologia come l’agitazione psicomotoria e l’irritabilità (Nivoli, Milia, Depalmas et al., 2020). In ogni caso è noto che la maggior parte delle persone con disturbi mentali non è violenta e non commette reati, anzi sono proprio questi pazienti ad avere un rischio maggiore rispetto alla popolazione generale di essere loro stessi vittime di violenza (Khalifeh, Johnson, Howard et al., 2015).
Witt, Van Dorn e Fazel (2013) hanno indagato i fattori di rischio correlati alla violenza in persone con diagnosi di schizofrenia. Essi identificano: comportamento ostile, abuso recente di droghe e/o di alcol, non aderenza alle terapie psicologiche, scarso controllo degli impulsi. Luciano, Beezhol, Bendi e Bhugra (2016) ritengono che il comportamento aggressivo sia connesso sia ai fattori appena riportati sia a specifiche condizioni cliniche come le psicosi, i disturbi dell’affettività e di personalità. Nei casi di psicosi, i comportamenti violenti avvengono durante gli episodi allucinatori o deliranti. Nel disturbo bipolare l’aggressività è più frequente nella fase maniacale, soprattutto se la persona si trova in uno stato di irritabilità. Nei disturbi di personalità borderline l’agito è collegato alle difficoltà di regolazione emotiva, alla disforia e al permanente senso di vuoto, spesso vengono compiuti gesti autolesivi. Nei disturbi d’ansia l’agitazione è associata alla percezione di un pericolo esterno. Si può presentare sovente nei disturbi da panico, disturbi ossessivo-compulsivi e nei disturbi post-traumatici da stress.
Altri studi monitorano la frequenza delle aggressioni al personale sanitario. Le violenze minori quali aggressioni verbali, minacce, intimidazioni si verificano maggiormente rispetto a quelle gravi. La percentuale di infermieri che necessitano di cure mediche o di ricovero varia tra il 10 e il 16 % (Foster, Bowers e Nijman, 2007).

L’interesse verso la violenza e le sue manifestazioni ha portato all’elaborazione di modelli teorici che ne descrivono l’andamento e le fasi. L’aggressività ha una progressione graduale, può raggiungere il suo picco oppure avere una remissione se le condizioni ambientali e personali la favoriscono. Nella classica proposta di Maier e Van Rybroek il ciclo dell’aggressività inizia con la percezione di una potenziale minaccia, il trigger, che produce un’attivazione (arousal) psicofisica. Gli eventi stressanti possono provenire dall’ambiente esterno così come da alcuni processi interni al paziente. Riuscire a identificare precocemente i trigger e a trasformarli in qualcosa di rassicurante può portare a un arresto del ciclo dell’aggressività. Se questo non accade, si passa all’escalation. Dal punto di vista corporeo, in questa fase vi è un aumento della pressione sanguigna, della tensione muscolare, del respiro. Le probabilità di calmare la persona diminuiscono. Ad ogni modo se gli interventi messi in atto riescono a tranquillizzarla allora vi sarà un decremento dell’agitazione psicomotoria e un ritorno ad uno stato di quiete. In caso contrario si entrerà nella fase successiva, ovvero la crisi. La rabbia raggiunge il picco e nei casi più estremi la persona può essere un pericolo per sé o per gli altri. Le capacità di giudizio sono ridotte, infatti le decisioni possono essere prese senza valutare i rischi e i benefici delle proprie azioni. In seguito si passa al momento del recupero dove l’agitazione diminuisce, vi è un maggior controllo di sé, ritorna la capacità di riflettere sulle proprie azioni, il corpo recupera uno stato di attivazione normale. Infine vi è la fase della depressione post-critica in cui si normalizzano definitivamente i parametri vitali. Il paziente può riflettere su quanto è successo, comprendere quanto appena accaduto e dare significati, talvolta provare imbarazzo e colpa.

