Potere, massa e consenso tra XX e XXI secolo

di Gabriella Paganini

Introduzione

A partire dalla prima metà dell’Ottocento i processi di modernizzazione, industrializzazione e urbanizzazione hanno profondamente trasformato le società tradizionali. Partecipazione politica, alfabetizzazione, accesso a beni non di prima necessità, consumo culturale da esperienze precedentemente riservate a pochi gruppi ristretti si aprono progressivamente tra ’800 e ’900 ad una dimensione collettiva. Nasce la cosiddetta società di massa, processo accompagnato da un clima di forte conflittualità: la nascita del proletariato industriale, la diffusione delle idee socialiste, la nascita del movimento operaio organizzato in partiti e sindacati, le violente azioni di protesta e gli scioperi messi in atto generano nelle classi dirigenti paura e insicurezza. Se solo un secolo prima il grande Federico di Prussia poteva affermare che i contadini non devono mai sapere quando il re fa la guerra, ora a chi detiene il potere si pone con forza il problema del consenso.

 “Non più̀ di un secolo fa la politica tradizionale degli Stati e le rivalità̀ tra i principi costituivano i principali fattori degli avvenimenti. L’opinione delle folle, nella maggioranza dei casi, non contava affatto. Oggi invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei sovrani e le rivalità̀ esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle è diventata preponderante. Detta ordini ai re. È nell’anima delle folle, e non più̀ nei consigli dei principi, che si preparano i destini delle nazioni”. Così scriveva nel 1895 Gustave Le Bon, antropologo, psicologo e sociologo di formazione positivista, nella sua opera La psicologia delle folle che dimostra come ben presto ci si interessi alle dinamiche psicologiche sottese ai comportamenti collettivi, nell’intento di conoscerle per poter esercitare un’efficace azione di contenimento e controllo. Questa in sostanza la sua tesi: non è la ragion pura a dettare le regole per governare gli uomini, ma la capacità di suggestionare facendo leva su sentimenti ed emotività. Questo perché nella massa l’individuo muta a livello psicologico annientandosi in quella che Le Bon chiama “unità mentale delle folle”, che non coincide con la semplice somma degli elementi individuali, ma presenta caratteristiche originali: tendenza a privilegiare l’emotività sul ragionamento, ad ammettere o rifiutare le idee in blocco con una spiccata propensione alla semplificazione, diminuzione delle capacità intellettuali a vantaggio di impulsività, volubilità e violenza, senso di invincibilità e diminuzione del senso di responsabilità morale.

Più sensibili agli elementi estetici ed emotivi che al contenuto del messaggio, le masse necessitano di essere sedotte da un oratore che, anziché dimostrare una tesi con argomentazioni, esageri, affermi e ripeta le sue formule: D’Annunzio, Mussolini, Hitler, avrebbero appreso e messo in pratica questa lezione in modo magistrale, ma anche Lenin e Stalin avrebbero dichiarato interesse per l’opera di Le Bon.

Infatti, al di là degli obiettivi politici che un leader si propone, resta invariato il meccanismo con cui poter fare leva sul consenso della massa. Anche se, però, è necessario sottolineare alcune differenze per avere un quadro più completo del problema. Le riflessioni di Le Bon, che disprezzava la democrazia e rifiutava il presupposto liberale secondo cui gli uomini sono disposti a discutere e confrontarsi serenamente in una assemblea parlamentare per prendere la decisione più saggia, poggiano su una connotazione del tutto negativa delle folle che non è la stessa di leader rivoluzionari come Lenin o Marx, che vedevano nella massa una potenzialità di progresso. Anche Elias Canetti nel suo fondamentale saggio Massa e potere del 1960, in cui analizza la massa in tutte le sue forme e caratteristiche, esaminandola nella sua evoluzione storica, nei suoi aspetti psicologici e nel suo rapporto con il potere, si oppone nettamente a ogni interpretazione che la identifichi semplicemente come un aggregato anonimo e manipolabile; lo sguardo di Canetti si serve piuttosto delle categorie di trasformazione, liberazione, uguaglianza e sollievo per descrivere la formazione spontanea delle masse e la possibilità che presentano di uscire dall’angusta prospettiva limitata alla propria individualità. La massa è il momento della de-differenziazione, in cui diviene impossibile identificare i singoli ed emergono gli impulsi della massa a crescere, a concentrarsi e a direzionarsi. In questa prospettiva possono trovare una collocazione sia le folle di cui parla Le Bon che sono masse indifferenziate, anonime e prive di loro riferimenti ideologici, sia le masse rivoluzionarie a cui si appellano socialisti e comunisti, che coincidono con le classi subalterne portatrici di esigenze di emancipazione. Questa duplicità di accezione accompagna fin dall’inizio l’ascesa delle folle alla ribalta della storia: società di massa sono, fin dall’Ottocento, il ’48 europeo e la Comune di Parigi con i loro ideali di democrazia e uguaglianza, ma anche il bonapartismo di Napoleone III, in cui il potere dall’alto si salda a un consenso dal basso, ottenuto demagogicamente con quesiti plebiscitari che non lasciano alternativa appetibile alla conferma dello status quo.

Democrazia e demagogia sono così da sempre le due prospettive in cui si può declinare il problema del consenso, prospettive che si alternano, convivono e si modificano con l’evolversi della società, sia dal punto di vista economico e sociale che tecnologico, fino all’epoca presente in cui sembra senz’altro in vantaggio la seconda.

Sono i totalitarismi del Novecento ad aver fatto definitivamente chiarezza su questa compresenza: “Il successo dei movimenti totalitari –  scrive nel 1951 H. Arendt nella sua monumentale opera Le origini del totalitarismo – segnò la fine di due illusioni care ai democratici in genere… la prima era che il popolo nella sua maggioranza prendesse parte attiva agli affari di governo e che ogni individuo simpatizzasse per l’uno o l’altro partito; i movimenti mostrarono invece che le masse politicamente neutrali e indifferenti potevano costituire la maggioranza anche in una democrazia […]. La seconda illusione era che queste masse apatiche non contassero nulla, che fossero veramente neutrali […]; ora i movimenti totalitari misero in luce che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate”.

E quello che i totalitarismi del Novecento mettono in evidenza è anche il ruolo fondamentale che gioca nel consenso lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Memore del fondamentale ruolo della propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Mussolini è il primo a capire l’importanza di radio, cinema e teatro, accanto alla comunicazione verbale e gestuale dei discorsi rivolti alla massa accalcata sotto palazzo Venezia. Dosare abilmente appello all’emotività, costruzione di un nemico contro cui schierarsi compatti e sfruttamento dei mezzi di comunicazione che la tecnologia mette a disposizione sono ingredienti sempre presenti nella costruzione di un consenso politico, sia da parte del potere costituito che delle forze che vi si oppongono. È del primo che ci occuperemo, cercando di cogliere i vari modi in cui queste componenti si sono presentate e mescolate nel corso degli ultimi settant’anni, con uno sguardo privilegiato sulla storia del nostro paese.

Dal ’45 agli anni ’60.

Vera novità della politica italiana del periodo repubblicano è la posizione di predominio sia elettorale che politico assunto dopo il ’46 dai partiti di massa, già emersi peraltro come protagonisti nell’ultima fase dell’età liberale. Indirizzare e stabilizzare le preferenze degli elettori è un compito agevolato dal loro radicamento sul territorio e dalla forte struttura organizzativa, soprattutto del Partito comunista e della Democrazia cristiana, dato il ridimensionamento del partito socialista provocato dalla scissione socialdemocratica del ’47, che rende la cultura socialista sempre più egemonizzata dal PCI. I loro uomini di spicco non sono definiti leader, come accadrà in seguito, ma capi politici; la loro legittimazione viene dall’esterno, perché inseriti in una grande organizzazione diffusa, permeata dal tradizionale concetto di ethos e da una edificante storia precedente: il legame con la Chiesa e il riconoscimento degli Stati Uniti per De Gasperi, la storia del socialismo internazionale per Togliatti, nonché per entrambi, pur con diversi intenti ed incidenza, l’opposizione alla dittatura fascista. Saper fornire agli elettori una visione della realtà chiara e definita è una delle chiavi della ricerca del consenso. Più che capo del partito, Togliatti era soprattutto visto come capo della classe operaia, De Gasperi come il riferimento politico delle masse cattoliche: il consenso era dato dal senso di appartenenza ad un campo, di cui si condividevano i valori. La mediazione del partito, portatore di una ideologia in cui l’elettore si riconosceva, garantiva una stabilità sia nella tenuta del ruolo del capo, sia nella fiducia della massa degli elettori. Scarti di due o tre punti percentuali tra un’elezione e l’altra erano quasi un miracolo. Strumento principe della politica di massa per tenere viva la fiducia era essenzialmente il comizio, riservato al momento elettorale. Come osserva Michele Prospero, docente di Filosofia del diritto alla Sapienza, in occasione di un dibattito organizzato il 14 febbraio 2018 dalla Società Dante Alighieri sul tema Il leader i suoi stili tra vecchia e nuova politica, il comizio ha qualcosa del ritualismo religioso: in esso il capo ha una funzione di mediazione attraverso riti, liturgie, parole d’ordine che assecondano un’attesa e sa che l’argomentazione razionale, il ricorso a dati statistici ufficiali per dare verità alle proprie affermazioni va abilmente dosata insieme all’elemento emozionale. Lo sapeva Togliatti, il cui discorso tendeva più al logos che al pathos, quando animava le speranze nel sol dell’avvenire, e lo sapeva De Gasperi, pacato nei gesti, misurato nell’eloquio e attento nei comportamenti, quando offriva alle giovani generazioni l’affresco di una neo-Europa carolingia come mito fondativo della rinata democrazia o quando utilizzava citazioni e metafore di origine biblica ed evangelica, che conferivano ai suoi discorsi un’aura di solennità.

