La professione psicologica agli esordi
La storia della nostra professionalità si sviluppa in qualche modo in parallelo con i cambiamenti culturali e sociopolitici che hanno portato alla L.180 e alle altre leggi che hanno rivoluzionato i servizi pubblici. I primi laureati in Psicologia escono dai corsi di laurea nel 1974, quattro anni prima della L.180. Prima di allora i pochi psicologi, operanti negli Ospedali Psichiatrici, erano prevalentemente laureati in Scienze Umanistiche e specializzati in Psicologia clinica.
Le prime esperienze antistituzionali risalenti ai primi anni 60 portarono già nel 1969 alla legge 431/69, che quasi dieci anni prima della legge 180, prevedeva che in ogni Ospedale Psichiatrico ci fosse: “Un Direttore psichiatra, un medico igienista e uno psicologo e per ogni divisione un primario, un aiuto ed almeno un assistente e idoneo personale per assistenza sociale”.
In Liguria erano stati assunti cinque psicologi, tre nell’Ospedale Psichiatrico di Ge-Quarto e due in quello di Cogoleto. I C.I.M. (Centri di Igiene Mentale) erano tre nella città di Genova, alle dipendenze dell’Amministrazione Provinciale, come gli Ospedali Psichiatrici. I C.I.M. dovevano avere almeno uno psicologo insieme a psichiatri ed infermieri.
Trasversalità della Psicologia
La L.180/78 prima e la 833/78 subito dopo, insieme alle precedenti leggi sulla cura delle tossicodipendenze 685/75 e sulla istituzione dei consultori 405/75 e la 194/78 sull’interruzione di gravidanza, hanno rivoluzionato i servizi sociosanitari nelle nuove funzioni, non solo di cura ma anche di prevenzione della salute fisica e mentale, anticipando i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che saranno emanati dal Ministero della Salute 40 anni dopo.
Queste leggi, soprattutto nei primi anni della loro applicazione, hanno permesso che gli aspetti psicologici rientrassero in numerose attività del SSN e in diversi ambiti: nella prevenzione, nella promozione della salute, nella cura, nella riabilitazione e nell’organizzazione. La professione psicologica nell’SSN interessa diversi target dell’utenza che si rivolge ai servizi, dal paziente al suo familiare, dall’operatore al sistema organizzativo. La recente emergenza sanitaria, dovuta alla pandemia da Covid- 19, ha inoltre reso ancora più evidente la valenza sociale della professione e la funzione di connessione naturale che essa può esercitare tra aspetti sanitari e sociali.
Inoltre queste leggi hanno permesso che si formasse la cultura dell’equipe, perché operatori con diverse formazioni e funzioni furono chiamati a prendere in carico il paziente con psicopatologia grave, che in virtù della legge 180 si tentava di reinserire all’interno della sua famiglia d’appartenenza o in strutture comunitarie quali case famiglia, residenze-alloggio, comunità terapeutiche o riabilitative, per chi non aveva una famiglia entro la quale ritornare dopo anni di ricovero in Ospedale Psichiatrico.
Per chi, come me, ha vissuto quel periodo dalla parte dell’operatore, sa come questo passaggio sia stato difficile e doloroso per tutti, operatori, pazienti, familiari, e tuttavia necessario. Si trattava di un lavoro di equipe che aveva profonde valenze psicoterapeutiche; di un intervento che non faceva riferimento ad alcuna delle teorie della tecnica che caratterizzavano le scuole di psicoterapia che si struttureranno nella forma attuale molti anni dopo; un intervento che non si fondava su setting e condizioni di lavoro definite, ma che traeva la propria prassi dagli obiettivi perseguiti.
Basaglia e la Legge 180, Psicoterapia Istituzionale, Modello dell’integrazione funzionale di Zapparoli
Le più importanti innovazioni contenute nella legge sono state possibili per il clima sociopolitico di quegli anni di trasformazione, per l’esperienza Basagliana ispirata dalla Fenomenologia e dai filosofi dell’Esistenzialismo, per il contributo dell’antipsichiatria britannica di Laing e Cooper, del modello della comunità terapeutica alternativa al manicomio di Maxwell Jones, della Psicoterapia Istituzionale di J. Oury e F. Guattary. Un modello che ho avuto la possibilità di approfondire con un’esperienza di stage nei primi anni della mia formazione psicologica.