Aspetti operativi

Diversi organismi internazionali si sono occupati di studiare il fenomeno della violenza, elaborare delle linee guida utili ad affrontare i momenti di crisi del paziente, così da fornire ai professionisti del settore della salute mentale anche degli strumenti operativi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato nel 2002 un report sulla violenza e sulla salute globale. L’OMS con questo documento ha voluto denunciare la pervasività della violenza nel mondo e le ricadute che essa ha sulla salute psicologica a breve e a lungo termine. Le tipologie di violenza identificate sono: la violenza giovanile; gli abusi e i maltrattamenti sui minori da parte di genitori e altre figure di riferimento; la violenza domestica e intra-familiare; gli abusi sugli anziani; la violenza sessuale; la violenza autodiretta; la violenza collettiva. Riconoscendo la gravità del fenomeno l’OMS suggerisce agli Stati di monitorare, formare, informare e promuovere la cultura del benessere.
In Gran Bretagna il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) aiuta i professionisti della salute che lavorano nel settore pubblico a fornire le migliori cure possibili. Le linee guida pubblicate nel 2005 dal titolo “Violence and aggression: short-term management in mental health, health and community settings” hanno come obiettivo salvaguardare sia il personale sanitario della salute mentale sia gli utenti dei Servizi offrendo indicazioni volte a prevenire le situazioni pericolose e strumenti per gestire in sicurezza tali episodi. Per il NICE violenza e aggressività sono comportamenti o azioni che possono causare danni, ferite o lesioni a un’altra persona, indipendentemente dal fatto che siano espresse fisicamente o verbalmente. Nei Servizi di salute mentale tali episodi si verificano più frequentemente nelle unità psichiatriche ospedaliere e la maggior parte delle aggressioni gravi si ha nei reparti di emergenza.
Le linee guida contengono raccomandazioni sulla prevenzione della violenza ma, poiché non è sempre possibile evitarla, suggeriscono una serie di interventi da fare per ridurre l’escalation dell’aggressività.
Il NICE sottolinea che le organizzazioni che si occupano di assistenza sanitaria dovrebbero formare il personale al fine di sviluppare negli operatori un approccio alla cura centrato sulla persona, in cui le relazioni personali, la continuità delle cure e una visione positiva alla promozione della salute siano alla base del rapporto terapeutico. La formazione aiuta a comprendere il rapporto tra problemi di salute mentale e rischio di violenza; fornisce gli strumenti per valutare il comportamento aggressivo; consente di esaminare fattori concorrenti quali gli aspetti personali, costituzionali, mentali, fisici, ambientali, sociali, comunicativi; insegna abilità, metodi e tecniche per diminuire l’aggressività ad esempio con le tecniche di de-escalation; permette di avere competenze per intraprendere in sicurezza gli interventi restrittivi, ad esempio la contenzione, quando necessari; raccomanda di intraprendere un debriefing post-incidente con i colleghi.

Anche il Ministero della Salute italiano si è mostrato sensibile al tema e già nel 2007 ha pubblicato un documento denominato “Raccomandazione per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”. L’obiettivo era implementare quelle misure che consentono l’eliminazione o la riduzione delle condizioni di rischio e contribuire all’acquisizione di abilità da parte degli operatori nel valutare e gestire tali eventi. Il documento si focalizza sull’elaborazione di un piano di prevenzione, l’analisi delle situazioni lavorative, la definizione delle misure di prevenzione e controllo, la formazione del personale.
Quando si riconosce l’agitazione del paziente, le best practice suggeriscono per prima cosa di provare a diminuirne l’attivazione e cercare di calmarlo, ad esempio tramite le tecniche di de-escalation. Esse sono utili a ridurre l’aggressività e a mantenere un clima collaborativo, facilitando il dialogo ed evitando la conflittualità. Tali procedure si basano sull’uso della regolazione emotiva e dell’autoregolazione per controllare la comunicazione verbale e non verbale. Sono importanti quindi anche la postura, le espressioni facciali, il tono della voce. Nel processo è rilevante coinvolgere il paziente nell’identificazione di ciò che ha scatenato l’agitazione in modo tale da essere lui stesso protagonista del processo di diminuzione dell’aggressività. Quando la situazione può essere dannosa per il paziente o per le persone circostanti, può rendersi necessario adoperare gli interventi restrittivi, come ad esempio la contenzione fisica. Anche in questo caso sono davvero numerose le linee guida che spiegano le tipologie di contenzione, le procedure da attuare, le manovre da effettuare e l’efficacia. È bene che ogni passaggio sia condiviso dall’équipe e che tutto avvenga senza ostacoli.
Secondo Richmond, Berlin, Fishkind et al. (2012) quando si lavora con una persona agitata bisogna perseguire quattro obiettivi: mettere pazienti e operatori in condizioni di sicurezza; coadiuvare la regolazione delle emozioni del paziente e il controllo del suo comportamento; non ricorrere alla contenzione se le circostanze lo permettono; limitare le azioni coercitive che possono aumentare l’agitazione. Risulta importante calmare il paziente ma contemporaneamente bisogna aiutarlo ad essere parte attiva nella gestione della situazione e nel monitoraggio di se stesso.
Luciano, Beezhold, Bendi e Bhugra (2016) suggeriscono un vademecum operativo. Consigliano di stare calmi e controllare il proprio linguaggio corporeo; essere sicuri che la postura e i gesti non contraddicano ciò che si sta dicendo; eventualmente accompagnare il paziente in una stanza tranquilla con meno stimoli; lasciare che il soggetto esprima le proprie rimostranze; contenere con fermezza; conoscere i propri limiti e chiedere aiuto. Sconsigliano di dare le spalle al paziente e lasciare che si posizioni tra la porta e il terapeuta al fine di garantirsi una via di fuga qualora la situazione peggiori; tenere una distanza di uno o due metri; compiere gesti calmi, lenti e definiti perché si trasmette che non si ha l’intenzione di aggredire; non parlare quando l’altro grida; esprimersi con un tono di voce normale; non giudicare o litigare; usare domande riflessive; utilizzare domande o frasi aperte anche per verbalizzare i sentimenti; dire frasi brevi e semplici, offrire soluzioni concrete se possibile; non provare a disarmare il paziente se armato ma lasciare la stanza e chiamare aiuto; non mostrare paura, rabbia o ansia perché il paziente potrebbe diventare più violento e agitato.

