di Jessica Facoetti
La morte non è la più grande perdita nella vita.
La più grande perdita
è ciò che muore dentro di noi
mentre stiamo vivendo.
(Cousins N., 1974)
Sono svariate le prove difficili a cui un uomo spesso deve far fronte in una vita. E dinnanzi a queste talora si sperimenta un senso di insicurezza, perdita, sconforto, paura, impotenza. Probabilmente la pandemia da Covid-19 ha racchiuso tutto questo e più. Siamo stati costretti ad allontanarci fisicamente gli uni dagli altri, a sottostare a regole rigide e scomode, ad affrontare un nemico invisibile e minaccioso, a fare i conti con un costante e inquietante bollettino di morte quotidiano. E poi abbiamo ripreso (o quanto meno ci abbiamo tentato) in mano le nostre vite, cercando di ricominciare, per quanto possibile, da dove le avevamo lasciate. Ma, per quanto invisibile fosse questo nemico, altrettanto invisibili non potevano essere le sue conseguenze. E se da un lato questa voglia di ricominciare con le nostre quotidianità ci ha aiutati ad andare avanti e a reagire, dall’altra può aver funto da “copertura”, negando così le conseguenze emotive, affettive, relazionali e sociali che senz’altro ha avuto su ciascuno di noi.
Ognuno di noi, in varia misura, è stato colpito da questa pandemia mondiale. Molti professionisti della salute mentale hanno assistito a un cambiamento non indifferente nelle richieste di aiuto, nel proprio studio privato come nelle strutture sanitarie.
L’utenza è stata ed è assolutamente variegata, ma secondo alcune ricerche “fra le fasce di persone interessate maggiormente dagli effetti dello stress da coronavirus sicuramente quella giovanile risulta una delle più colpite, in quanto la pandemia ha determinato un netto ridimensionamento di quanto nell’adolescenza viene generalmente percepito come invulnerabilità e visione di un futuro senza fine” (Santovecchi e Tumietto, 2021). Ed è proprio attorno alla fine, alla morte, alla limitatezza del sé e del proprio corpo che vogliono andare le riflessioni proposte dal presente articolo. Tutti aspetti della vita verso i quali i giovani si ritrovano a confrontarsi nella loro naturale crescita ma che, proposti arrogantemente da una pandemia globale, dove il compagno quotidiano era: <<La paura [costante di] qualcosa che è vivo, reale e allo stesso tempo invisibile, impalpabile>> (ibid.), essi non hanno avuto modo di affrontare con tempi e modi a loro consoni. Inoltre, risulta fondamentale che il contesto sociale accompagni i giovani in queste esplorazioni profonde, complesse e talora rischiose, che la famiglia, la scuola, la comunità seguano i loro ragazzi con coraggio, senza lasciarli soli.
Secondo vari studi (Panchal et al., 2021; Racine et al., 2021) in bambini e ragazzi si è assistito a un inasprirsi dei sintomi già in corso nel 41% dei casi e tra i disturbi più comuni vi sono disordini del sonno, depressione, autoreclusione, aggressività sia etero che autodiretta, con un importante aumento dei disturbi della condotta e dei gesti autolesivi (dal 16 al 73%), somatizzazioni e sviluppo di dipendenze.
Come dimostrato da una ricerca condotta dall’Ospedale Bambino Gesù di Roma (2021), si è registrato un significativo aumento delle richieste di aiuto tra i giovani e giovanissimi per le forme più gravi di psicopatologia, in particolare diretti e violenti attacchi al proprio corpo e alla propria vita, con crescenti fenomeni di autolesionismo e comportamento suicidario. <<Nel mese di aprile 2020 il 61% delle consulenze neuropsichiatriche ha riguardato fenomeni di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, rispetto al 36% dell’aprile 2019. A gennaio 2021, durante la seconda ondata pandemica, il 63% delle consulenze è stato effettuato per ideazione suicidaria e tentativo di suicidio, rispetto al 39% del gennaio 2020, con un conseguente aumento delle ospedalizzazioni per le stesse problematiche, passate dal 17% nel gennaio 2020 al 45% del totale nel gennaio 2021. I comportamenti autolesivi, soprattutto lesioni da taglio, sono stati rilevati nel 52% dei ricoveri di gennaio 2021, in aumento rispetto al 29% dell’anno precedente>>. Sconcertante risulta essere anche la precocità di questi disturbi. All’interno della medesima ricerca è stato rilevato infatti un abbassamento di età rispetto a prima della pandemia, con richieste di aiuto e ricoveri: <<Per autolesionismo e tentato suicidio anche di bambini di 10-11 anni>>.