Mentre Basaglia aveva riposto le sue aspettative in trasformazioni sociali radicali che avrebbero dovuto investire la società intera, Laing, Cooper e gli psicoanalisti francesi avevano orientato maggiormente la loro attenzione nelle comunità terapeutiche, come modelli sociali tolleranti e non escludenti, modelli pilota per così dire, a cui la società avrebbe dovuto guardare per apprendere nuove forme di socialità.
Inoltre, non dimentichiamo che molti psichiatri e psicologi, anche nel contesto ligure, sono stati influenzati positivamente dalle esperienze di cura non solo farmacologica di J.P. Racamier, di S. Resnik, di G.C. Zapparoli, di G. Benedetti. Le scuole di specializzazione in psichiatria, della Clinica Psichiatrica di Genova di cui F. Giberti, R. Rossi e C. Conforto sono stati i principali maestri e quella di Pavia, diretta da F. Petrella, hanno formato generazioni di psichiatri e anche di psicologi. Ciò a sottolineare che oltre al modello fenomenologico, anche altri modelli come quello psicoanalitico e sistemico relazionale hanno accompagnato la trasformazione dei nostri servizi.
Qui vorrei soffermarmi sul modello di G.C. Zapparoli (1988, 2009) che offre uno stile di lavoro clinico in psichiatria, improntato all’essenzialità e all’efficacia dell’intervento e volto a: differenziare i bisogni, reperire risorse, integrare gli interventi, personalizzare il percorso terapeutico-riabilitativo del paziente. Questo modello ha influenzato il lavoro istituzionale di molti Centri e Servizi di Salute Mentale, distribuiti nel territorio Nazionale, che hanno usufruito a partire dagli anni ‘90 e fino alla seconda metà del 2000, di formazioni specifiche per la cura dei pazienti psicotici.
Il modello dell’integrazione funzionale si è sviluppato nell’arco di 40 anni ed è basato sull’approccio multidisciplinare integrato per il trattamento dei pazienti gravi. Modello che nasce da una base teorica ben precisa: la malattia mentale si fonda su una concezione multidimensionale della salute e della malattia ed è generata e mantenuta da fattori biologici, psicologici e ambientali (Engel,1977). Per affrontare la malattia mentale bisogna operare su tutti e tre i fronti, anche se con tempi e modalità diversi.
Fulcro della terapia integrata è l’individuazione dei bisogni specifici del paziente psicotico e della conseguente necessità di attuare interventi diversificati a livello farmaco-terapeutico, psico-terapeutico, assistenziale e riabilitativo. Con il termine bisogni del paziente psicotico vengono intese sia le necessità di separazione-individuazione che le sue necessità di mantenere il rapporto simbiotico e quindi le resistenze al cambiamento, che fanno da sfondo all’alleanza terapeutica. L’ascolto della storia della persona insieme all’individuazione dei bisogni specifici e la formulazione della diagnosi, che dovrà essere funzionale e non solo nosografica, sarà volta a verificare l’idoneità o meno del paziente all’autoconservazione, a comprendere paure e difese, le resistenze, le risorse proprie e del contesto familiare e ambientale, le spinte di emancipazione, le scelte di autoterapia. (Zapparoli,2004).
La peculiarità di questo modello è rappresentata dal porre al centro della cura del paziente, sia grave che meno grave, oltre al rilevamento dei suoi “bisogni specifici”, anche i suoi tentativi di auto-cura così come l’integrare i tentativi di autocura del paziente con i tentativi di autocura dell’esperto (G.C. Zapparoli,2008)
Perché il modello integrato è così difficile da realizzarsi?
La terapia integrata basandosi sulla multifattorialità della eziopatogenesi della malattia mentale può essere attuata solo con un lavoro di equipe multidisciplinare, fondamento di un modello contrapposto a quello biomedico o a quello sociale. La costituzione dell’equipe spesso solleva resistenze che nascono dalla messa in crisi del ruolo solitario e onnipotente del terapeuta che deve dividere/condividere, contenendo l’ambivalenza e/o la rivalità, il peso e la responsabilità del paziente psicotico. Una equipe che funziona è un formidabile strumento terapeutico perché assicura allo psicotico uno dei suoi bisogni fondamentali: il bisogno di continuità. Zapparoli a questo proposito parlava di “equipe eterna”.