Anche un’attenta conduzione del colloquio può essere molto utile a prevenire l’insorgere di stati di agitazione. In tal senso Lorettu e collaboratori (2017) hanno identificato delle buone pratiche cliniche che il terapeuta può utilizzare soprattutto quando si trova ad effettuare un colloquio in situazioni difficili, come di fronte a pazienti violenti. L’autrice propone diversi aspetti da tenere in considerazione tra cui quelli operativi quali raccogliere preliminarmente informazioni anamnestiche e riuscire a preservare in sede di colloquio la propria incolumità, quella del paziente e quella degli operatori presenti. È necessario prestare attenzione alle proprie emozioni e utilizzarle a scopo terapeutico. È possibile che le emozioni siano elicitate dalla situazione contingente, quindi dalla paura scatenata dal paziente violento, ma anche dai vissuti personali del terapeuta stesso. Bisogna osservare lo stato emotivo del paziente e il comportamento non verbale per carpire l’autenticità e il grado di sofferenza della persona. Rilevare perciò il respiro, il tono di voce, la velocità dell’eloquio, le pause, lo sguardo, le espressioni facciali, la postura, il grado di rilassatezza, la vicinanza corporea, la gestualità.

Occorre inoltre cercare di trasmettere la sensazione che si sta ascoltando attivamente il paziente, manifestandolo attraverso l’utilizzo consapevole di alcune tecniche di conduzione del colloquio facilitanti la comunicazione. Ad esempio utilizzare una gestualità accomodante come fare un cenno di approvazione col capo. Ripetere l’ultima parola detta dal paziente o l’intera frase. Riformulare sintetizzando il pensiero del paziente, concentrandosi su un argomento rilevante, o ancora rielaborare il discorso focalizzandosi sugli aspetti positivi in modo tale da modificare la prospettiva. Se il paziente manifesta difficoltà a parlare di alcuni temi è possibile spostare l’attenzione su altro interrompendo per fare una pausa, oppure verbalizzando che sarà possibile parlarne nell’incontro successivo. Queste tecniche sono da usare sulla base del giudizio del clinico, sempre nell’ottica di favorire l’alleanza terapeutica e il benessere della persona. Lorettu e collaboratori (ibidem) suggeriscono di manifestare una vicinanza empatica al paziente, anche chiedendo chiarimenti per capirne meglio il mondo interno. È possibile iniziare l’intervento con frasi quali “se ho capito bene” oppure “mi può spiegare meglio”, e completare la frase utilizzando le parole usate dal paziente per esprimere il concetto.