La ritualità del comizio prevede una preliminare operazione di riconoscimento: chi va al comizio compie una scelta di appartenenza e quindi anche il capo usa un linguaggio che presuppone questa identificazione, un linguaggio ideologizzato, specialistico, settoriale, che richiama valori, convinzioni, speranze comuni. Un linguaggio che nell’agone elettorale può assumere tinte forti e aggressive, come testimoniano le elezioni dell’aprile del ’48, le prime dell’Italia repubblicana. In questo caso fu soprattutto la Democrazia Cristiana ad ottenere larghi consensi facendo efficacemente leva, come testimoniano molti manifesti elettorali, sulla paura per la fine della famiglia, della libertà religiosa e politica che, in caso di vittoria, sarebbero state travolte dal materialismo comunista legato al socialismo reale sovietico. Contro questi toni apocalittici, che uniscono le masse cattoliche contro un nemico comune (complice lo schieramento di molti sacerdoti che trasformano le omelie in comizi), il Fronte popolare di socialisti e comunisti combatte una battaglia di retroguardia, difendendosi dalle accuse e facendo appello al proprio programma di riforme sociali. E uscendone pesantemente sconfitto.

Questo è il modo in cui si organizza prevalentemente il consenso fino alla svolta rappresentata dall’11 ottobre del 1960. Questa data segna l’ingresso della politica in televisione, la cui programmazione ufficiale era iniziata il 3 gennaio del 1954: va in onda infatti la prima puntata di Tribuna elettorale in cui interviene come ospite Mario Scelba che, in qualità di ministro dell’interno, apre il dibattito elettorale relativo alle imminenti elezioni amministrative. La scenografia, decisamente austera soprattutto se paragonata ai salotti dei talk show odierni, prevede il politico al centro, seduto accanto al moderatore e circondato da giornalisti disposti a semicerchio; seguendo un rigido schema fisso, ognuno di loro può porre una domanda, inizialmente senza diritto di replica, a cui il politico è invitato a rispondere. È uno spazio di informazione politica che l’anno successivo verrà istituzionalizzato e reso permanente con il titolo di Tribuna politica. È evidente da questa breve nota che nel momento iniziale dell’incontro tra politica e televisione è la prima a dettare alla seconda le sue regole, provando a trasferire la sua aura sacrale nel regno dell’intrattenimento. Il politico di turno affrontava magari domande velenose, dava risposte piccate e partecipava a scontri agguerriti, ma sempre nel massimo rispetto dell’avversario, senza alzare la voce, usando rigorosamente il lei o addirittura, come nel caso di Togliatti l’ella. Insomma, trasferiva in studio la centralità che il Parlamento aveva nella vita politica del paese, con il suo corredo di obblighi relativi al rispetto della struttura formale del discorso, rigorosamente epurato da eccessi emozionali.  Uno stile condiviso da tutte le forze politiche che lasciavano eventualmente al comizio, che per una decina d’anni affiancherà ancora la tribuna televisiva, la sollecitazione dell’emotività dell’uditorio.  Il contenuto del messaggio in televisione era privilegiato rispetto alla specificità del mezzo e spettacolo e politica erano rigorosamente tenuti separati, nella convinzione che qualunque concessione all’intrattenimento avrebbe banalizzato l’alto valore della politica riducendola al livello basso e popolare dei varietà. Quindi le prime esperienze televisive dei grandi capi di partito non sono particolarmente brillanti: alcuni, come Scelba e Togliatti, con qualche excusatio dimostrano di esserne consapevoli; altri, come Moro, rifiutano i suggerimenti dell’esperto per rendere più vivace il suo discorso, rifiutandosi di apportare le modifiche consigliate. Così si presentano davanti alle telecamere leggendo, non sanno centrare i tempi televisivi, ma questo non impedisce il grande successo di queste trasmissioni. Il pubblico, abituato alla cauta e controllata programmazione del tempo, trova attraente e avvincente la nuova proposta televisiva, che peraltro non di rado riserva comunque colpi di scena, imbarazzi e momenti di tensione. L’illusione iniziale che la televisione possa rispecchiare la politica, non impedisce di scorgere le novità: rispetto al comizio, il politico deve adeguare il suo linguaggio a un pubblico più allargato, composito e distante. Così, passando da un codice rituale ad uso interno ad un codice argomentativo ad uso esterno, il linguaggio politico tende a puntare su un armamentario retorico di prestigio che lo rendono autoreferenziale, trasformandolo progressivamente in politichese. Un linguaggio oscuro per l’opinione pubblica, ma chiaro per il mondo della politica che sa decodificare le definizioni più astruse, come l’ardita e ossimorica espressione “convergenze parallele” con cui Aldo Moro definiva la sua linea di apertura al Partito Comunista. È la deriva burocratica del linguaggio della politica allora stigmatizzato da Calvino e Pasolini. Scriveva il primo nel 1965 nel saggio L’italiano, una lingua tra le altre lingue: “Oggi il linguaggio politico italiano si è molto complicato, tecnicizzato, intellettualizzato, e credo che tenda a saldarsi in un arco che comprenda cattolici e marxisti, dagli uffici-studio morotei ai sindacati di classe (…). A me pare che una terminologia che vuol essere specialistica senza riuscire a essere univoca, e una sintassi ramificata e sinuosa fanno di questo linguaggio uno strumento più utile a non dire che a dire”. L’anno prima Pasolini, nel saggio Nuove questioni linguistiche apparso su Rinascita, analizzava il linguaggio politico e giornalistico diffuso dai mass-media, soffermandosi su di un brano del discorso tenuto da Aldo Moro in occasione dell’inaugurazione dell’autostrada del sole: “Non si tratta di un discorso a tecnici come il quantitativo di terminologia tecnica potrebbe far credere; si tratta di un discorso a un pubblico normale […] di tutte le condizioni, le culture, i livelli, le regioni […] le sue frasi crudamente tecniche hanno addirittura una funzione di captatio benevolentiae: sostituiscono quei passi che un tempo sarebbero stati di perorazione e enfasi […]. Qualcosa di fondamentale è dunque successo alle radici del linguaggio politico ufficiale”.

 È successo che la tecnologia dominante nelle società altamente industrializzate tende ad omologare tutto, trasformando anche il linguaggio politico, oltre al volto dell’Italia, terreno di sconvolgimenti sociali, dalla crisi della secolare civiltà contadina, all’urbanesimo, alle emigrazioni interne ed esterne, all’imborghesimento della classe operaia, all’esplosione dei mass-media.

Gli anni ’70 e ‘80

In questo contesto comincia a sfilacciarsi il patto di fiducia basato sul consenso di appartenenza al partito e alla sua ideologia. Sulle ceneri delle idee forza che hanno alimentato le tensioni ideali del dopoguerra (democrazia, socialismo, comunismo, liberalismo, libertà di parola, di mercato, diritti civili, lotta di classe) la televisione ha imposto le sue regole mettendo fine all’illusione originaria che la televisione possa rispecchiare la politica: a poco a poco non solo non la rispecchierà più, ma la produrrà, ne determinerà il format; nel giro di qualche decennio diventerà la sua arma totale. Sono gli anni in cui si afferma quella che Umberto Eco definisce neotelevisione che, sollecitata dalla concorrenza delle tv commerciali, ossessionata dalla tirannia dell’Auditel, abbandona progressivamente il tradizionale ruolo pedagogico sotto lo stretto controllo dello Stato e dei suoi codici morali ed estetici, per approdare ad un disimpegno ludico in direzione del puro intrattenimento.

 È questo il terreno su cui parallelamente si consuma la trasformazione del politico di fronte alla telecamera, il cui successo dipende sempre più da elementi extraverbali: l’espressione del volto, il tono della voce, la modulazione dei gesti, il modo in cui sa semplificare e rendere convincente il suo messaggio, in cui riesce a mostrarsi affidabile. Dalle ceneri del capo politico nasce sullo schermo televisivo la figura del leader che, già dalla fine degli anni ’70 e primi anni ’80, consapevole della necessità di rivolgersi ad un uditorio allargato su cui esercitare la propria capacità di persuasione, comincia a frequentare codici linguistici alternativi a quelli paludati e generalizzati dell’Italia repubblicana.  Michele Prospero, nella conferenza sopra citata, individua tre figure di leader emblematiche di questo passaggio: il radicale Marco Pannella, il socialista Bettino Craxi e il democristiano Francesco Cossiga.