Psichiatria, Salute Mentale, Comunità Terapeutica, Psicologia di Comunità?
Nella recente 2ª Conferenza sulla Salute Mentale, voluta dal Ministero della Salute e alla quale hanno partecipato, tra gli altri, rappresentanti dell’Ordine Nazionale degli Psicologi e una rappresentante della Consulta delle Società Scientifiche di Psicologia e Psicoterapia (giugno 2021), sono emerse le numerose criticità nella quale versa la cura psicologica dei pazienti psichiatrici. Basti pensare che dai dati dell’ultimo report del SISM (Sistema Informativo Salute Mentale, Ministero della Salute, marzo 2021), emerge che le prestazioni psicologiche/psicoterapeutiche erogate a tutta la popolazione afferente ai CSM (Centri di Salute Mentale) comprende solo il 6.4%, di cui solo il 2,4% sono state riservate a pazienti con diagnosi gravi (depressione maggiore, disturbi della personalità e del comportamento, mania e disturbi bipolari, schizofrenia e altre psicosi funzionali).
È stato sottolineato l’incremento della durata del ricovero nelle strutture residenziali, che per i pazienti più difficili e resistenti al cambiamento sembrano rappresentare più “case per la vita” che non luoghi di cura e riabilitazione. Tra le altre criticità sono state sottolineate: la difficoltà dei servizi di salute mentale di intercettare la morbilità psichiatrica in fase iniziale, i diritti dei pazienti e la ormai cronica carenza di personale. Il numero di professionisti destinati ai Servizi della Salute Mentale, a mio parere, non sarà mai sufficiente se l’incremento degli operatori non sarà accompagnato da un modello clinico ed organizzativo realmente non influenzato da posizioni ideologiche o dalla resa sconsolata, nonostante le dichiarazioni, al modello biomedico, di fatto mai abbandonato. Di ciò ne è la prova l’uso prevalente di interventi psicofarmacologici a scapito di interventi psicologici e riabilitativi.
Riprendo qui le parole del presidente Lazzari (CNOP) che dichiara: “E’ amaro constatare che nonostante siano passati più di 40 anni dalla tanto declamata Riforma Basagliana, l’organizzazione dei Servizi di Salute Mentale sia imperniata sulla sola disciplina di psichiatria e solo recentemente dalla neuropsichiatria infantile, mentre non c’è ancora un posto significativo per la disciplina psicologica nonostante le evidenze di efficacia dei trattamenti psicologici e psicoterapici”. Trattamenti ampiamente sottoutilizzati come dimostrato dai dati del SISM. I nostri rappresentanti della Comunità professionale e scientifica hanno portato proposte e contributi, che sono stati accennati nel documento conclusivo dei tavoli per la parte dei principi generali ed ignorati negli obiettivi finali di sintesi.
La Conferenza era organizzata in diverse sessioni ad alcune delle quali ho avuto l’occasione di partecipare e di produrre un breve contributo. Non sono mancati richiami all’importanza del lavoro di equipe e a quello dell’integrazione dei modelli e degli interventi, ma a mio parere l’integrazione si può realmente attuare a patto che ogni singolo operatore sia capace di rinunciare alla pericolosa dose di autoreferenzialità.
Il modello della Comunità terapeutica come luogo non solo di socialità ma luogo di esperienza emozionale correttiva (F. Alexander, 1946) e di residenza emotiva (G.C. Zapparoli,2009) è tutt’ora un valido modello, mai superato. L’esperienza emozionale correttiva consiste nell’attivazione di una speranza, ossia quella relazione di interesse e di affetto che è il principale fattore terapeutico che sta alla base di ogni alleanza terapeutica, di ogni compliance alla cura farmacologica, di ogni relazione terapeutica che porta ad un miglioramento non solo nella condizione sintomatica ma nella qualità della vita dei nostri pazienti. La “residenza emotiva” per Zapparoli rappresenta la necessità di avere una casa emotiva in cui poter essere ospitati, ascoltati, accolti, intendendo per casa sia il luogo fisico (servizio, struttura residenziale, studio del terapeuta) sia la relazione costante con un operatore o con l’equipe.