Relativamente all’attacco al corpo, rilevante è anche l’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare nell’età compresa tra i 12 e i 25 anni, che ha registrato un significativo aumento del 30% dei casi, in particolare di anoressia e bulimia (ANSA, 2020). Anche una ricerca condotta dall’Ospedale San Raffaele di Milano conferma tali risultati (2021), sottolineando anche l’acuirsi dei sintomi del comportamento alimentare preesistenti e un abbassamento dell’età di esordio: <<Con ragazzini sempre più piccoli che soffrono di questi disturbi, anche di 11 anni, […] e un aumento dei ricoveri di minori di 14 anni>>.
Proseguendo nell’indagare l’aumento delle psicopatologie in epoca post-Covid, anche le dipendenze patologiche sembrano aver subito un incremento, anche se meno sostanziale rispetto alla psicosintomatologia precedentemente riportata. In particolare, il consumo di alcool sembra essere aumentato nella popolazione adolescenziale femminile: <<Con un consumo […] allineato a quello dei coetanei maschi […] rispetto al 2019>>, che è andato raddoppiando (ISTAT, 2021). Dalla stessa ricerca emerge inoltre un: <<Aumento dei ricoveri dei giovani droga-correlati, [in particolare di quelli] cocaina-correlati, in entrambi i generi, [aumentando anche] il numero di decessi>> a causa dell’abuso di droghe, emergendo nuovamente un quadro psicopatologico in cui l’attacco al corpo risulta centrale.
Proprio come centrale è stato posto il corpo in questa pandemia mondiale. Il nostro corpo ha dovuto isolarsi da quello altrui, vicino e a contatto col nostro fino al giorno prima; attraverso il corpo avveniva il passaggio del nemico invisibile, del virus, trasformando il primo in potenziale omicida e il secondo in potenziale cadavere; con numeri da bollettini di guerra abbiamo assistito a immagini di corpi senza vita portati lontano, senza poter dire loro addio; tanti di noi hanno vissuto il proprio dolore, fosse dovuto ai sintomi del Covid-19 o ad altro, in solitudine; persino un evento lieto, come quello della nascita, non è stato possibile condividerlo, neppure col futuro papà, e così è stato fino a non molti mesi fa. Corpi isolati, bisognosi dell’altro che, al contempo, avremmo dovuto temere. Corpi tenuti in scacco da una morte che aleggiava invisibile. E che forse continua ad aleggiare dentro alcuni di noi.
Notando le statistiche della tipologia delle psicopatologie in aumento tra i giovani, non si può fare a meno di notare che l’attacco al corpo e talora anche la sfida della morte sembrano essere ancor più presenti che in passato.
Relativamente al corpo, persino pratiche di modificazione corporea, come piercing e tatuaggi, sarebbero aumentate significativamente dopo la pandemia. <<Subito dopo il lockdown siamo stati presi d’assalto dai clienti. C’era voglia di imprimersi sulla pelle un simbolo di rinascita>>, spiega la tatuatrice milanese La Bigotta (Biancolatte, 2021), con un aumento del 376% delle richieste di tatuaggi rispetto a prima del 2020, senza distinzione di età.
C’è persino chi ha fatto di questa pratica una sorta di “autocura”. Chris Woodhead, un ragazzo con già svariati tatuaggi, è divenuto famoso per aver aggiunto alla sua collezione un tatuaggio al giorno per l’intero periodo di lockdown. <<Mi sono ritrovato a non fare nulla – spiega Chris – quindi l’idea di tatuarmi ogni giorno mi ha dato un po’ di forza. Senza far nulla le persone sono completamente perse>>, definendo “terapeutico” tale utilizzo del proprio corpo (Chiariello, 2020).
Questo utilizzo del proprio corpo mediante le modificazioni corporee potrebbe apparentemente sembrare svincolato dalle precedenti considerazioni psicopatologiche giovanili; tuttavia il corpo risulta assolutamente centrale in queste pratiche e il significato di esse è spesso ben più profondo del semplice abbellimento estetico. La letteratura psicoanalitica circa le modificazioni corporee, tra cui tatuaggi, piercing e trattamenti di chirurgia estetica, si è infatti approfonditamente espressa, rilevando come molti che ricorrono a tutto ciò stiano: <<In realtà perpetrando una violenza contro se stessi e/o l’altro inconsciamente identificato con il proprio corpo>> (Lemma, 2011). Combattere un nemico invisibile rappresenta un’ardua battaglia in quanto questi è un parassita che sfrutta i nostri corpi per sopravvivere e allo stesso tempo per colpirci. Difendersi da esso significa dunque in qualche modo fare i conti col proprio e altrui corpo.