Il primo, oratore consumato, anticipa la personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. Con il tono apocalittico del predicatore savonaroliano, del profeta istrionico, pur mantenendo una autonomia lessicale del suo linguaggio senza rincorrere quello più semplice del suo pubblico come farà il leader socialista, manipola la lingua fi­no alle più avanzate eccentricità verbali: truffa, sfascio, ammucchiata, sceneggiata, scippare, imbavagliare diventano le parole chiave di un vocabolario che tende all’eccesso e alla drammatizzazione. Introducendo elementi di teatralizzazione, inventa gesti di grande efficacia: con lo sciopero della fame mette in primo piano il proprio corpo per rompere ogni diaframma fra eletti e elettori;  regalando hashish alla conduttrice di uno spettacolo televisivo combatte la sua battaglia antiproibizionista; rimettendo in vita l’istituto referendario ne fa uno scalpello per distruggere i fortilizi della vecchia politica; ostinandosi a usare la parola compagni, per sottrarla alle esclusive mani della sinistra, la investe dell’evangelico senso originario, la comune divisione del pane, e al tempo stesso eccede nell’invettiva contro il regime, contro il bavaglio della stampa e della televisione, sebbene senza la cattiveria dell’aggressività polemica odierna.

Se Pannella, lavorando sulla quantità di parole, di azioni, di proteste, di attivismo politico ha consapevolezza che la comunicazione politica vincente è gesto più che discorso, Bettino Craxi è il leader più televisivo: non solo dimostra di capire la specificità del mezzo scandendo le parole, usando abilmente le pause, ma innova la retorica politica con una marcata presenza di pro­verbi, modi di dire, locuzioni popolareg­gianti, di citazioni tratte da eroi nazionali, statisti, martiri politici, padri fondatori del Partito Sociali­sta, rivoluzionari e combattenti, senza esclu­dere poeti, letterati e filosofi, che il leader socialista inserisce ad effetto all’interno dei suoi enunciati in funzione ora argomentativa, ora persuasiva, ora critica o provocatoria, accorciando le distanze tra sé e l’uditorio. La colloquialità conferisce ai suoi messaggi un tratto de­cisamente antierudito e anticonvenzionale, più adatto del dilagante politichese nazionale a vincere la resistenza dei destinatari nel formulare appelli, trasmettere ordini e prescrivere linee di condotta. Il tutto con il piglio decisionista e a tratti autoritario che risveglia nel pubblico l’archetipo del fascino del capo che sa condurre il gregge, fascino che riemerge puntualmente dalle delusioni per una politica statica, incancrenita nel mantenimento dello status quo, incapace di affrontare le famose riforme di struttura invocate nelle manifestazioni e necessarie ad un paese che la modernizzazione ha profondamente cambiato.

Cossiga, nel corso del suo settennato presidenziale, diventa l’emblema di chi attacca le istituzioni occupandone i vertici; è il presidente che si toglie “i sassolini dalle scarpe”, che con foga dissacrante e veemenza politica gioca il ruolo di anticonformista e di destabilizzatore di equilibri politici. Indicato con l’appellativo di “picconatore”, lo rivendica e rilancia orgogliosamente arrivando ad insultare, con termini gratuiti e sguaiati, uomini politici e non, con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “cappone” (il DC Galloni), “zombie con i baffi” (il PDS Occhetto), “poveretto” (il DC Flamigni), “mascalzone, piccolo e scemo” (il DC Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana” (Wallis, caporedattore della Reuter) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all’intero Parlamento. Un ulteriore passo verso quell’abbassamento del linguaggio politico a livello dell’uomo comune che sta diventando un sentiero di elezione della comunicazione politica e che mette in evidenza i limiti e la fragilità del sistema dei partiti che stanno per essere travolti da Tangentopoli.

La svolta degli anni ‘90

Gli anni 1989-94, segnati a livello internazionale dal crollo del muro di Berlino, dalla conflagrazione dell’URSS e dalla fine delle contrapposizioni ideologiche della Guerra fredda, rappresentano anche una fase di transizione della politica italiana, segnata da avvenimenti politico-istituzionali, sociali e culturali, che  provocano una svolta nei costumi e nella comunicazione politica. È il passaggio a quella che impropriamente viene definita Seconda Repubblica, frutto di Mani pulite, della crisi fiscale dello Stato italiano e dell’approvazione della nuova legge elettorale sul maggioritario misto. Dalla crisi irreversibile dei tradizionali partiti che hanno dominato la scena politica del dopoguerra nascono nuovi soggetti politici, partiti cartello o professionali-elettorali a seconda delle definizioni. Secondo Marco Revelli, storico e sociologo, al di là degli eventi propri della nostra storia esiste una spiegazione di questo processo più radicale e va ritrovata nell’isomorfismo tra forma-partito e forma dell’impresa. Quindi secondo lui la crisi del partito novecentesco non è altro che l’ultimo episodio di quella transizione al ‘post-fordismo’ che ha segnato l’organizzazione economica degli ultimi decenni: “Le macchine organizzative novecentesche – scrive infatti Revelli nel suo saggio Finale di partito (2013) – hanno tutte le stesse caratteristiche (siano esse Fabbriche o Eserciti, Partiti o Chiese…): una tendenza intrinseca al gigantismo, a incorporare masse ampie di uomini in modo stabile, sistemandoli in strutture solide e permanenti […] accomunate da una vocazione onnivora e centripeta, tesa ad attirare entro il proprio campo organizzativo quante più funzioni possibile, per sottometterle alla ‘mano visibile’ dei propri livelli gerarchici e garantirsene l’assoluta prevedibilità di comportamento”. Modello che, sempre secondo Revelli, entra in crisi a partire dalla fine degli anni Settanta, con il progressivo passaggio dal ‘fordismo’ al ‘postfordismo’, caratterizzato da flessibilità organizzativa, destrutturazione dei grandi complessi industriali, affermazione del just-in-time toyotista (produzione snella, veloce, con riduzione dei rifiuti di lavorazione e dei costi), progressiva deregulation. Dall’ambito imprenditoriale il mutamento ricade sul terreno politico, coinvolgendo i partiti-fabbrica del Novecento, costruiti non solo per gestire il meccanismo della rappresentanza, ma anche per incorporare nelle proprie strutture interi pezzi di società, aree ampie del proprio elettorato omogeneo per valori e cultura e prevedibile nei comportamenti elettorali. Partiti–fabbrica dagli apparati sempre più dilatati che impediscono un adattamento al mutamento di paradigma sia del mercato in senso stretto sia del mercato elettorale, abitato da elettori sempre più fluttuanti perché svincolati nelle loro scelte da stabili appartenenze ideologiche.

 L’apertura e le elezioni politiche del 1994 rendono manifesto questo processo in cui tramonta il voto di appartenenza, sostituito dal voto di opinione che si forma attraverso i mass media. Il ceto politico si rinnova come mai prima di allora: storici colossi quali la Democrazia Cristiana ed il Partito Socialista Italiano scompaiono nel giro di pochi anni e si moltiplicano gli attori, per cui i politici si sentono costretti a modificare le strategie comunicative e ad adottare nuove tecniche di persuasione e conquista del consenso.

Le due novità più significative sono rappresentate dalla Lega Nord di Umberto Bossi e da Forza Italia di Silvio Berlusconi: hanno tratti comuni (leaderismo carismatico portato all’eccesso, modello linguistico colloquiale, comprensibile, sintatticamente semplice e vicino alla gente comune) ma li declinano in modi molto diversi, ed è il secondo a emergere come l’innovatore più radicale.

