di Sara Patrone *
Iste ego sum!
“Si se non noverit”, risponde il chiaroveggente Tiresia interpellato dalla ninfa Liriope circa la longevità di suo figlio Narciso: vivrà a lungo solo se non conoscerà se stesso. (nota 1)
Divenuto un bellissimo sedicenne che ha già respinto con superbia le attenzioni di molte e molti innamorati tra i quali Eco, Narciso viene maledetto da un giovane che, risentito dopo essere stato rifiutato, gli augura di amare qualcuno con la stessa intensità e la stessa sciagurata sorte.
La preghiera viene raccolta da Nemesi proprio quando l’ambito giovane, stanco dopo una battuta di caccia, si ristora vicino a una fonte d’acqua limpida, dalla lucentezza argentea, mai contaminata da esseri umani, animali o dalla stessa natura. Uno specchio d’acqua nel quale, mentre si disseta, Narciso si scorge, innamorandosi all’istante del proprio bellissimo riflesso. Guardandosi nell’acqua, resta incantato da occhi paragonabili a stelle, capelli degni di Bacco e perfino di Apollo, guance glabre, collo bianco come l’avorio e gote liete e rubiconde.
Ma Narciso non riesce a rendersi conto che colui che desidera ardentemente, a cui tende le braccia e che ricopre di baci è un’immagine sfuggente, un’ombra riflessa. Come scrive Ovidio rivolgendosi direttamente a lui: “Credule, quid frustra simulacra fugacia captas? Quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes! Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est: nil habet ista sui; tecum venitque manetque; tecum discedet, si tu discedere possis!”. (nota 2)
Nota 1: Traducibile con “Se non conoscerà se stesso” oppure “Si, se non guarderà se stesso”.
Nota 2: “Ingenuo, perché t’illudi d’afferrare un’immagine sfuggente? Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi! Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa: nulla ha di suo; con te è venuta e con te rimane; con te se ne andrebbe, se tu riuscissi ad andartene!”.
Insonne e digiuno, Narciso è logorato dall’irraggiungibile prossimità con l’oggetto del desiderio fino a quando, stremato, non realizza che l’amato non è altro che la propria immagine riflessa nello specchio d’acqua: “Iste ego sum”, “questo sono io”!
Lungi dallo spegnere la fiamma d’amore, questa consapevolezza lo accompagna verso la morte per sfinimento ed autolesionismo: strappate le vesti e colpito il petto, egli non smette di contemplarsi sperando invano che l’amato riflesso abbia una vita più lunga della propria.
Quando le Driadi e le Naiadi cercano il suo corpo per disporlo sul rogo funebre, al suo posto trovano la pianta bulbosa che i botanici chiamano Narcissus poeticus, il cui fiore si inclina come a rispecchiarsi e ha vita breve.
Una pianta e una malattia, il narcisismo, che nella loro forma pura sono mortali.
Esistevano solo sparuti frammenti del mito di Narciso prima che lo raccontasse Publio Ovidio Nasone nel terzo libro delle Metamorfosi dedicato alle virtù del profeta tebano Tiresia. (nota 3)
In compenso, ne sono state scritte moltissime versioni successive: quella di Pausania, nel II secolo d.C., quella in lingua moderna d’epoca medievale, quella di Bacone, di Rousseau, di Shakespeare, Goethe, Proust, Freud. La storia è giunta vitale e feconda fino a noi. È forse il segno, come scrive Antonio Alberto Semi (2007): <<Che Ovidio ha colpito nel vivo, ha toccato qualche corda presente in tutti noi>>?
Nota 3: Il mito di Narciso ed Eco viene raccontato da Ovidio dal verso 316 al verso 510.
Dittatura degli specchi
Diversamente da Narciso che ha dovuto aspettare i sedici anni e uno specchio d’acqua cristallina per scorgere la propria immagine, per noi oggi è estremamente difficile sfuggire al moltiplicarsi di supporti su cui ravvisare (e meditare) le nostre fattezze.
C’è almeno uno specchio in ogni stanza da bagno, in ogni borsetta, dentro a ciascun camerino, su ogni smartphone e, anche se tentassimo nell’impresa di sfuggire al nostro doppio, vi incapperemmo ugualmente in una delle innumerevoli superfici riflettenti che, come le vetrine, arredano le nostre città.