Sempre l’autrice Lemma (ibid.) identifica infatti tre tipi di fantasie inconsce dietro al bisogno di ricorrere alle manipolazioni corporee: la fantasia di corrispondenza perfetta, quella di autocreazione e infine la fantasia di rivendicazione. E potrebbe essere in quest’ultima in parte che la modificazione corporea tenterebbe: <<inconsciamente di salvare il Sé da una presenza interna aliena o inquinante>>.
L’attacco al proprio corpo, che sia mediante la manipolazione corporea oppure con l’esordio o l’acuzie dei sintomi psicopatologici descritti, potrebbe rappresentare allora da un lato un tentativo di salvataggio del Sé e dall’altro un modo per gestire un dolore tanto grande, quello psichico, causato dalla consapevolezza di non poter fare quasi nulla per difendersi da quel nemico talora mortale verso cui il proprio corpo risulta impotente.
Così: <<La nuova attività del recluso diventa attaccare il proprio corpo provocandogli un dolore che sostituisca quello psichico>>, a volte più insopportabile e ingestibile di quello fisico, spiega lo psicoterapeuta Pietropolli Charmet (2022). E prosegue sostenendo che: <<Il virus stesso, in certi casi, [potrebbe avere] assunto nella mente di alcuni ragazzi le caratteristiche di una presenza aliena, […] di un fantasma>>. E, come tutti i fantasmi, esso non lo si poteva vedere, toccare, esperire attraverso alcun organo di senso, eppure la sua presenza era tanto reale, sofferta e ingombrante. “La manipolazione violenta del corpo [potrebbe allora] corrispondere, nel vissuto del soggetto, a una difesa rispetto a un’entità ostile e nemica della propria sopravvivenza. […] Il proprio corpo [era] invaso da una presenza straniera […] che andava combattuta attaccando il corpo reale>>.
E questa presenza “aliena”, “straniera” non era ‘solo’ quella del virus. L’inquilina più scomoda e pericolosa della pandemia è stata la morte, portatrice della sua più grande e immensa delle conseguenze, la fine della nostra vita che scorre all’interno del nostro corpo.
Il dolore psichico più grande che l’uomo possa esperire è forse la consapevolezza della propria mortalità, non dal punto di vista cognitivo, cosa che sappiamo e comprendiamo molto bene, ma emotivamente e affettivamente, e di non poter controllare o modificare questo certo e infausto destino.
A tutti noi la morte si è arrogantemente imposta in questa pandemia mondiale. Questo non significa tuttavia che tutti noi l’abbiamo affrontata, elaborata, inserita e accettata nella nostra vita. Per ognuno ciò ha rappresentato una sfida immensa e talora insostenibile.
Ma prima di addentrarsi in queste considerazioni potrebbe valer la pena domandarsi come la morte venga guardata ed elaborata nella nostra società moderna. Quest’ultima infatti si pregia di essere caratterizzata da apertura di pensiero e capacità nell’affrontare le tematiche sociali e politiche più scomode, superando ogni tabù.
Ma siamo sicuri che sia proprio così?
<<Ma tu hai mica capito dov’è andato mio nonno>>”
Questa la domanda chiara e innocente di una bambina di sei anni all’interno del contesto psicoterapeutico, la quale ha proseguito argomentando impeccabilmente che il nonno: <<(…) è morto. Perché è anche ‘andato via’? Via dove?>>.
Una domanda scomoda per noi adulti che spesso ci affanniamo a nascondere o quanto meno a edulcorare delle risposte a quesiti difficili che i nostri bambini e ragazzi, a brucia pelo, ci pongono, assetati di conoscenza ma soprattutto bisognosi di chiarezza.
Un ragazzo, sempre all’interno della psicoterapia, mi domanda invece: <<Come mai non si può parlare di morte agli adulti perché se no si incazzano?>>, riportando una serie di esempi in cui i propri adulti di riferimento si erano molto irrigiditi e innervositi di fronte a domande sui temi della vita e della morte, cercando di eluderne l’esplorazione assieme a lui.
Ve ne sarebbero tanti altri di esempi di questo tipo, cresciuti di parecchio numericamente, ma anche “di profondità” negli ultimi tre anni. Esempi di stupore e talora anche di rassegnazione o rabbia di bambini e ragazzi che si domandano quando e con chi se ne può parlare della morte.
Con chi, se non con noi adulti, che di vita e spesso anche di morte ne abbiamo vista e che dovremmo averci capito qualcosa?