Fin dal suo apparire la Lega Nord capitalizza la sfiducia dell’elettorato nei confronti delle forze politiche tradizionali. Come altre formazioni nate in questo periodo, rifiuta l’etichetta di ‘partito’, che gli scandali di Tangentopoli e Mani Pulite hanno trasformato in sinonimo di nido di potere e corruzione, e si propone come il nuovo che con la sua positività combatte la negatività del vecchio. Lo spirito secessionista e indipendentista trasforma la dialettica amico-nemico proponendo nuove contrapposizioni: non più destra vs sinistra, termini logorati dalla crisi delle ideologie post 1989, ma gente vs Palazzo, Nord vs Sud, decentramento vs centralismo,  autonomia vs statalismo, produttività vs parassitismo. Cerca di ricucire quel legame con il territorio che i partiti tradizionali hanno progressivamente abbandonato, ma inedite sono le strategie comunicative per allargare il consenso. Inedite se confrontate con la cosiddetta prima repubblica, ma non in senso assoluto. Il linguaggio politico della Lega è il linguaggio di U. Bossi, il leader a cui ora è affidato il ruolo di garanzia, di orientamento, di modello da imitare, di custode del programma politico. Il suo registro rispecchia quello del suo elettorato: è una lingua spontanea, diretta e colorita; è orientata a suscitare emozioni; propone il dialetto padano (lumbard vs terùn) come vera e propria insubordinazione all’ovattato politichese dei decenni precedenti; conia slogan (la Lega ce l’ha duro, Forza Etna, Roma ladrona) che, con il loro tono volgarmente aggressivo, mirano ad unire il ‘popolo’ contro un nemico comune contro cui combattere e difendersi. E punti di riferimento di un inedito senso di appartenenza (non più la Nazione, non più la classe sociale, i valori comuni, la comune ideologia), stimolato da una politica rivisitata in chiave mitologica, diventano la Padania come madre, il fiume Po come incarnazione di una nuova, per quanto grottesca, idea del sacro, un passato storico remoto, e ai più sconosciuto, da cui recuperare i simboli, pur stravolgendone la verità storica:  il Carroccio, il giuramento di Pontida, Alberto da Giussano, la battaglia di Legnano, il federalismo di Cattaneo… e Bossi come padre che educa i militanti sui grandi temi di interesse pubblico e ne difende gli interessi.

Se Bossi ha anticipato, come osserva il linguista Giuseppe Antonelli (L’italiano nella società della comunicazione, 2007), il passaggio dal paradigma della superiorità (‘votami perché sono più bravo di te’) a quello del rispecchiamento (‘votami perché parlo come te’), è Silvio Berlusconi a rappresentare una svolta epocale nella comunicazione politica, trasformando la televisione nella struttura portante del suo sistema di potere.

 La svolta ha una data precisa, il 26 gennaio 1994, in cui ufficializza il suo ingresso nel mondo politico con un discorso trasmesso da Mediaset a reti unificate. Il set è accuratamente studiato: luce soffusa, scrivania e carte tra le mani, libreria e foto di famiglia alle spalle. Il sorriso è impostato, il look si rivelerà l’uniforme della vita futura sua e del perfetto sostenitore di Forza Italia: camicia celeste, cravatta a pois, doppiopetto scuro. «Nessuna parola difficile, poche subordinate, molti slogan, spruzzi di retorica, frasi fatte», scrive sprezzante Curzio Maltese sulla Stampa, ma i dieci minuti scarsi di eloquio, in quello studio minuziosamente ricostruito in uno scantinato di Villa Belvedere a Macherio, hanno segnato l’inizio di un’epoca durata venti anni e che ha ancora oggi ripercussioni enormi sulla politica e sulla società italiana.

“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. Questo l’esordio, in una lingua della seduzione e del coinvolgimento, una lingua degli affetti con cui si stabilisce un filo diretto con gli spettatori (ne sono stimati 26 milioni) che tradisce già insofferenza per i corpi intermedi. Il termine più ripetuto è libertà con i suoi derivati: liberale, illiberale, liberismo e liberaldemocratico; poi Italia e ‘scendere in campo’. Parla di valori, di impresa, di speranza, di serenità, di modernità, di dignità, di famiglia; utilizza verbi eloquenti come nascere, proporre, fare, costruire, realizzare, cambiare e, ovviamente, rinnovare; parla di obiettivo, svolta, sfida, battaglia, determinazione, impegno, sviluppo, alternativa, speranza, sogno; credere e cambiare si contrappongono a non-credere e non-cambiare: chi pensa sia possibile smuovere la situazione come nel primo caso è implicitamente dalla parte dell’oratore, altrimenti è automaticamente nelle schiere del vecchio, del nemico, un nemico individuato nelle sinistre e nei comunisti, peraltro ormai travolti dal crollo dell’URSS e dal tramonto delle ideologie, ma utile per contrapporvi l’immagine di un capo forte e benevolo, capace di difendere e salvare dai pericoli. Un capo visionario: Milano 2 diventa una metafora dell’Italia, un eden da raggiungere, un sogno a cui avvicinare gli italiani.

Gli ingredienti con cui otterrà larghi consensi ci sono già tutti, mirabilmente organizzati: l’uso della televisione non solo come strumento di consenso, ma come amplificatore di un ethos che si incarna nella figura del leader; l’aperta reintroduzione in politica di temi populisti, la cura del linguaggio del corpo, la personalità istrionica e seduttiva, l’ibridazione del linguaggio politico con altri linguaggi, da quello del calcio  (dalla metafora dello scendere in campo alla scelta del nome Forza Italia e del colore azzurro) a quello del marketing e della pubblicità, il racconto autobiografico scandito da strutture narrative tipiche della soap opera, l’individuazione di un nemico contro cui coalizzarsi. La neolingua berlusconiana sancisce il primato dell’immagine: Il Cavaliere deve certamente tenere discorsi, ma li riduce a carrellate di immagini, in cui l’analisi politica coincide tout court con slogan e simboli volti ad evocare più che ad argomentare (e infatti Berlusconi si sottrae, com’è noto, ai contraddittori e ai dibattiti). E dal momento che la contraddizione è vizio logico solo nel discorso argomentativo, Berlusconi può farne la cifra della sua autorappresentazione: è presidente magnate ma anche presidente operaio, politico e antipolitico, uomo qualunque e Unto del Signore. Tutto è Berlusconi recitava il titolo di un saggio di Abruzzese e Susca del 2004: tycoon, operaio, santo, massaia, allenatore, palazzinaro, cantante… Una perfetta sintesi fra everyman e superman.

L’importanza dell’immagine piega la comunicazione politica alla minuziosa cura dei dettagli che devono rendere piacevole e seduttiva la figura: l’espressione del volto, lo sguardo, la gestualità, i movimenti del corpo; il tono della voce, il ritmo, la velocità dell’eloquio; l’abbigliamento, casual con jeans e felpa girocollo quando si vuol suggerire ottimismo e dinamismo, formale con completo doppio petto e cravatta bene annodata quando si vuole mostrare e ispirare sicurezza. Scuola di recitazione, scuola di dizione, scuola di trucco (eventualmente anche interventi di chirurgia estetica e coloritura di capelli) diventano indispensabili per una buona riuscita. Il curatore dell’immagine è la nuova figura professionale che si pone accanto al politico che non è più il veicolatore di un messaggio, ma messaggio egli stesso; entra nelle case alla pari di cantanti, attori, presentatori, campioni sportivi e, se riesce ad ottenere successo, diventa il divo del momento. Mondo della politica e dello spettacolo hanno molti elementi di sovrapposizione, tanto è vero che sono sempre più i personaggi della tv che in questa fase entrano nelle liste elettorali e con successo passano in Parlamento.

 La televisione diventa l’architrave del sistema di potere di Berlusconi non solo per il monopolio che egli esercita nel settore, e che stravolge le più elementari regole del pluralismo che dovrebbe accompagnare le competizioni elettorali, ma anche perché promuove etiche, estetiche e stili di vita omogenei al modello berlusconiano, producendo, dagli anni Ottanta ad oggi, un profondo “mutamento antropologico” degli italiani. Massimiliano Panarari, docente di Campaigning e Organizzazione del consenso alla Luiss di Roma, di Marketing politico alla Luiss School of Government e di Informazione e potere all’Università Bocconi di Milano, nonché editorialista di varie testate, in un suo saggio significativamente intitolato Da Gramsci al gossip, fa proprio discendere il successo di Berlusconi dalla sua capacità di realizzare, attraverso la televisione, un’egemonia culturale, o sottoculturale, che rifugge dal tradizionale modello dell’intellettuale per sostituirvi il giornalista di gossip, la persona di spettacolo, il calciatore, la showgirl. A. Gibelli (2010) afferma questo concetto nel modo più netto e radicale: “A differenza di Mussolini, che aveva cercato di formare l’Italiano nuovo dopo la presa del potere, Berlusconi aveva già contribuito a crearlo prima che il potere venisse nelle sue mani”.

Berlusconi inoltre usa la sua sagacia imprenditoriale per costruire quasi scientificamente il consenso per Forza Italia, pensato non a caso come partito-azienda non radicato sul territorio, strutturandone la propaganda politica sul modello pubblicitario. Si possono acquisire voti nello stesso modo in cui si lancia un prodotto sul mercato e quindi l’offerta politica viene adeguata alla domanda dei cittadini consumatori e confezionata con l’obiettivo di ottenerne il più ampio sostegno. Prodotto da vendere è il leader politico e le sue caratteristiche personali e le caratteristiche dei destinatari con le loro paure e i loro bisogni sono il punto di partenza, rilevato dai sondaggi, per la pianificazione delle azioni politiche e dei processi comunicativi da mettere in atto.

