Riflessioni sulla salute della persona

di Diego Dal Sacco *

Il concetto di salute

Il seminario residenziale di Bonassola di quest’anno, a cui ho avuto il piacere di partecipare, trattava un argomento a me molto caro, ovvero la salute, o meglio, l’antropologia della salute.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce la salute come uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità. Lo scopo dell’Organizzazione è il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute.

Antonio Guerci, professore ordinario, titolare della cattedra di Antropologia presso il dipartimento di Scienze Antropologiche e Conservatore del Museo di Etnomedicina “Antonio Scarpa” dell’Università degli Studi di Genova, ci ha portato a riflettere sul fatto che gran parte delle difficoltà riscontrate nel raggiungere questo obiettivo dipendono dal fatto che i concetti di salute e di malattia variano in base a molti fattori, tra cui la componente sociale, che non andrebbe mai trascurata.

L’interesse per l’Etnomedicina del Prof. Antonio Scarpa, di cui il Prof. Guerci fu allievo, crebbe studiando i “galattagoghi”, le sostanze in grado di promuovere la produzione del latte e il fenomeno della “lactatio serotina”, ovvero la possibilità da parte di anziane donne, appartenenti ad alcune comunità africane, di farsi ritornare il latte per nutrire neonati rimasti orfani di madre, attraverso particolari procedimenti; questo esempio ci porta anche a riflettere su un’indagine che il Prof Guerci ci ha mostrato, secondo cui, nonostante l’incredibile sviluppo tecnologico e farmaceutico, ancora oggi i tre rimedi terapeutici più utilizzati a livello mondiale sono, nell’ordine: la preghiera, il brodo di pollo e l’aspirina.

I determinanti sociali della salute

Nel corso del seminario abbiamo riflettuto molto sui risultati riportati dagli studi che il professore ci ha mostrato e da cui si evince che nelle città con maggior disparità sociale ed economica la sanità funziona peggio. Prendendo come esempio gli Stati Uniti, in Louisiana il sistema sanitario sembra funzionare molto peggio rispetto al New Hampshire dove funziona benissimo. A Parigi la speranza media di vita alla nascita è sui 50 anni alla periferia, mentre in centro è di circa 90 anni: si tratta di due popoli diversi? Ovviamente no, ma è lo stato sociale che cambia. A Londra la durata media di vita nelle 12 fermate della metro, dalla periferia verso il centro, aumenta di un anno per fermata andando verso la zona centrale (in cui ogni persona ha quindi una durata media di vita 12 anni maggiore rispetto a chi vive in periferia). A Genova la speranza di vita alla nascita è di circa 83 anni (per i maschi circa 5-6 anni di meno) mentre la durata di vita è di poco sopra i 50 anni. Anche Baah, Teitelman e Riegel (2019) hanno focalizzato l’attenzione sul fatto che nonostante la ricerca abbia migliorato notevolmente la prevenzione e la cura delle malattie, questi progressi si sono distribuiti in modo sproporzionato tra gli strati sociali e sottolineano il fatto che i principali fattori causali responsabili di questa differenza potrebbero essere i “determinanti sociali della salute” (SDH dall’inglese Social Determinants of Health), definiti nel 2010 dall’OMS come le circostanze in cui le persone nascono, vivono, lavorano, invecchiano e i sistemi messi in atto per affrontare la malattia. Prendendo spunto da Hall et al. che nel 1994 definirono l’emarginazione come il processo attraverso il quale le persone sono periferiche in base alle loro identità, associazioni, esperienze e ambiente, oggi si tende a definire e talvolta ad etichettare, come “emarginate”, tutte quelle persone che soffrono maggiormente di questo tipo di disparità e disuguaglianze. Vivere tra le culture rinunciando alla propria senza la possibilità di integrarsi con quella della società dominante e la presenza di margini e/o confini che separano un gruppo dominante da uno periferico, sono condizioni che favoriscono la vulnerabilità, ovvero l’esposizione ad ambienti dannosi per la salute invece che la loro prevenzione. Secondo Baah, Teitelman e Riegel (2019) l’emarginazione può dipendere dalle leggi emanate dal governo e applicate attraverso politiche a livello locale, dalle interazioni socioculturali tra i gruppi e da quelle tra i gruppi privilegiati e quelli poveri.