Mi racconta una professoressa di Liceo che è rimasta letteralmente schiacciata dal bisogno dei ragazzi di parlare della morte una volta ripresa la presenza a scuola dopo l’ondata pandemica. Chi aveva bisogno di parlare del proprio papà sfuggito miracolosamente alla Terapia Intensiva; chi del nonno morto da solo in una RSA; chi dell’impressione e dell’inquietudine data dalle immagini di quei camion colmi di un numero inimmaginabile di cadaveri; chi dei pensieri circa la propria mortalità e il terrore di questa fine certa. Tutte queste domande e il bisogno di condividerle possono effettivamente schiacciare noi adulti, toglierci il fiato e la possibilità di muoverci, spingendoci magari a scappare da lì.
Del resto, appena usciti dalla morte bisognava parlare della vita. Così facendo, sarebbe andato tutto bene. O no?
<<Guardare alla morte è come fissare direttamente il sole: si riesce a sopportarlo solo per poco>>. Con questa immagine, il professor Irvin Yalom (2017) affronta il tema della morte, in particolare della paura ad addentrarsi introspettivamente in tale tematica. L’angoscia di morte elicitata da queste esplorazioni può essere insostenibile da guardare in faccia, fino al punto di “bruciarci”. Distogliere lo sguardo da essa e dunque difenderci negandola può essere apparentemente la strada più facile, sicura e confortevole.
Per riuscire a tollerare questo bruciore e a scoprire effettivamente cosa c’è dietro a quella luce dolorosa e accecante bisogna starci a sufficienza, magari attrezzandosi con dei “filtri” i quali però ci consentano di vedere senza nascondere. Infatti: <<Fissando la luce, poco per volta, ci si abitua>> (ibid.).
Eppure la tentazione di guardare altrove rimane la più attraente.
<<Noi ci diamo da fare come se non credessimo affatto alla nostra morte, come se fossimo pienamente convinti dell’immortalità del nostro corpo. Ci impegniamo a dominare la morte […]. Ma tutto questo è chiacchiera e posa intellettuale. È appunto così che la paura viene repressa>> (Zilboorg, 1943). E reprimere non significa certo integrare ed elaborare, ma celare a sé. Tuttavia, l’angoscia di morte rimane lì, dentro di noi; non sentiamo un bruciore chiaro e netto come se la stessimo guardando negli occhi, ma un fastidio indistinto e continuo, più pericoloso della diretta scottatura.
Persino alcuni ambiti della psicologia e taluni orientamenti di psicoterapia non sembrano promuovere l’esplorazione della morte. Secondo lo psichiatra e psicoterapeuta Berra (2021): <<La Psicologia è stata sovente accusata di non aver mai affrontato veramente la morte, lasciandola in secondo piano o addirittura evitandola. Sembra che la psicologia si debba occupare più dei problemi della vita piuttosto che della sua conclusione>>. Secondo Berra, solo la visione psicodinamica e in particolar modo la Psicologia esistenziale ha preso una posizione più decisa, ponendola addirittura al centro delle sue teorizzazioni ed esplorazioni terapeutiche.
Dovrebbe farci riflettere il fatto che persino quelle che si proporrebbero come discipline coraggiose nell’affrontare le scomodità dell’interiorità umana temano di addentrarsi nel tema della morte. Il diniego sociale della morte è dunque molto radicato, è un vero e proprio tabù. <<La morte è oggi forse l’ultimo ed estremo tabù della società occidentale contemporanea; come il sesso era un tabù e oggi sembra aver perso parecchie delle censure relative a qualche secolo fa, oggi è la morte che appare circondata dai divieti, tabù che incidono sulla libera espressione di atteggiamenti, comportamenti ed espressioni>> (Gorer, 1955).
Gli esempi clinici riportati nel paragrafo precedente ben illustrano questo tabù. Troviamo giri di parole per non chiamare mai la morte col suo nome. Quante volte usiamo espressioni come “è mancato”, “se n’è andato”, “non è più fra noi”, al posto dei termini “morto” o “defunto”. Quante volte come professionista della salute mentale assisto a genitori sbigottiti all’idea di concedere la possibilità al proprio bambino di salutare il nonno o la nonna morti, di vederne la salma nella bara, quando è il bambino stesso a desiderarlo. Quante volte, in nome del “tatto”, evitiamo di domandare a una persona cara come si senta di fronte a un lutto e di parlare di questo in lungo e in largo, spesso con la frase di presunto incoraggiamento: <<Ora devi pensare ad andare avanti, a guardare avanti>>. Di fatto, non si sta mai davvero parlando della morte, non la si sta davvero guardando e affrontando; in realtà ci stiamo proteggendo dall’idea della nostra mortalità. <<Non si parla mai di morte, anche quando si sta benissimo e non incombe alcuna minaccia concreta e credibile>>, sostiene Pietropolli Charmet (2022), analizzando anch’egli come: <<La paura della propria morte non è pensabile perché seppellita dalla rimozione massiccia che i codici culturali prevalenti hanno provocato nella mente individuale e collettiva>>.