Alessandro Amadori, psicologo e saggista, in Mi consenta (2002) attribuisce l’efficacia del modello comunicativo di Berlusconi anche alla sua capacità di agganciare codici affettivi e simbolici profondi e di riattivare archetipi. Uno è l’archetipo narrativo, profondamente radicato negli esseri umani: il nostro cervello è forgiato per raccontare e ascoltare storie e ci siamo evoluti condividendo racconti intorno al fuoco. Non è un caso che la narrazione sia progressivamente entrata nelle strategie di marketing: “Viviamo in un tempo storico e antropologico – aggiunge Andrea Fontana, sociologo della comunicazione, nel suo saggio Storytelling d’impresa – in cui la narrazione è diventata competizione. Si racconta per posizionare un prodotto, per dare significato commerciale a una marca, per ottimizzare un’identità digitale, per coinvolgere su un progetto di vita. Si racconta per collocare un politico in un mercato elettorale, per orientare un’economia, per fare un attacco militare. Sopravvive meglio chi riesce a far fronte alle cosiddette story-wars e a convivere con le arene narrative dei nostri mercati e dei nostri scenari mediatici […]. Ma cosa vuol dire “raccontare” in questi termini? Il vocabolo “storytelling” si è diffuso negli ultimi tempi con estrema capillarità, diventando “moda” culturale e aziendale. Come spesso accade quando i concetti e le parole diventano una moda, molti ne abusano travisandone costumi semantici e utilizzi specifici. Tuttavia, dietro la diffusione dello storytelling vi è una ricchezza di sfumature e implicazioni sociali, politiche ed economiche molto più ampie, che vanno bel oltre le questioni semplicemente teoriche o di business”. In politica la narrazione è un elemento cruciale del dibattito, sia durante le campagne elettorali per costruire un “ponte narrativo” tra i candidati e il loro pubblico, sia durante il mandato di governo per gestire le azioni comunicative dell’esecutivo. Berlusconi anche in questo è stato un precursore. Basti pensare alla novità rappresentata dall’opuscolo Una storia italiana, un libretto agiografico scritto nel 2001 alla vigilia delle elezioni e mandato per posta a tutte le famiglie italiane. 125 pagine a colori, carta patinata, ricco di testi e foto, narra la biografia di Berlusconi: comincia con “Il carattere e le passioni: l’infanzia, l’adolescenza, i compagni di scuola”, per proseguire con i succulenti “Piccoli segreti di Silvio”. E poi via verso “Lo stile di vita: come si veste e cosa ama il leader di Forza Italia”, e ancora “Gli amici di sempre”, quelli che “lo hanno accompagnato negli anni”. Nelle tappe successive l’agiografia racconta come “Costruire un impero” e “La passione sportiva” del Cavaliere. Fino all’avventura politica, la nascita di Forza Italia, il primo governo, “La traversata nel deserto”, vale a dire l’opposizione e “la lunga lotta per la libertà”. Il resto è storia recente, i congressi e le campagne, “i successi della nave della libertà” e il programma per “un’Italia più giusta, più moderna, più competitiva”.

Altro archetipo, da sempre centrale in politica, è l’archetipo dell’imperatore, del re, della regina, del papa, della papessa come ben rivelano i tarocchi. Secondo Amadori l’imperatore è inscritto nel nostro DNA, si rivela come bisogno di un leader a cui delegare in modo fideistico le proprie sorti. Se il leader rievoca l’archetipo ha successo; la nostra storia pregressa lo dimostra. Abbiamo avuto l’Impero Romano, le signorie, i principati, il duce. Berlusconi ci ha riportato alla nostra storia profonda; dal suo trono riesce a catturare un consumatore passivo in una fase di crescente depoliticizzazione e ne conquista la fiducia presentandosi ai vari uditori come uno di loro, azzerandone così ogni strumento di difesa. Ma poi risale sul trono, come capo eccezionale e unico al comando, a cui affidarsi da una posizione di sudditanza: è il capo inarrivabile, il self made men da ammirare per la sua straordinaria carriera di imprenditore e uomo politico, da venerare addirittura, da invidiare, da imitare. È questa distanza il terreno su cui l’era del digitale provocherà profondi cambiamenti, pur non sostituendo del tutto la televisione che mantiene un importante ruolo di condizionamento e permette ai  leader politici un’efficace esposizione mediatica nei vari salotti e talkshow, attraverso le tecniche di manipolazione proprie del medium televisivo: numero e dislocazione delle macchine da presa, tipi di inquadratura, di obbiettivi, di luci; collocazione delle sedie e del pubblico presente, tra cui si scelgono abilmente le facce da inquadrare (belle, brutte, che sorridono, che esprimono consenso o dissenso); eventuali inserti come filmati in diretta, di fiction o d’archivio, schede per illustrare e documentare la vita o la giornata dell’ospite illustre (momenti belli, casalinghi, familiari, culinari oppure momenti duri, di fatica e di lavoro), con tanto di accompagnamenti musicali accattivanti; oppure le telefonate del pubblico accuratamente selezionate… fino al progressivo scadimento del dibattito che si è ormai trasformato in una rissa costruita abilmente anche attraverso la scelta di ospiti provocatori, dove tutti urlano e a vincere è il politico più aggressivo e soverchiante. Un’arena in cui la chiarezza dell’informazione è completamente sacrificata sull’altare dello spettacolo fine a se stesso. Ovviamente, in una televisione lottizzata dalle forze politiche, il ruolo del medium nella costruzione del consenso non si esercita soltanto sul set del talkshow, ma anche in tutti quei contenuti presenti sia nelle cronache giornalistiche sia nelle fiction che, assorbiti giornalmente dai telespettatori in maniera spesso subliminale, alimentano comportamenti, opinioni, convinzioni, giudizi e pregiudizi e possono condizionare le scelte politiche e le intenzioni di voto.

Il consenso nell’era del digitale

La rivoluzione di internet, se da un lato ha contribuito ad accrescere l’importanza del leader in continuità col passato, dall’altro ha provocato enormi cambiamenti nei rapporti tra media e potere, sconvolgendo progressivamente i modelli della comunicazione politica, i suoi spazi di svolgimento, i suoi usi e linguaggi. Se pensiamo soltanto ai quattro colossi Facebook, Twitter, YouTube ed Instagram, è ormai assodata la loro importanza nelle campagne elettorali e in tutti gli ambiti delle relazioni politiche. Oggi non c’è politico, partito, organizzazione, sindacato che non abbia un profilo sul web.

Nel nostro paese Beppe Grillo è stato il primo a rifiutare il sistema dei media tradizionali e a scommettere sull’intuizione di Gianroberto Casaleggio riguardo l’utilità del Web a scopo politico, facendo di Internet lo strumento principale attraverso cui lanciare la sfida a partiti, classe politica e sistema dell’informazione e costruire nuove opportunità di mobilitazione e canalizzazione del consenso. La nascita del MoVimento Cinque Stelle come forza politica è stata infatti preceduta dal frequentatissimo blog personale del comico, creato nel 2005, e dall’idea lanciata due anni dopo di costruire proprie liste civiche in ogni Comune seguendo le linee-guida dettate attraverso il blog. L’idea ha avuto successo grazie anche alla solida base di consenso creata dai MeetUp, momenti di mobilitazione di massa come il V-Day, disposti e organizzati per la prima volta per mezzo del web. Uomo da palcoscenico, incantatore di folle, Grillo riempie le piazze in una maniera nuova, interattiva, vissuta come continuazione del dialogo cominciato in Rete; conquista così un suo spazio politico, distante dalla destra e dalla sinistra, totalmente autonomo, che si pone come alternativa radicale ai partiti e alle loro pratiche, con un programma costruito sulla base di richieste e sollecitazioni provenienti dal basso. La rete viene così presentata come strumento per realizzare una vera democrazia, la democrazia diretta. La lotta alla casta in nome dell’onestà, il non statuto, il non partito, l’uno vale uno, diventano le parole chiave di una protesta antisistema propagandata attraverso il connubio fra la comunicazione dematerializzata della Rete e quella viscerale, sanguigna e gestuale in carne e ossa nelle piazze. In esse Grillo recita come nei suoi show del passato sovrapponendo teatro e politica: il linguaggio è molto aggressivo, spesso volgare,  la semplificazione è la cifra degli slogan (‘né di destra né di sinistra’ , ‘tutti a casa’) con cui gestisce l’umore e le emozioni della sua folla di delusi, proponendosi come unico portatore di un nuovo modo di fare politica contro quelle forme di partito direttamente riconducibili alla “casta”, che ruba soldi pubblici e non mantiene le promesse fatte ai cittadini. I contenuti impregnati di populismo e antipolitica non sono nuovi e neppure l’aggressività verbale da parte di un leader carismatico è cosa inedita. Sicuramente nuove sono le strategie di comunicazione: i messaggi di impatto costruiti tramite la piattaforma online e tradotti in contenuti reali; l’adozione di strumenti del marketing politico nella promozione della propria nuova idea di politica e nello screditamento della concorrenza; l’offerta di un nuovo tipo di conversazione mediatica tramite lo strumento attivo del Web, di cui vengono intuite e sfruttate le potenzialità applicabili alla partecipazione politica e alla costruzione di un rapporto prima impensabile a livello di profondità e intimità fra cittadino elettore e possibili rappresentanti.