L’importanza della comunicazione

Le differenze di linguaggio tra le popolazioni possono rendere molto difficoltoso lo studio della salute e la prevenzione/cura delle malattie, in vari modi. Quando stiamo male o abbiamo un problema, avvertiamo due bisogni fondamentali: il primo è trovare una persona che ci possa ascoltare, il secondo è che questa persona possa aiutarci; solitamente siamo abbastanza sicuri di essere compresi all’interno della società in cui viviamo ma cosa succede se chi ci ascolta non comprende cosa vogliamo comunicargli? Come è possibile superare l’ansia generata da questo tipo di incertezza?

In Occidente il termine “salute” (health) è univoco mentre il termine “malattia” (disease) ha un plurale, “malattie” (diseases), ma non è così in tutte le culture: in Cina, ad esempio, esistono 28 modi per definire la salute della persona (e altri sottogruppi), per cui medici e psicologi occidentali potrebbero avere molta difficoltà a comprendere il malessere di un paziente cinese. In Oriente il termine salute, essendo duale e non univoco, ha una centralità a cui è possibile avvicinarsi con esercizi spirituali; in occidente dove è tutto molto centralizzato, è possibile curarsi solo rivolgendosi alle strutture sanitarie. A livello antropologico il termine “disease” esiste ovunque in ogni popolazione e rappresenta l’etichetta dotta (non scientifica) della malattia; il termine “illness” si riferisce invece a come la persona vive la malattia, mentre “sickness” è la presa in carico del malato da parte della sua comunità (ed è più usato in medicina del lavoro).

Anche la rappresentazione corporea varia in base all’etnia; se si fa disegnare il proprio corpo a persone appartenenti a culture diverse si può notare come la rappresentazione corporea cambia. Questa variabilità determina anche cambiamenti della prossemica, ovvero della distanza a cui deve avvenire la comunicazione e della componente paraverbale della comunicazione. In certe culture africane la “tattilità” è fondamentale per esprimere comprensione ed empatia per cui è molto importante toccarsi e gesticolare; in Giappone invece è molto importante non soffiarsi il naso in pubblico perché è considerato un segno di maleducazione, mentre fare rumore quando si beve il brodo è un gesto di apprezzamento nei confronti del cibo.

Tutte queste differenze e difficoltà hanno portato il prof. Guerci a parlare più volentieri di crisi (maggiori o minori a seconda della gravità), invece che di malattia, perché si tratta di un termine più comprensibile a livello globale. Invece di parlare di “tessuto sociale”, una bella metafora dove però la società fa tutto per la cellula, ovvero l’individuo, sarebbe meglio parlare di “società sincizio”, dove l’individuo è importante, ma fino ad un certo punto, perché “morituro” ovvero destinato, prima o poi, a morire (da noi in Occidente si finge che non sia così). Allora, siccome si deve morire, si “eternizza” il gruppo e non l’individuo singolo: questo spiega perché ad alcuni funerali di certe etnie ci sono tantissime persone, perché hanno una “tattilità” maggiore dove il gruppo è la cosa più importante. Queste parole mi hanno indotto a riflettere sul fatto che nella moderna società occidentale si tende quasi sempre a pensare che la morte sia causata unicamente da oggetti cattivi esterni; si tratta di una questione molto importante già affrontata da Weizsacker (1946), secondo cui la malattia era un evento troppo frequente nel corso dell’esistenza per essere interpretata come un evento sfortunato e che avrebbe dovuto essere considerata, così come la nascita e la morte, come una delle componenti della vita stessa. Ammalarsi seriamente però, induce un vero e proprio shock ontologico e talvolta il paziente che ne soffre o i suoi parenti, per difendersi dalle angosce di morte e dall’incertezza, sviluppano derive paranoidi che portano a vedere chi si prende cura del malato, ovvero il medico o lo psicologo, come oggetti cattivi esterni: in quest’ottica il responsabile dell’esito infausto non è più la malattia, ma il medico o lo psicologo stesso che hanno tentato di aiutare chi ne soffriva.