E così è accaduto anche in pandemia e in questi tre anni di ricerca di una presunta normalità in cui relegare la morte nel cassetto più lontano della nostra mente, dove era sempre stata. Prosegue infatti l’autore: <<Ho l’impressione che durante la pandemia gli adulti non abbiano discusso della morte con i ragazzi. È bizzarro perché la morte era presente e anche la minaccia era evidente. […] Gli adulti hanno preferito discutere di regole e di prevenzione, ma hanno evitato di parlare della morte, anche se la catasta dei cadaveri era impressionante. […] Non si parlava della morte perché riguardava direttamente i presenti>>.
Ci si potrebbe domandare allora quale introspezione possa essere possibile per un giovane del nostro tempo, alle prese con le capacità e i limiti del proprio corpo, scoperto sessuato e al contempo mortale, e con l’esplorazione più profonda del senso della vita e della morte, laddove l’adulto al suo fianco sia difeso e altrettanto spaventato da queste stesse cose, forse mai davvero affrontate ed elaborate.
Uno dei compiti evolutivi dell’adolescenza risiede infatti nel confrontarsi coi limiti del Sé e del proprio corpo e dunque con sessualità e mortalità. Come ci ricorda Winnicott (1986): <<L’angoscia adolescenziale è determinata anche dall’acquisita capacità di dare la morte, oltre che di generare la vita>>. <<Il tema della morte si incontra spesso anche nelle fantasie inconsce adolescenziali>> (Lancini, 2010), fantasie circa la propria morte e quella altrui, ed esse sono utili alla crescita e al superamento dell’angoscia stessa di morte. Al contempo, il ragazzo è impegnato anche nel delicato e <<complicato processo di mentalizzazione del [proprio] Sé corporeo: le trasformazioni innescate dalla pubertà richiedono un complesso lavoro intrapsichico non esclusivamente attribuibile alle nuove capacità generative e sessuali, ma determinato anche dalle nuove possibilità di dare la morte e potersi dare la morte>> (Lancini, 2010).
Il corpo si impone dunque come prova inconfutabile dei limiti mortali, elicitando naturalmente nel giovane una serie di riflessioni su vita e morte. <<Quando i ragazzi scoprono il loro nuovo corpo, quello che la natura gli regala dopo la pubertà e lo sviluppo sessuale, [essi] prendono atto che […] ha una data di scadenza (Pietropolli Charmet, 2022)>>. Lo psicoterapeuta prosegue sostenendo che: <<Una parte di loro [può rimanere] catturata e turbata dalla novità: alcuni temono che, se si muore, la vita non abbia senso e che darsi tanto da fare non serva a nulla. […] Una percentuale invece, più che spaventarsi, si incuriosisce e vorrebbe capire cosa avvenga dopo la morte del corpo>> (ibid.).
E così alcuni di questi ragazzi: <<Vanno a sfidare la morte, tanto per darsi la dimostrazione che […] la si può abbattere. […] Oppure si può prendere in considerazione la sua proposta e, invece di sfidarla, andare a vedere di cosa si tratta. […] Si tratta di quel numero crescente di adolescenti accompagnati da fantasie di suicidio che non diverranno comportamento vero e proprio, ma che in certi momenti possono consolare, presentandosi alla mente come alternativa a tutte le delusioni della vita>> (ibid.).
Il bisogno di tenere a bada l’angoscia di morte spingerebbe dunque il giovane ad avvicinarsi ancor di più ad essa e ad esplorarla.
<<Conosci il tuo nemico>>, afferma un adolescente durante una seduta di psicoterapia a proposito della morte, pochi mesi dopo la fine del lockdown. <<Non ricordo più quale condottiero diceva che se conosci il tuo nemico conosci te stesso>>. E così, da coraggioso condottiero, il ragazzo si prepara ad affrontare le battaglie della vita, con tutte le armi e le strategie a sua disposizione.