Il MoVimento Cinque Stelle avrà il suo primo successo elettorale a livello nazionale nel 2013, ma il primo ad avere sfruttato le potenzialità del digitale è stato Barak Obama durante la campagna elettorale nel 2008 che ha costruito scientificamente servendosi di esperti comunicatori, ma anche di tecnici che sapevano come catalogare, integrare, connettere e utilizzare tutti quei dati (i Big Data) presenti in rete relativi alle persone che venivano a contatto con l’aspirante presidente o che semplicemente erano giudicati “influenzabili” dalle sue idee e perciò “raggiungibili”. In questo modo Obama è riuscito clamorosamente a mobilitare una enorme quantità di volontari sparsi su tutto il territorio nazionale, a finanziare con comizi ed eventi promozionali un’imponente campagna raccogliendo l’incredibile cifra di 600 milioni di dollari e a utilizzare in maniera straordinaria i social-media con lo scopo di produrre una narrazione unitaria con cui ha coinvolto anche le fasce più giovani. L’indimenticabile slogan “Yes we can”, è emblematico di ciò che Obama ed i suoi collaboratori hanno voluto trasmettere: cambiamento, certo, ma un cambiamento il più possibile condiviso, includente, in un’America quanto mai bisognosa di ritrovare identità e unità.

Trump ha fondato il proprio successo in modo analogo: “La prima persona che ha assunto, quando si è candidato a presidente degli Stati Uniti – scrive Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano, in Tecnologie per il potere – è stato un esperto di marketing. Aveva intuito che i vecchi profili, dai portavoce ai quadri usciti dalle scuole di politica, non erano più adatti. Al contrario servivano data scientist, analisti marketing, esperti di social, persino hacker. Così ha costruito la sua fortuna”. Ha usato  gli stessi strumenti di Obama, ma in modo più mirato e piegato ad un diverso stile: precisa profilazione e coinvolgimento attivo dei propri follower, scelti solo tra la media e alta borghesia bianca; toni fortemente polemici, a tratti politicamente scorretti e irrispettosi della normale competizione politica; linguaggio molto semplice, viscerale e termini legati ad un universo semantico antitetico, fatto di vincitori contro oppositori politici falliti, con cui ha accentuato l’astio di una certa porzione di elettorato.   

La nuova macchina del consenso è ormai pienamente avviata. Il vecchio curatore di immagine è diventato spin doctor, l’esperto di comunicazione che, una volta stabilito grazie ad uno studio approfondito il pubblico a cui ci si vuole rivolgere, lo studia nei minimi dettagli, ne coglie i bisogni, le aspettative, le sensazioni per poi progettare la storia edificante, a tratti epica, dell’attore politico da “mettere sul mercato”, rimedio al male che attanaglia la società, portatore di soluzioni efficaci e garanzia di cambiamento. Un esempio significativo è Luca Morisi: laurea in Filosofia e dottorato di ricerca a Verona, fondatore di una società che si occupa di sviluppare il software per il web, è il motore del successo di Salvini. Sua l’idea di indicare Salvini come “il Capitano” puntando sull’archetipo del capo; sua l’esortazione “Libera la bestia che c’è in te” accompagnata da tre aggettivi: “audace, istintivo, fuori controllo”, dieci parole ferine, amplificate dall’immagine del muso minaccioso di un lupo, che suonano come dichiarazione di guerra agli avversari e invito alla battaglia rivolto al proprio popolo dalla pagina facebook e dalla testata de Il populista, giornale fondato da Salvini e organo ufficiale della Lega.

Luca Morisi è ideatore e regista delle strategie del consenso e della straordinaria campagna social che, dopo le elezioni del 4 marzo 2018, ha portato il capo della Lega a sfondare il muro dei 3 milioni di seguaci su Facebook, superando di slancio la Merkel (2,5 milioni), Marine Le Pen (terza, con 1 milione e mezzo) e tutti gli altri leader europei, nettamente sotto il milione di follower. Agisce dietro le quinte, dalla sua postazione davanti a quattro monitor dove guarda social e giornali online e gestisce tecnologie in continua evoluzione:Noi cerchiamo metodologie per valorizzare e amplificare quello che dice lui – spiega in un’intervista rilasciata a Bruno Vespa per Panorama nel novembre 2018 – Hai una notizia di agenzia, un video, una presa di posizione? Valorizzare significa trasformare questo messaggio in un post che sia appetibile. La soglia di attenzione degli utenti è bassissima. Sono bombardati, devi colpirli con un messaggio molto attraente, cucinare le notizie nel modo più appropriato. Di qui i video, i suoni e quant’altro. Salvini è stato il primo in Italia a diffondere video autoprodotti; la diretta Facebook piace moltissimo. Abbiamo inventato l’acronimo “Trt”: televisione, rete, territorio. Facciamo interagire questi tre ambiti in un gioco di specchi reciproci, un gigantesco “zoom della comunicazione”. I tre ambiti si valorizzano l’un l’altro. Un esempio. Matteo va a Porta a porta. La sua presenza viene annunciata in modo martellante. Durante la trasmissione le frasi chiave vengono immediatamente trascritte su Facebook e su Twitter. Su Facebook trasferiamo in tempo reale grafici e “screenshot”, cioè foto riprese dallo schermo. Su Twitter lavoriamo di più con i testi. Accade che persone che non stanno guardando la televisione vadano ad accendere l’apparecchio. Al tempo stesso, chi sta guardando la Tv e vede che Matteo ha un iPad in mano va sui social per poter approfondire. Dopo l’annuncio e la diretta, si estraggono le clip più rilevanti e si postano sui social. Così anche chi non aveva visto la trasmissione, ne capisce il senso politico”.

La rete ha così portato a compimento quel processo di disintermediazione che ha sostituito il rapporto diretto tra leader e cittadini alla mediazione di apparati istituzionali e partiti. Inoltre, se i media tradizionali (stampa, radio e tv) consentivano di coprire sia platee a livello locale che nazionale, ma con una forma di comunicazione passiva, internet e la telematica in generale implicano la partecipazione attiva dei destinatari e sopperiscono un po’ a tutte le esigenze: raccogliere indicazioni interessanti sul lavoro che si sta svolgendo, attraverso sondaggi o forum tematici di discussione, al fine di adeguare il più possibile la propria offerta politica alla domanda dei cittadini; raccogliere consenso, creando una “agorà” dove figurino solo le opinioni e i commenti in sintonia con la linea politica del partito e che non ne danneggino l’immagine. Ne consegue che la politica da arte della persuasione si è trasformata in arte della profilazione che, anziché cercare di ottenere il consenso degli avversari o degli indecisi, chiude il pubblico dei potenziali elettori in un bolla autoreferenziale e auto-rassicurante in cui viene loro comunicato proprio quello che vorrebbero sentirsi dire. L’estrema libertà nella gestione dei contenuti del proprio sito permette infatti ad una forza politica di divulgare messaggi che non troverebbero spazio nei media tradizionali, proprio perché estremamente polarizzati. Nel sito della Lega Nord ad esempio si ospitano solo gli organi di informazione padani, stampa, radio e televisione, si consigliano solo pubblicazioni di case editrici padane relative a tematiche vicine a quelle del partito e non vi è traccia della vita politica italiana, ma si riportano solo appuntamenti che riguardano il partito. L’intento è quello di affermare l’identità politica, culturale e sociale della Padania, per dare l’impressione che l’indipendenza della Padania sia una realtà. Matteo Salvini quando è attaccato sul suo profilo Facebook blocca i giudizi negativi e lascia quelli positivi che così si autoalimentano accrescendo l’impressione di un forte consenso sulla sua figura.

Il nuovo rapporto diretto tra capo politico e base implica una serie di conseguenze, portando all’estremo il paradigma del rispecchiamento. Il leader ha tanto più successo quanto più si presenta omogeneo al suo uditorio e ne adotta il linguaggio: frasi brevi ad effetto, slogan, espressioni dialettali, semplificazione dei problemi, predilezione per questioni concrete e immediate da risolvere nel breve periodo, parole chiave che non sono la sintesi di un discorso, ma diventano il discorso stesso e quindi generano consenso. Twitter con i suoi 140 caratteri è particolarmente adatto allo scopo: mostra una tesi, cattura l’attenzione, ha un impatto emotivo, parla direttamente ai sentimenti di rabbia, paura o speranza. Questo è infatti ingrediente prioritario della nuova comunicazione politica: fare leva sull’emotività, ora presentando i fatti in chiave sensazionalistica, puntando sulla domanda di sicurezza generata dal senso diffuso di precarietà dovuto all’incertezza economica, all’ampliarsi delle disuguaglianze sociali, ai flussi migratori da gestire, al terrorismo e alla criminalità da combattere, ora proponendo ottimisticamente un nuovo sentiero da percorrere per risolvere davvero le importanti questioni che attanagliano il bel paese.