Oggetto magico, scaramantico, custode di luce dotato di poteri soprannaturali, demoniaco emblema del culto di sé, depositario di parvenze, ricettacolo di spettrali entità nefaste, curioso strumento di illusioni prospettiche, lo storico Georges Vigarello (2007) racconta che lo specchio diventa un membro a pieno titolo della scena quotidiana sul finire dell’Ottocento quando, sottoforma di armadio a specchio intero o a più battenti, varca gli spazi dell’intimità permettendo per la prima volta la minuziosa osservazione (e correzione) del proprio sé corporeo nudo e intero, in una scena inedita. <<Questo modo di osservarsi è determinante, – scrive Vigarello – rende le persone più esigenti verso se stesse, orienta verso l’estetica della magrezza, suggerisce le misure, affina pratiche e sguardi>>
Complice l’industrializzazione nella produzione di grandi specchi, l’oggetto si diffonde, quantomeno nelle élites, trasformando spazi privati e segreti come le stanze da bagno in laboratori di moltiplicazione e analisi della propria immagine riflessa che, mentre complessifica quelle tecniche del corpo legate alla cura della persona, sancisce la nascita di uno spazio che, spodestando la vecchia scena della toeletta con aiutanti limitata a trucco e acconciatura, è palcoscenico solitario <<Che permette di non essere visti per meglio consacrarsi al culto della bellezza […] che solo l’isolamento renderebbe efficace>> (Vigarello, ibidem)
Riflessioni
La forma colloquiale in cui il termine “narcisista” trova posto è per lo più relegata alla dimensione della vanità, della vacuità e dell’egocentrismo, in una definizione che, mentre banalizza il mito, taccia di vanagloriosa superfluità il gesto del guardarsi, dimenticando anzitutto che, come scriveva Umberto Eco, lo specchio è una fidata protesi percettiva portatrice di verità in grado di ampliare il senso della vista (basti pensare agli specchietti retrovisori) e la nostra immagine speculare è un unicum fra i casi di doppio. “Questa virtuale duplicazione degli stimoli – spiega Eco 1985) – (che talora funziona come se ci fosse una duplicazione e del mio corpo oggetto, e del mio corpo soggetto che si sdoppia e si pone di fronte a sé stesso), questo furto di immagine, questa tentazione continua di ritenermi un altro, tutto ciò fa dell’esperienza speculare una esperienza assolutamente singolare>>..
Del resto, diversamente da altri animali, la nostra specie, crescendo, diventa catottrica, acquisisce cioè la capacità di riconoscere la propria immagine riflessa.
Il fenomeno del riconoscersi, dell’identificarsi con quel corpo riflesso – già materia di studio dello psicanalista Jacques Lacan che, in un famoso scritto nel 1949, designa con “stadio dello specchio” la fase dello sviluppo umano fra i sei e i diciotto mesi – è un’esperienza cenestesica (nota 4) fondamentale nello sviluppo della nostra identità che, se è vero che ha inizio da bambini, non smette da adulti, in un gesto che ci accompagna ogni mattina, potenzialmente fino alla fine dei nostri giorni.
Nota 4. Dal greco koiné (comune) e aisthesis (sensazione, percezione), il cenestetico (o cinestetico) è il canale sensoriale relativo alle impressioni fisiche sia esterne (tattili) sia interne (sensazioni ricordate, emozioni).
Ma cosa cerchiamo, esattamente, nello specchio? E in quale misura l’immagine di “quel” corpo riflesso ha a che fare con “questo” corpo percepito in carne ed ossa?
<<Ogni volta che ci mettiamo davanti allo specchio per truccarci, fare la barba, vestirci, pettinare i capelli e così via non facciamo altro che adeguare il nostro aspetto esteriore a una certa immagine di noi che è, a tutti gli effetti, una sintesi tra il contesto storico, sociale e culturale in cui siamo immersi, la nostra autopercezione e quello che decidiamo di proiettare all’esterno, vale a dire il modo in cui vogliamo essere visti>>, riporta l’antropologa Cristina Cassese (2023), avvalorando l’idea dello specchio come di quello strumento che facilita lo svolgimento di una grandiosa gamma di tecniche del corpo dal carattere riflessivo, agite da noi su noi, che si inscrivono fra i processi che Francesco Remotti ha definito “antropopoietici”, cioè capaci di renderci umani.
Specchi deformanti
Davanti allo specchio, in quest’ottica, ci troviamo di fronte a un “io” che ci dà del “tu”, in un’esperienza niente affatto passiva: l’immagine del noi riflesso non si limita a colpirci, ma ci interroga attivamente, ci propone percorsi, ci guida all’interazione offrendoci un punto di vista inedito dal quale guardarci come se fossimo altri e promettendoci contemporaneamente che mondi diversi (e perturbanti) sono possibili.
Nello specchio, il familiare e l’estraneo coesistono ambiguamente, un po’ come visione egocentrica e allocentrica. E, aggiungerei, un po’ come quel bisogno di “piacersi” e “stare bene con sé” che cela, presupponendolo, quello di “piacere” e “stare bene con gli altri”.
Se, scrive Semi (ibidem), <<Narciso si rispecchia nell’acqua della sorgente e quando scoprirà l’enigma dello specchio, quando comprenderà di essere lui stesso riflesso dalla superficie dell’acqua, avvertirà il dramma suo e di tutti coloro per i quali l’altro non esiste>>, a partire dalla teoria dell’oggettivazione delle psicologhe Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts l’attuale rischio insito nello specchio potrebbe forse essere quello di dimenticare l’esistenza di sé lasciando esistere unicamente gli altri.