La scoperta della presenza nella vita della morte getta dunque scompiglio nell’adolescente, il quale tenta di difendersi dall’impotenza che ne scaturisce coi mezzi a sua disposizione, talvolta anche con quelli apparentemente disfunzionali e controproducenti. <<Attraverso la chiave di lettura psicodinamica, i cosiddetti comportamenti a rischio trovano un senso come modalità tipicamente adolescenziali di sperimentare nuove capacità e nuovi aspetti di sé, ma anche come necessario confronto con la paura innescata dalla scoperta della propria mortalità. [Questo consentirebbe al ragazzo di] sfidare e battere simbolicamente la morte, per poter proseguire nel percorso di crescita nonostante questa nuova e dolorosa scoperta>> (Lancini, 2010).
Nella pandemia la nostra quotidianità era pregna di morte e le energie che i nostri ragazzi hanno dovuto mettere in campo per lenirne l’angoscia e prendere, per quanto possibile, in mano le proprio vite non potevano bastare. Non è stato sufficiente battere simbolicamente la morte perché essa era troppo reale, troppo presente, eppure altrettanto relegata in un punto lontano della mente di molti di noi. L’impotenza di fronte alla morte ci soffocava forse anche più del virus stesso. E così abbiamo guardato altrove, lasciando spesso soli i nostri ragazzi ad affrontarla.
È così che le difese psichiche deputate al controllo dell’angoscia di morte in alcuni giovani si sono fatte ancora più forti e pressanti, portandoli a un attacco diretto, proprio come si fa in battaglia quando ci si rende conto che le armi e gli alleati per difendersi dal nemico sono troppo pochi o deboli e conviene fare la prima mossa. L’attacco a Sé sembra allora avere l’inconscio: <<Obiettivo di costringere il corpo a sottomettersi alle volontà e alle imposizioni del soggetto che vuole recuperare il dominio e il più radicale controllo>> (Pietropolli Charmet, 2022), controllo totalmente perso durante la battaglia-pandemia.
L’attacco al corpo e le psicopatologie che mettono quest’ultimo al centro nella manifestazione del disagio psichico possono essere allora letti come bisogno di spostare un dolore psichico intollerabile su uno evidentemente più tollerabile, quello fisico, così come tentativo di controllare la paura data dall’incertezza e dall’impotenza che la morte, non elaborata, ha lasciato nelle nostre famiglie e società.
Avvicinarsi e sfidare la morte, rischiando di rimanere intrappolati nelle sue grinfie, sarebbero tentativi estremi di affrontarla ed elaborarla.
Tornando al parallelismo con l’aumento delle modificazioni corporee nel periodo post pandemia e a come queste possano rappresentare una forma di attacco al corpo, l’autrice Lemma (2011) sottolinea come anche in queste pratiche: <<Uno degli elementi che colpiscono dei racconti di coloro che hanno segnato la propria pelle è la loro enfasi sull’importanza di “assumere il controllo”. […] Parlavano di tatuaggi e piercing come atti con i quali assumevano illusoriamente il controllo del loro corpo e, più in generale, della loro vita>>.
Anche in queste forme artistiche di attacco al corpo vi si rileva quindi un bisogno di controllo.
Pietropolli Charmet (2022) si domanda se non sia proprio tra i ragazzi intenti a conoscere da vicino il nemico Morte, terrorizzati dall’impotenza derivata da questo incontro e bisognosi dunque di controllarne l’angoscia: <<Che la pandemia ha raccolto il maggior numero di candidati disponibili a scegliere la morte o i suoi sottoprodotti, come l’autolesionismo>>.
<<Dimmi che senso ha la vita se poi si muore>>” (Pietropolli Charmet, 2022). La domanda delle domande. Quella a cui dalla nascita dell’uomo egli tenta di rispondervi, facendo spesso ricorso a filosofie e religioni e che, nonostante i cambiamenti culturali, storici e sociali, non ha ancora smesso di porsi. Non sono solo i filosofi o i grandi pensatori a chiederselo, ma qualsiasi individuo sulla terra, nel suo profondo e a proprio modo, si interroga sul senso dell’esistenza. Ma non qualsiasi individuo procede coraggiosamente in questa esplorazione.
Non il giovane. Egli vuole mordere la vita e non perdersene nemmeno un assaggio; vuole scoprire davvero di cosa si tratta, senza fronzoli, senza bugie, senza edulcoranti. L’adolescente ha tante domande sul mondo ed è: <<Affamato di verità, […] proteso alla ricerca spasmodica dei misteri di vita. […] Sapere può voler dire soffrire, ma la ricerca e la pratica clinica con i ragazzi e le ragazze confermano questa esigenza di verità e le ricadute sullo sviluppo causate dalla presenza nel contesto di crescita di importanti misteri e di aree del “non detto”. La percezione dell’esistenza di qualcosa di non dicibile e non accessibile favorisce [infatti] ipotesi ancor più catastrofiche di quelle reali e la produzione senza limiti di fantasie su quanto sta accadendo” (Meltzer, 1979).