Sul primo fronte troviamo il modello Salvini, novello sceriffo del far west nostrano che difende il paese affrontando di petto i problemi con un’aggressività da maschio alfa e proponendo slogan e soluzioni semplicistiche (es. prima gli italiani, chiusura dei porti); sul secondo Renzi che, usando la parola chiave rottamazione come forza motrice della costruzione della sua figura politica, si propone un po’ come uomo della provvidenza, un po’ come uomo del fare, sostanzialmente un uomo nuovo in grado di scalzare i vecchi quadri del Partito Democratico, viziati dalla grigia professionalità della tradizione comunista e democristiana, e imporsi, attraverso una instancabile volontà e dinamismo, quale leader in un Paese che attendeva da troppo tempo un rinnovamento generale, di idee, generazionale. 

Un elemento che rende efficace la costruzione del consenso in entrambi i casi è la chiamata a schierarsi contro un nemico. In un’epoca in cui la fiducia nel sistema politico tradizionale è venuta meno, i leader sono diventati imprenditori politici che utilizzano piuttosto la sfiducia, in nome di un cambiamento radicale che investe i partiti dall’interno o dall’esterno. D’altronde l’uomo è un animale conflittuale e se non c’è una classe antagonista su cui indirizzare odio o risentimento, ci si inventano nuovi nemici: i migranti e le Organizzazioni non governative criminalizzati dalla Lega, la politica tout court attaccata con veemenza dal Movimento pentastellato, i gufi, giornalisti, professoroni, burocrati e vecchi notabili del proprio partito che Renzi è costretto a fronteggiare per salvare la bella Italia paralizzata nella palude in cui è sprofondato il Partito Democratico.

La possibilità per il leader di offrirsi al pubblico senza mediazioni esterne, evocando una vicinanza e una intimità un tempo impensabili, rilancia forti elementi narrativi. Renzi ad esempio si racconta come protagonista di una fiaba in cui l’Italia è presentata come una bella addormentata che deve essere risvegliata, una storia da scrivere (apparentemente) insieme, politico e cittadino, in un imminente futuro. Speranza e Jobs Act, passando per sorriso e cambiamento, ottimismo e scuola, adesso, avanti, bellezza, oltre a rottamazione, sono le parole chiave che contraddistinguono lo storytelling di Matteo Renzi secondo il linguista Massimo Arcangeli: una lingua che, passando dal campo dei motori a quello calcistico, per l’impianto virile sotteso, solletica l’orgoglio maschile, con un impatto che va ben oltre il target degli appassionati del settore. Salvini incarna piuttosto la logica che ha indotto i politici ad abbandonare la scena ufficiale per spogliarsi del proprio ruolo di autorità e fraternizzare con il cittadino comune. Non è più la prospettiva biografica della berlusconiana Storia italiana, in cui momenti anche intimi e familiari sono inscritti in una vita esemplare e inarrivabile, ma una giustapposizione di momenti di banale quotidianità (in costume da bagno in spiaggia, mentre addenta una fetta di pane con la Nutella in un selfie postato il giorno di Santo Stefano) conditi da un linguaggio colloquiale in cui gli elettori sono “amici” e  costante è l’impiego di espressioni quali “vi voglio bene” o “bacioni”. Momenti quotidiani alternati ad altri più “alti” che trasferiscono su Facebook suoi pezzi di televisione o dirette dal territorio. Il suo video che in assoluto ha avuto più like è quello della diretta da Milano del 24 febbraio 2018, in cui in un comizio in piazza Duomo giura, esibendo la Costituzione e il Vangelo davanti alla folla acclamante, di essere fedele a 60 milioni di italiani. Il digitale diventa così il terreno in cui giunge al culmine quel processo di contaminazione tra corpo pubblico e corpo privato del politico di spicco; tradizionalmente la parte pubblica doveva mantenere una sua sacralità perché incarnava il sistema istituzionale e la parte privata, soggetta a vizi e virtù, doveva mantenersi in una condizione di equilibrio con la prima. Oggi il corpo profano delegittima quello sacro, anzi gli sottrae la sacralità e, come dimostrano le recenti campagne elettorali, si offre come moderna reliquia da venerare, da toccare, da avvicinare per un bacio, un abbraccio, un selfie salvifico da immettere in rete a portata di clic. Questo dimostra anche che per produrre consenso la dimensione virtuale e fisica devono cooperare, come già intuito da Beppe Grillo: il successo di Salvini alle elezioni del 2018, come ha spiegato Morisi nell’intervista sopra citata,  è stato infatti determinato dall’interazione efficace tra la televisione, che mantiene comunque la sua importanza perché raggiunge anche il settore ancora ampio di chi non ha dimestichezza con il digitale, la rete e il territorio, connessi in un circolo virtuoso che viene poi rappresentato sui social. Questo dimostra che oggi un capo politico che si rivolge a tutti gli italiani non può farlo attraverso un solo linguaggio, un solo canale, una sola tecnica retorica, perché alla comunicazione politica uno a molti si è sostituita quella molti a molti. Non c’è più la dinamica che vede politici e media come attori che dialogano tra loro e i cittadini che assistono allo spettacolo: adesso gli attori si incrociano tra di loro, concorrono alla costruzione del senso e il linguaggio politico è condiviso tra mittente e destinatario. Senza contare che  il ciclo di una notizia è passata dalle 24 ore dell’era predigitale, in cui erano i media a decidere quale rilievo attribuirle,  ai 24 minuti odierni, in cui il ruolo dei media come organizzatori e filtro è molto marginale; così la politica è chiamata a seguire quanto una notizia, grazie a un’opinione pubblica bersagliata e stimolata da fonti e contenuti diversi nell’arco della stessa giornata, diventa popolare su facebook nel giorno x, o quanto una notizia popolare on line lo diventa anche off line o viceversa. Un leader deve dunque prendere una quantità di decisioni molto superiori rispetto al passato, se intervenire, con quale linguaggio, su quali canali.

Una delle principali conseguenze di questo rapporto diretto tra leader e pubblico grazie alla rete è quella che Ilvo Diamanti definisce popolocrazia, termine che usa come titolo di un recentissimo saggio scritto a quattro mani con Marc Lazar, e che allude alla forma assunta oggi dal populismo. Infatti i due autori sostengono che la “democrazia immediata” inseguita dal web, cavallo di battaglia del MoVimento Cinque stelle e oggi naufragata nel centralismo della piattaforma Rousseau controllato dall’alto, è una riedizione del progetto fondativo del populismo, quello cioè di andare oltre la democrazia rappresentativa perché qualsiasi mediatore è contraddittorio rispetto alla possibilità e al diritto dei cittadini di decidere in via diretta. Elemento fondamentale del populismo è infatti l’opposizione tra un popolo unico e omogeneo contro una classe dirigente, vista anch’essa come unica, in una visione dicotomica della politica divisa tra amici e nemici. Questa visione è la madre di tutte le semplificazioni care ai populisti: non ci sono problemi complessi, si rifiutano gli esperti che fanno perdere tempo, tutto si risolve velocemente, si è sempre in emergenza, c’è sempre un nemico da combattere e a cui addossare la responsabilità, l’Europa, i migranti, la vecchia classe dirigente a seconda dei casi. Se i vituperati partiti erano in grado di intercettare l’ira dei delusi, degli esclusi, degli offesi, trasponendola e decantandola in contenitori programmatici e ideologici, oggi la rabbia sociale è allo stato brado e i nuovi leader politici si limitano ad alimentarla per cavalcarla. La radicalizzazione dei risentimenti struttura una nuova drammaturgia in cui il conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, viene vissuto come morale, quindi totale. Odio e aggressività rendono molto in termini di consenso.

 È evidente quindi, da quanto detto, che populista non è sinonimo di popolare: il populista ritiene di incarnare il popolo assomigliando al popolo, mentre un leader popolare, come poteva essere De Gaulle, costruisce, a partire da una conoscenza della complessità dei problemi che la società pone, una sua linea da seguire e se il popolo non è d’accordo va avanti da solo, anche a costo dell’impopolarità, se crede nella efficacia e nella realizzabilità del suo programma.