Focalizzarsi sull’immagine del proprio corpo allo specchio nella speranza che restituisca una visione aderente al modello estetico socialmente desiderabile (quel “piacere” di cui sopra) non insegna solo a guardarsi dall’esterno come sorveglianti interiorizzando uno sguardo esogeno, ma affievolisce la consapevolezza enterocettiva del corpo (lo stare bene con sé?) e incrementa l’insorgenza di depressione, disfunzioni sessuali e disturbi del comportamento alimentare, spalancando le porte all’auto-oggettivazione, una condizione psicologica che promuove la visione allocentrica del corpo e il darsi valore solo in relazione alla propria esteriorità, osservata per il tramite dello sguardo altrui. (nota 5)
In altre parole, nel rivelarci una verità fin troppo spietata di “quel” corpo rifratto, lo specchio ci induce a deformare la percezione di “questo”, incarnato, al di qua della superficie riflettente.
Nota 5: Secondo la teoria dell’oggettivazione elaborata nel 1997 da Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts, gli individui trattati come oggetti, strumenti, materia, si deumanizzano riducendosi a frammenti funzionali agli scopi altrui. L’approdo all’auto-oggettivazione è la naturale conseguenza: più si ha la sensazione che ci guardino, più si impara ad anticipare quegli sguardi con i propri, interiorizzando un punto di vista esterno e attuando, come controllori di sé, tutti i meccanismi dell’auto-sorveglianza del corpo.
Dal narcisista alla cultura del narcisismo
A giudicare dall’insistenza con cui Grimilde, la strega matrigna di Biancaneve, interpella l’onnisciente specchio magico per sincerarsi d’essere “la più bella del reame”, è lecito pensare che quella della regina sia paura di invecchiare e di perdere, così, la sua bellezza. Un’ossessione che, lungi dall’essere una smania tutta individuale, è un fenomeno socioculturale esteso e pervasivo.
Nel 1979, Christopher Lasch documenta l’ascesa del narcisismo come sindrome della moderna società occidentale caratterizzata dal modello economico neoliberista, particolarmente adatto ad accogliere tratti come l’individualismo, la febbre del denaro o il culto per l’immagine.
Oltre il tramonto di qualsivoglia coscienza generazionale e senso di comunità, oltre al venire meno del senso di continuità storica a favore di una temporalità limitata come quella dettata dalle mode, oltre all’affermarsi di una forma cronica di bullismo ed esclusione nei confronti dei non conformi, oltre all’ascesa di un modello edonistico, fra le maggiori conseguenze dell’affermarsi della società narcisistica c’è l’esaltazione dell’aspetto fisico e del mito dell’eterna giovinezza.
Nella società passata in esame da Lasch, le narrazioni circa la vecchiaia e la morte, sia che vengano intese come questioni di ordine sociale che di ordine medico, sono problemi da risolvere che generano un terrore precoce (quello tipico della crisi di mezza età) che, per lo studioso, è intimamente collegato all’emergere della personalità narcisistica nella società contemporanea (Lasch, 1975).
<<Il narcisista – scrive Lasch (ibidem) – ha bisogno di suscitare ammirazione per la propria bellezza, il fascino, la celebrità e il potere – attributi che di solito svaniscono col tempo. Incapace di sublimare amore e lavoro, scopre di avere ben poco su cui appoggiarsi quando la giovinezza lo abbandona”. Legato inestricabilmente al mito dell’autorealizzazione continua, non accetta vincoli, non nutre interesse per il futuro, non trae la minima consolazione nella consapevolezza di poter vivere vicariamente nei propri posteri e non si rassegna alla propria sostituzione generazionale (Lasch, ibidem).
La “degradazione dello stato di anzianità” rende la terza età un flagello da abolire o, meglio, “estirpare” e al cui posto preferire una vita prolungata indefinitamente in cui diventare la propria stessa posterità. Un progetto incastonato in un eterno presente che, lungi dal ricercare una contezza di sé o aspirare a un modo per restare nella memoria delle generazioni successive, è teso alle contingenze del qui ed ora, laddove essere corrisponde all’essere visti.
BIBLIOGRAFIA
Cassese, C. (2023), Il bello che piace. Enrico Damiani Editore e Associati, Brescia.
Eco, U. (1985), Sugli specchi e altri saggi. Bompiani, Milano.
Gancitano, M. (2022), Specchio delle mie brame. Einaudi, Torino.
Lasch, C. (1979), La cultura del narcisismo. Bompiani, Milano.
Semi, A.A. (2007), Il narcisismo. Il Mulino, Bologna.
Vigarello, G. (2007), Storia della bellezza. Il corpo e l’arte di abbellirsi dal Rinascimento a oggi. Donzelli, Roma.
SITOGRAFIA
La Repubblica. “Da “pro-age” a “body-neutral”: le nuove parole della bellezza”, 2 settembre 2022. https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2022/09/09/news/le_nuove_parole_della_bellezza_proage_body_neutrality_healthification_filorga-364605360/ – ultima consultazione 1° aprile 2024.