Alla luce di queste considerazioni, varrebbe la pena domandarsi se sia stata allora la presenza costante della morte ad aver terrorizzato i ragazzi e a renderne impossibile la sua elaborazione; se quell’angoscia di morte inelaborabile sia stata la diretta conseguenza della morte stessa, portando i ragazzi a scegliere di avvicinarcisi ulteriormente, o se essi non vi abbiano scorto un’altra via da intraprendere perché non è stata loro proposta. Cos’hanno trovato essi oltre a morte, paura, impotenza?
Un grande silenzio. Un silenzio vuoto, un non-detto dell’adulto che li ha lasciati soli di fronte a domande di vita e di morte. Ma soprattutto un silenzio che li ha delusi.
Ritiene infatti Pietropolli Charmet (2022) circa i comportamenti a rischio analizzati che questi non sono frutto di momenti difficili né di banali impulsi adolescenziali. Il suicidio è: <<Sì un gesto impulsivo, ma [viene] preparato da anni o mesi di pensieri e fantasie che, se fossero stati intercettati da qualche adulto coraggioso, forse si sarebbero trasformati in parole invece che in gesti pericolosi o letali>>. E prosegue sostenendo che affinché un ragazzo ricorra: <<Al digiuno, ai tagli, ai gesti autolesivi, all’uso esagerato di droghe, è necessario che soffra per molto tempo segretamente, […] che il dolore e la confusione siano insopportabili e che si trovi forzato a ricorrere a comportamenti che gli consentono di mitigare la sofferenza. Nessun ragazzo minaccia il suicidio se non si sentisse braccato da una delusione immensa>>.
E forse la delusione più grande non è stata rappresentata dai limiti coatti e dalle incertezze che il Covid-19 ha imposto loro. L’immensa delusione è stata quella di non essere stati visti, ascoltati, accolti, accompagnati nei loro dubbi, paure e domande, nel non aver affrontato insieme a loro le sfide della vita e della morte, nel non aver messo in parola tutto il dolore che questo viaggio interiore non poteva non causare dentro di noi.
L’angoscia di morte non basta a distruggere, non è sufficiente a farci morire dentro. Non è la realizzazione della nostra finitezza a farci sentire impotenti e a farci temere di vivere la vita in quanto terminante nella morte. Quello che realmente ci fa sentire impotenti è la non pensabilità della morte. E una cosa per essere pensabile dev’essere dicibile, condivisa, serve qualcuno che vuole guardarla, ascoltarla e capirla insieme a te, è necessario non essere lasciati soli e trasformarla in parola.
Quando un ragazzo sceglie la morte alla vita è perché ci ha pensato parecchio alla prima, senza trovare ascolto e confronto in queste esplorazioni profonde. Un adolescente che attacca se stesso e che non vede alternative future se non la propria fine è un adolescente che ha trovato solo un grande, vuoto e angoscioso silenzio come alternativa al riempire di senso la vita e la morte.
<<Questi ragazzi non possono parlare con nessuno [dei loro pensieri di morte] perché sono certi che non esistano adulti disposti a prendere sul serio la loro preoccupazione; in parte perché si spaventano, ma soprattutto perché sembrano convinti che non si debba parlare di tentazioni suicidali: verbalizzarle è quasi sicuramente istigazione al suicidio e non prevenzione educativa. Così i ragazzi rimangono soli, in compagnia dell’idea della morte, le cui opportunità non riescono a capire veramente>> (Pietropolli Charmet, 2022).
<<Tutto questo silenzio sul pericolo incombente del contagio, presagio di morte possibile, e poi tutto questo dolore dei ragazzi, questa enorme paura della vita e della morte, queste fughe nella solitudine e nel silenzio sociale, le corsie di neuropsichiatria occupate come non succede mai e fuori una lunga coda in attesa di cure e di ascolto. Sarebbe successo lo stesso angoscioso fenomeno se durante la pandemia si fosse parlato apertamente della morte possibile e della necessità di lottare tutti insieme? […] Non avrebbe consentito ai giovani di pensare consapevolmente al pericolo incombente senza correre il rischio di ammalarsi di paura e di esprimere la loro strana relazione con la morte e la malattia facendosi del male o addirittura togliendosi la vita?>> (ibid).
Non è possibile rispondere con certezza a queste domande tanto difficili. È utile tuttavia, mediante esse, tentare di metterci in discussione come adulti che hanno l’importante compito di fungere da modello educativo per i nostri giovani.