Oggi invece si è imposta la prassi, per chiunque desideri vincere le elezioni, di ispirarsi a un modello comunicativo di stampo populista che ridisegna le tradizionali contrapposizioni: da quella di classe tra destra e sinistra, sostiene Diamanti, a quella odierna tra centro e periferia, dove quest’ultima non indica necessariamente una geografia del degrado, ma l’insieme di chi si sente periferico rispetto ai centri, ai luoghi e ai gruppi che contano e cerca il riscatto nell’illusione di un ritrovato ruolo di protagonista. Ma il consenso ottenuto con l’onnipresente ricorso al popolo sovrano ha il suo lato oscuro: da un lato si presta con evidenza ad impieghi demagogici, plebiscitari e irrazionalistici, difficilmente presidiabili, che rendono illusoria la prospettiva salvifica indicata, perché il leader di turno, novello unto del signore,  può presentare qualsiasi comportamento come possibile e condivisibile perché legittimato dal consenso popolare; dall’altro le possibili conseguenze negative possono ricadere anche sul politico che, basando il consenso sull’adesione emotiva, sentimentale, a volte fanatica alla sua persona più che al suo programma, può subire repentine disconferme al primo passo falso, alla prima delusione che provoca nei suoi sostenitori. Renzi è un esempio estremamente eloquente di questo rischio: dal grande successo storico del Pd alle europee del 2014, con un risultato oltre il 40% che riportava ai fasti della vecchia DC, alla vittoria del no con uno scarto di quasi 20 punti al referendum sulla riforma del bicameralismo perfetto del 4 dicembre del 2016 che, complice la personalizzazione dell’appuntamento elettorale voluta da Renzi e la sua sottovalutazione dei nemici esterni ed interni, si è trasformata in una solenne bocciatura del leader, sfociata nelle sue immediate dimissioni da premier. È sotto gli occhi di tutti la altissima volatilità del voto quando è legato alla personalità del leader, volatilità che ha riguardato personaggi diversi tra loro, come Monti, Renzi, Di Maio.

Un’altra conseguenza di questo modo di ottenere il consenso è la necessità di calibrare la decisione politica sul volatile termometro dei sondaggi o sulle reazioni a caldo dell’opinione pubblica, legando qualunque decisione politica al contingente e all’estemporaneo: questo impedisce la progettazione di politiche organiche, di ampio raggio, e impone decisioni a singhiozzo e strategie di piccolo cabotaggio, con l’occhio attento soltanto all’incasso in termini elettorali, rendendo perpetuo il clima acceso tipico delle campagne elettorali.

Conclusioni

Da quanto detto risultano evidenti sia le potenzialità che i rischi della comunicazione politica nell’era digitale, che hanno favorito posizioni teoriche dicotomiche: Emiliana De Blasio, docente di Sociologia della comunicazione presso la Luiss, definisce cyber-ottimisti (o cyber-utopisti) coloro che sottolineano le enormi potenzialità che la rete offre in termini di democratizzazione e  facilitazione di accesso alla sfera pubblica, e cyber-pessimisti coloro che vedono nello sviluppo e diffusione delle nuove tecnologie nuovi strumenti di controllo e manipolazione da parte del potere. Polarizzazione netta tra chi considera i social network utili o dannosi per il dibattito politico emerge anche dall’ultima indagine del Censis sulla comunicazione. Ma lo scontro tra tecno-entusiasti e tecno-luddisti è del tutto privo di interesse, mentre proficua appare una riflessione che parta da due concetti di fondo: innanzitutto il processo di sviluppo delle nuove tecnologie è inarrestabile e irreversibile; in secondo luogo la trasformazione è stata talmente veloce che ancora non abbiamo coordinate e strumenti efficaci per comprenderla appieno. Mauro Calise, docente di Scienze politiche all’università Federico II di Napoli, paragonando la rivoluzione digitale a quella della stampa, ci ricorda che la differenza tra le due è proprio nei tempi: la seconda per almeno cinquant’anni non ha fatto progressi perché mancava la carta e per produrre in modo efficace i suoi effetti di cambiamento ha avuto bisogno tre di secoli; il digitale ha cambiato tutto in una dozzina di anni, dal 2000 al 2012. Quindi siamo ancora in una fase pionieristica, un po’, afferma Calise, come i primi grandi sociologi di fronte alle prime metropoli industrializzate; molto c’è da indagare e capire sul destino della polis elettronica, destino che la rapidissima ascesa del webpopulismo da un lato e mobilitazioni di massa, come quelle legate a Podemos, al cosiddetto popolo viola e recentemente a Friday for future o alle nostrane Sardine, dimostrano essere ancora incerto. E allora, per usare la metafora di Machiavelli, chi sarà il Principe digitale si chiede Calise: il leader, che utilizzerà questa tecnologia rivoluzionaria per conquistare – con la fortuna, la virtù e l’inganno – il potere? Il partito, che riuscirà a risorgere dalle sue ceneri per riappropriarsi del primato perduto? O il popolo, che troverà finalmente nella rete la leva per sollevarsi ai vertici della cosa pubblica? È una partita aperta. Calise è convinto che il principale potenziale di innovazione della rete risiede nella libertà degli individui: di accesso, relazione, informazione. Di responsabilizzazione. Per la prima volta nella storia dell’umanità ciascun cittadino può gestire da sé le proprie idee, mettendole in relazione con gli altri, senza limiti. Ma come questa opportunità si possa trasformare in cambiamento politico è una sfida ancora da affrontare. E in questa prospettiva la domanda di fondo è: è possibile costruire una civiltà democratica della rete? Una democrazia che, come il sistema delle democrazie del secolo scorso, sappia crearsi la propria Costituzione, il proprio sistema di regole che finora sembra quasi impossibile visto lo strapotere supernazionale delle grandi company del sistema digitale? Può la rete aiutarci a costruire un pensiero più complesso e non solo emozioni e semplificazioni, spesso asservite a messaggi contro? Può essere utilizzata per costruire un pensiero per il futuro condiviso con le persone, anziché raccoglierne prevalentemente l’istinto? Come si può costruire una cittadinanza digitale che recuperi quel comportamento che aveva caratterizzato le vecchie sezioni di partito? Può la politica riprendere il comando e il destino di questa sfida? Per riuscirvi, sostiene Calise, il Principe digitale dovrà avere tre teste. Quella carismatica del leader. Quella gramsciana del partito nuovo. E quella del popolo sovrano, cui spetta – in prima e ultima istanza – lo scettro.

C’è chi sta raccogliendo questa sfida. Con il Libro bianco della partecipazione digitale i Copernicani, che si definiscono un’associazione indipendente di studenti, lavoratori, imprenditori, docenti, ricercatori e politici, offre un manifesto curato da numerosi autori dell’associazione, dedicato all’innovazione digitale e al ruolo che questa può e deve svolgere nel processo di partecipazione democratica. È un cantiere continuamente aggiornato, che, partendo dagli effetti negativi del digitale, intende metterne a fuoco il grande potenziale che può soccorrere la crisi dei partiti e della democrazia. Fanno proposte operative per costruire un network di esperti con competenze specifiche per discutere di questo, arrivare a definire nuove regole a cui deve sottostare un confronto democratico in rete e, cosa impegnativa, costruire strumenti operativi software su come ad esempio si elegge un comitato o si redige una proposta. L’intento è di avvicinare internet e politica, cercando con una divulgazione intelligente di far vedere come il voto digitale o i big data, ad esempio, possono essere usati nella dinamica politica. Il tutto offrendo una piattaforma come sistema di partecipazione politica, che permetta di avvicinare istituzioni, esperti, cittadini attraverso blog, strumenti di approfondimento e formazione, di elaborazione partecipata di proposte, di votazione e di gestione del territorio.

Mauro Calise aggiunge una riflessione sulle enormi potenzialità che la rete offre dal punto di vista educativo e culturale alle università pubbliche, per rilanciare la cultura attraverso corsi di eccellenza per via telematica. I grandi atenei americani distribuiscono su tre piattaforme i tre quarti dei 9000 corsi di alta specializzazione; Calise dirige la piattaforma Federica, inserita nel progetto europeo Emma, che offre 300 corsi gratuiti con lezioni in podcast, su smartphone e tablet ed è la più grande in Europa. Si sa come democrazia e cultura siano inscindibili e come oggi sia essenziale questa complementarietà. Perché è vero che poteri forti e desiderio di manipolare le masse ci sono sempre stati, ma la rete per ora non può usufruire dei pesi e contrappesi della democrazia tradizionale e, in attesa di nuove regole, è essenziale avere strumenti per non rischiare di essere inconsapevoli prodotti di processi manipolatori, dalle più rozze fake news alla sollecitazione dei nostri pregiudizi cognitivi ricavati dalla nostra quotidiana frequentazione del web per informarci, fare acquisti, esprimere un pensiero.

Potenzialità culturali e organizzative convivono così con derive populiste, la bestia di Salvini con le Sardine o Friday for future, le infinite possibilità di informazione con le fake news più o meno individuabili, la possibilità di confronto in un’agorà sconfinata con i confini di una polarizzazione delle idee che chiude i destinatari in bolle autoreferenziali; l’illusione di una democrazia diretta a portata di clic non elimina la forte gerarchizzazione sotto il leader carismatico di turno; la iperconnessione quotidiana scolora nella individualizzazione e nell’isolamento dei naviganti. Insomma, il panorama si presenta come uno scenario aperto e contraddittorio, ma condividiamo con Calise l’apertura al futuro che egli affida alla famosa frase di Mao “grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente”.

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Libro bianco della partecipazione politica digitale, a cura dell’Associazione I Copernicani, 2018.