Un esempio clinico

Tutte queste osservazioni mi hanno aperto la mente e mi hanno portato a riflettere sul fatto che in effetti è da pochi anni che pazienti cinesi si rivolgono presso il mio studio e che si tratta quasi sempre di persone molto giovani, capaci di esprimersi in italiano e più abili nell’utilizzo di smartphone e traduttori; se il fenomeno riguardasse solo gli studi privati si potrebbe pensare a problemi economici, ma in realtà si verifica anche presso gli studi di altri colleghi, in molte Onlus votate alla cura della persona e nelle strutture pubbliche, almeno a Genova. A questo proposito, ricordo una donna affetta da una forma di alopecia areata (una particolare forma di caduta di capelli a chiazze ben definite e nette) che mi continuava a ripetere una parola che io non capivo e a cui non sapevo dare un significato; per sua fortuna la paziente era accompagnata dal marito italiano che mi spiegò che si trattava di funghi chiamati “shiitake”: guardando su Pubmed vidi che si trattava di funghi, che se ingeriti crudi o poco cotti, potevano indurre delle reazioni cutanee, come riportato da Stephany et al. (2016) e pensai che mi stesse chiedendo se si trattasse di un’intolleranza alimentare; rimasi molto sorpreso quando il marito mi tradusse che a lei la chiazza alopecica ricordava molto la forma di quei funghi tipici della sua terra natia, che in quel periodo le mancava molto. Anche secondo Collins et al. (2002) la salute dei pazienti peggiora a causa dell’emarginazione e focalizzano l’attenzione sull’importanza della comunicazione medico-paziente: come testimonia un sondaggio della Commonwealth Foundation in cui si chiedeva ai pazienti americani se avessero difficoltà a capire il proprio medico, se avessero domande che non erano in grado di porre o se il medico non ascoltasse le loro preoccupazioni, il 16% tra i bianchi ha risposto sì a una delle tre domande, rispetto al 23% degli afroamericani, al 33% dei latini e al 27% degli asiatici. Questi e altri dati hanno portato Pérez-Stable e El-Toukhy (2018) a sostenere che i sistemi sanitari dovrebbero sfruttare meglio le nuove tecnologie per garantire un miglior accesso ai servizi linguistici e un tempo di consultazione adeguato alla situazione.

BIBLIOGRAFIA

Baah, F.O., Teitelman, A.M., e Riegel, B. (2019), Marginalization: Conceptualizing patient vulnerabilities in the framework of social determinants of health-An integrative review. Nurs Inq, 26(1).

Collins, K.S., Hughes, D.L., Doty, M.M., Ives, B.L., Edwards, J.N., e Tenney, K. (2002), Diverse communities, common concerns: assessing health care quality for minority Americans. TheCommonwealth Fund, New York.

Hall, J.M., Stevens, P.E., e Meleis, A.I. (1994), Marginalization: A guiding concept for valuing diversity in nursing knowledge development.Advances in Nursing Science, 16(4), 23–41.

Pérez-Stable, E.J., e El-Toukhy, S. (2018), Communicating with diverse patients: How patient and clinician factors affect disparities. Patient Educ Couns, 101(12), 2186-2194.

Scarpa, A. (1996), Viaggio fra le medicine tradizionali dei popoli. Itinerario per la visita al Museo di etnomedicina. Collezione A. Scarpa, Erga Editore.

Stephany, M.P., Chung, S., Handler, M.Z., Handler, N.S., Handler, G.A., e Schwartz, R.A. (2016), Shiitake Mushroom Dermatitis: A Review. Am J Clin Dermatol, 17(5), 485-489.

Weizsacker, V.V. (1946), Pathosophie. Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen.

*Diego Dal Sacco è  medico specializzato in dermatologia e psicoterapeuta