Se non siamo infatti noi i primi ad addentrarci coraggiosamente nelle scomode domande esistenziali, i ragazzi si sentiranno sempre alla deriva, in un viaggio pericoloso e solitario tra i flutti, talora burrascosi, della vita e della morte.
Tuttavia: <<Per arruolare adulti coraggiosi bisogna riuscire ad abbattere la cultura dominante che ha scelto la rimozione della morte e la delega a gruppi umani specializzati>> (Pietropolli Charmet, 2022); come se la morte possa essere affrontata e gestita solo da un punto di vista medico-scientifico e che la scuola, la famiglia e in generale i vari contesti socio-educativi non solo sia bene che non se ne occupino, ma che tentino attivamente di evitarla e tenerla lontana. Prosegue lo psicoterapeuta sostenendo che: <<Sarà molto difficile convincere genitori e docenti che il silenzio sulla morte le regala un immane potere suggestivo nei confronti di ragazzi indeboliti dalle delusioni. E la pandemia è stata la più grave delusione che si potesse immaginare>>, parlando di essa nei termini di una “sconfitta educativa” (ibid.).
Ma per poter ipotizzare: <<Nuovi percorsi attraverso i quali costruire nuovi orizzonti di senso da assegnare al proprio percorso esistenziale>> da proporre ai nostri giovani, approdando a quella che Mantegazza (2004) definisce una “pedagogia del morire”, è da e nei confronti di noi stessi che l’educazione deve partire; e sarà così attraverso noi stessi che tale insegnamento esistenziale si trasmetterà ai ragazzi.
Se non abbiamo paura di scottarci e riusciamo a sostenere abbastanza a lungo lo sguardo verso quelle realtà della vita e della morte scomode e talora accecanti, se non temiamo di intraprendere e percorrere quel: <<Percorso esplorativo di sé e del proprio limite mortale, uscendone in un certo senso trasformati>> (Versace, 2019), se non riusciamo a rendere pensabile e mettere in parola, in primis con noi stessi, quanto emerso da tale percorso introspettivo, i nostri ragazzi potrebbero non essere in grado di farlo da soli, scegliendo di perpetrare il diniego della cultura dominante o di sfidare la morte in una lotta impari.
Una trasformazione di questo tipo implica allontanarsi dalla riva sicura, viaggiare alla scoperta, perdersi e poi ritrovarsi in qualche modo cambiati da questo viaggio. Questa trasformazione comporta in un certo senso una rottura di sé, per poi poter procedere in continuità col nostro essere, ma al contempo diversi, rigenerati. <<Di fronte alla propria naturale impotenza dettata dal dover morire […] l’io va spezzato per divenire persona autentica>> (Kierkegaard, 1965); per raggiungere: <<Il nostro “io” più autentico, ciò che siamo, senza vergogna e senza maschera, è necessario svelare quanto di più sconcertante ci sia sotto i differenti “strati” che avvolgono l’essere umano e lo strato ultimo e profondo è appunto quello della paura della morte>> (Versace, 2019).
Per una trasformazione di questo tipo serve coraggio.
Andare oltre alla paura e al senso d’impotenza di fronte alla morte, disvelando <<L’implicito, il nascosto, il buio, il rimosso>> (Iori e Bruzzone, 2015) e riconoscendo e accettando il mistero della vita e della morte, mai pienamente comprensibile, è l’unico modo per: <<Estendere le stesse dimensioni dell’esistenza, [passaggio] indispensabile ai fini di un’educazione che voglia oltrepassare le proprie “ombre” e approdare a una maggiore consapevolezza di sé in relazione alla propria condizione umana” (ibid.).
Con la rottura del tabù della morte e del relativo vuoto e angoscioso silenzio di fronte ad essa e la proposta di una strada percorribile insieme, in cui l’adulto consapevole e coraggioso accetti di camminare al loro fianco in questo viaggio esistenziale, i nostri ragazzi forse non saranno spinti a scegliere quelle pericolose scappatoie che vanno a solleticare la morte, se non a stringere patti con essa, non trovando altre vie; sceglieranno invece di inserirla armonicamente nella propria vita, ampliando i propri orizzonti esistenziali e scorgendo nuove e costruttive possibilità per sé.
Ci ricorda la grande scrittrice Anais Nin (1939-1944) che: <<La vita si restringe o si espande in proporzione al nostro coraggio>>.
Se saremo allora noi i primi ad intraprendere coraggiosamente questo impegnativo viaggio, la nostra maturata consapevolezza saprà forse “contagiare” anche i nostri giovani, che decideranno di percorrere le stesse strade con altrettanto coraggio.
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