La cura del paziente “psichiatrico” può essere molto lunga, ma può avere momenti di alta, di media e bassa intensità, a seconda del pensiero che l’equipe multiprofessionale riesce a mentalizzare;
Il duplice obiettivo del vivere in famiglia o per contro proprio e in alcuni casi anche lavorativo, può essere perseguito con la psicoterapia istituzionale svolta nelle strutture semi e residenziali, assieme alle cure psicofarmacologiche. Non si tratta, d’altro canto, della psicoterapia comunemente intesa, fondata sulle tecniche ed improntata alla dinamica relazionale duale.
Qui, per psicoterapia, s’intende la possibilità di utilizzare tutte le vicissitudini di rapporto che i pazienti intrattengono tra loro, con gli operatori e la gerarchia della struttura, con i familiari e con il contesto in cui la struttura è iscritta, al fine di sviluppare una competenza a “pensare le emozioni” incontrate in sé stessi e negli altri, nelle diverse occasioni di relazione.
Due sembrano essere gli obiettivi più rilevanti di queste esperienze di psicoterapia istituzionale: aiutare i pazienti a tener conto dell’altro come di un essere dotato delle stesse emozioni, degli stessi desideri, delle stesse esigenze che sono proprie a sé stessi; tener conto delle regole del gioco e dei vincoli che la convivenza pone a sé e agli altri. Per realizzare questi obiettivi è necessario che ci siano professionisti attenti e sensibili nel leggere i movimenti relazionali che si svolgono naturalmente nei contesti di cura.
Tale modello continua ad essere esempio di ispirazione per diverse comunità terapeutiche che si trovano però impoverite delle risorse destinate alla componente più clinica e specializzata in psicoterapia. “Il pericolo, che in molti casi è già realtà, è un ritorno ad un approccio alla salute mentale prettamente biomedico” (Red. Lab Parlamento, Fenascop, agosto 2021). La contrapposizione che si attua è tra luogo di cura e mero contenitore, deposito statico, piccola clinica. Definizioni evocative di fantasmi manicomiali.
Dalla riforma psichiatrica ad oggi si è continuato a enunciare la bontà del lavoro di gruppo e in molte realtà sia dei Centri territoriali, delle strutture ospedaliere e delle Comunità Diurne e Residenziali si è potuto realizzare. Io ho avuto la fortuna di vederne molti esempi.
BIBLIOGRAFIA
Fiaschi M.D., (2021, in corso di pubblicazione) Il lavoro di équipe in salute mentale: professioni e formazione e I percorsi di presa in carico: buone e cattive prassi, 2ª Conferenza Nazionale Salute Mentale,
Fiaschi M.D., (2018) Aspetti deontologici e integrazione professionale dello psicologo nel lavoro di equipe: dalla 180 alle sue applicazioni. Inserto 180X40, Giornale dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della Liguria
Fiaschi M.D., (2012) Una formazione su misura, in Il Centro di Psicologia Clinica G.C. Zapparoli e la Saggezza Clinica, di Gislon M.C., De Luca G., Ed. Dialogos, Milano
Fenascop, Salute Mentale (2021): Le comunità terapeutiche non sono depositi allocativi, Redazione Lab Parlamento, 6 agosto 2021
Lazzari D., (2021), Noi psicologi molto delusi dalla Conferenza sulla salute mentale, Quotidiano Società, 25 giugno 2021
SISM, (2019) Rapporto salute mentale Analisi dei dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale
Zapparoli G.C., (1988) (a cura di), La Psichiatria oggi. Proposta di un modello integrato di intervento terapeutico, Bollati Boringhieri, Torino
Zapparoli G.C., (2002) La follia e l’intermediario, Ed. Dialogos, Milano
Zapparoli G.C., (2004) La Diagnosi, Ed. Dialogos, Milano
Zapparoli G.C., (2008) Psicopatologia grave, una guida al trattamento, Ed. Dialogos, Milano
*Mara Donatella Fiaschi, psicologa-psicoterapeuta, presidente Ordine Psicologi Liguria e coordinatrice Gruppo di lavoro Sanità del CNOP