Un’altra attenzione è definire il setting chiarendo il contratto terapeutico e le regole da rispettare. Gli elementi organizzativi del setting sono utili a contenere il paziente e a fornire una cornice chiara di riferimento come dato concreto, soprattutto se il paziente si mostra confuso. Non solo, quando il terapeuta percepisce delle difficoltà nell’esame di realtà, è possibile proporre un dato fattuale per riportare il paziente nel qui e ora. L’intervento ha come obiettivo proporre un’alternativa accettabile e utile al paziente nel momento di difficoltà. Oltre a far sentire la propria prossimità emotiva il terapeuta può avere anche un ruolo propositivo rispetto alla risoluzione di problemi della quotidianità (lavarsi, dormire e mangiare adeguatamente). Il paziente deve sentire la disponibilità del terapeuta ad occuparsi di lui. Inoltre bisogna aiutare il paziente a riflettere sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze nell’immediato e nel futuro. Quando il paziente entra in crisi è indispensabile preservare il dialogo, tranquillizzandolo con le tecniche di de-escalation. È importante far esprimere verbalmente la sofferenza. Per renderlo sempre più consapevole delle cause interne che lo hanno turbato, il terapeuta aiuta il paziente a focalizzarsi sui bisogni che non sono stati soddisfatti, agevolando la consapevolezza di poter manifestare le proprie necessità o desideri in modo socialmente adeguato. Questo processo richiede delle capacità introspettive e di riflessione su di sé. Nei momenti di agitazione del paziente anche il clinico può sentirsi sovrastato o confuso da emozioni di paura, rabbia, ansia, frustrazione. Il terapeuta dopo aver preso consapevolezza del proprio stato emotivo dovrebbe sintonizzarsi sul vissuto dell’altro, restituendo che lo si sta ascoltando e che si rispetta il pensiero altrui.

Inoltre, il terapeuta dovrebbe tenere sempre in considerazione alcune direttive di base quali evitare giudizi, interpretazioni inutili, interventi autoritari e domande intrusive. Si possono prevenire le situazioni di rischio, come già accennato, ad esempio non voltando le spalle al paziente, mantenendo la distanza di sicurezza, monitorando il comportamento non verbale dell’assistito. Il terapeuta non deve reagire alle provocazioni né tanto meno sollevarle. Il clinico deve ricordare che il comportamento aggressivo del paziente è un modo per manifestare un eventuale disagio, dei bisogni, una modalità appresa, una richiesta d’aiuto. Perciò il terapeuta deve comprendere il senso del comportamento del paziente, se necessario confrontare quest’ultimo con la realtà, al fine di avere un effetto terapeutico.

Per volgere alla conclusione di questa panoramica, possiamo affidarci al pensiero di Muran e Eubanks (2021), e al loro volume: “Il terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica”, dove sottolineano la consapevolezza del professionista in rapporto alle proprie emozioni negative esperite nei confronti dei pazienti. Più alto è il grado di tale presa di coscienza, maggiori saranno le possibilità del terapeuta di far fronte alla violenza negoziando ogni tipo di situazione. È importante che i professionisti riescano a lavorare con un livello di stress emotivo che non danneggi le proprie capacità di mentalizzazione e regolazione emotiva. Con “rottura dell’alleanza terapeutica” gli autori intendono l’allentamento del legame emotivo, la mancanza di obiettivi condivisi, la difficoltà nel comunicare e negoziare i bisogni reciproci. Infine, sottolineano come la corretta gestione di tali situazioni possa produrre un effetto positivo nella terapia e favorire trasformazioni migliorative nel paziente.

A tal proposito Kernberg (Lütz, 2021) sostiene che il terapeuta debba saper gestire e tollerare i sentimenti negativi, gli aspetti emotivi più complicati del paziente, come l’aggressività, ma senza perdere per questo il desiderio di curare. In sintesi il clinico deve essere in grado di conservare l’amore per l’essere umano anche di fronte agli aspetti involutivi del paziente. Emozioni quali paura, confusione, rabbia, rassegnazione, frustrazione possono inficiare la relazione, ma il professionista deve sforzarsi di compiere costantemente l’analisi del proprio sentire in rapporto all’altro, per costruire nuovi significati utili al paziente, anche in situazioni stressanti, caotiche e pericolose, quando appunto si sente sotto pressione.

BIBLIOGRAFIA

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*Debora Vermi è psicologa e psicoterapeuta