Potare e scrivere durante il Lockdown: una condizione ideale

Paolo Veziano

La notizia di un misterioso virus sviluppatosi in Cina, giunge a fine febbraio mentre sto cenando con un gruppo di amici nella Trattoria da “Gemma” a Roddino d’Alba, uno dei templi più celebrati della cucina di Langa.

Nelle settimane successive il virus approda in Italia, dilaga rapidamente in alcune regioni del Nord, il suo silenzioso, mortale cammino pare inarrestabile. Si cerca con la giusta insistenza il “paziente zero”, nell’intento di circoscrivere i focolai.

Prende a comparire sulla scena mediatica – e vi rimarrà a lungo – una schiera di virologi e immunologi appartenenti a scuole di pensiero diverse che propongono letture antitetiche: da un lato si sostiene che il virus, denominato Covid-19, che ci sta contagiando è estremamente aggressivo e pericoloso; dall’altro lo si considera poco più di una semplice influenza stagionale.

Non bisognerà attendere a lungo per capire quale scuola avesse visto giusto.

Il precipitare della situazione spinge il Governo, il 9 marzo del 2019, a disporre la completa chiusura – termine sostituito dall’anglismo lockdown – del Paese.

Si scarica il modulo per l’autocertificazione che cambia spesso forma, l’unico documento che consente di circolare, seppur con molte limitazioni, e solo per “comprovati motivi”. Unica eccezione alla severa regola, la possibilità di recarsi al più vicino supermercato per fare la spesa; sono ancora negli occhi di tutti le immagini delle interminabili e ingiustificabili file, della folle corsa agli acquisti, dei carrelli stracolmi. Un espediente che non pochi impiegheranno per sottrarsi – ignorando i gravi rischi – all’isolamento e regalarsi un’ora d’aria, poi non così salubre.

Sulle strade cala un silenzio irreale che ci riporta al lontano 1973, quando la crisi petrolifera diede origine a  quel fenomeno passato alla storia come austerity.

Alle finestre compaiono cartelli, striscioni, teli colorati con la dizione: “Andrà tutto bene”. Ci s’interroga sulla correttezza semantica della frase; gli italianisti sostengono che dovrebbe iniziare con tutto, e non con andrà.

Le immagini mostrano ed enfatizzano il comportamento degli italiani che reagiscono coraggiosamente all’isolamento cantando, suonando, facendo sport alle finestre e sui balconi. Dai media viene l’invito – quanto mai opportuno – a rimanere a casa, ad ascoltare musica, vedere qualche film a riprendere in mano libri abbandonati da tempo negli scaffali. Inviti accompagnati da una frase dal tono quanto mai retorico: “Da questo periodo usciremo tutti migliori”. Che quel miglioramento tanto annunciato non sia avvenuto, è palesemente dimostrato dai fatti accaduti durante l’estate e l’inizio dell’autunno.

I telefoni cellulari non smettono di squillare e di avvertire del continuo arrivo di messaggi. Certo un modo per rompere l’isolamento, per sentirci vivi, per esprimere reciproca solidarietà, per darci coraggio, ma il tarlo del dubbio non tarda a manifestarsi: la pletora di messaggi privi di contenuto non ingigantisce forse quel profondo senso di solitudine che avvolge chi si sente vivo quando utilizza oltre il lecito i moderni mezzi di comunicazione? E, rovello ancora più inquietante, quali saranno i traumi e le ricadute psicologiche sulle menti più deboli, se la clausura dovesse protrarsi a lungo? Nascerà forse una sindrome post-covid i cui effetti, in un futuro non lontano, formeranno argomento di studio?

Nel piccolo paese in cui chi scrive vive e lavora l’atmosfera è, come ovunque rarefatta, le strade sono deserte, chiusi  i bar, aperti invece il macellaio, il tabaccaio, il commestibile; un gruppo di amici, sfidando il divieto, si da regolare convegno in luoghi  non sempre nascosti.

In diligente attesa di fronte all’ingresso del commestibile, ascolto con curiosità la voce che insistente si leva dalla gente: è come durante la guerra. Confuto questa tesi chiarendo che in quel lontano e triste tempo le persone erano, come adesso, effettivamente in coda ma che era necessario essere muniti di tessera annonaria e che, soprattutto, vi era ben poco da comprare e che certi generi erano introvabili, se non al mercato nero.

Fingendo indifferenza scruto le borse di chi ha esaurito gli acquisti, credo di riconoscere in esse le sagome dei pacchi di caffè, zucchero, farina e sale. Giunto il mio turno, interrogo il proprietario il quale conferma la correttezza delle mie osservazioni rubate e aggiunge che al primo posto fra i generi più acquistati figura certamente il lievito di birra prodotto – questo sì – ormai introvabile. Mi rallegro per la improvvisa – anche se indotta vocazione culinaria – che spinge molti ad abbandonare le buste dei cibi precotti e a frugare nei ripostigli alla ricerca di vecchi arnesi dimenticati: matterelli e madie. Passando per i carrugi si colgono distintamente i fragranti, differenti, antichi profumi che emanano pane, pizze, torte verdi e dolci di ogni genere appena sfornati; solo immaginabili, invece, le tonalità e i diversi sapori di tagliatelle, ravioli e gnocchi.

Mi chiedo se il riscoperto amore per la lettura, la musica, la cucina, saprà sopravvivere anche dopo la fine del lockdown, o se, com’è probabile, durerà solo lo spazio di qualche settimana.

Alcuni amici, assai preoccupati per la situazione italiana, telefonano dall’estero chiedendomi se il bollettino di guerra che quotidianamente ascoltano, rifletta una condizione reale o se invece non si tratti di “dati gonfiati ad arte”dal Governo per giustificare la chiusura e indurre la gente a maggior prudenza. 

L’immagine di un paese in guerra, oltre che dall’alto numero dei caduti, è resa più viva e immediata dalle eloquenti immagini degli automezzi militari che, la notte, lasciano nascostamente i saturi obitori della Bergamasca per ignote destinazioni cimiteriali.

Si fa vivo anche il presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia Giovanni Rainisio il quale m’invita a riprendere il lavoro, a lungo accantonato, di rifacimento del volume avente per tema La libera Repubblica partigiana di Pigna.

Solo a conversazione conclusa realizzo di poter godere di un’invidiabile, doppio privilegio: l’autocertificazione mi consente di recarmi il mattino negli uliveti per svolgere il lavoro di potatura; potrò invece dedicare il pomeriggio allo studio e alla scrittura.

La chiusura di bar, ristoranti, cinema, teatri, l’abolizione di ogni evento culturale, l’assenza di ogni elemento di distrazione, contribuiscono a creare una condizione ideale che garantisce sia la massima concentrazione sia la necessaria continuità. Uno stato ottimale, si diceva, ma solo potenziale per chi è abituato a costruire storie partendo dai polverosi documenti rinvenuti durante il lavoro di spoglio negli archivi.  Ma ora gli archivi sono chiusi e lo rimarranno a lungo, e dunque che fare? Nel caso in questione Internet offre un aiuto solo marginale, non rimane altra scelta se non quella d’iniziare, come da convenzione, provando a disegnare l’architettura del volume e a tessere le tele tematiche, potendo disporre soltanto degli elementi e del filo narrativo ricavati dalla bibliografia sull’argomento. L’accostamento dei testi di riferimento in funzione comparativa pone da subito seri problemi metodologici e interpretativi, ingenerati dall’incongruenza delle date e dei numeri, dalle discordanti versioni dello stesso accadimento che emergono dalle memorie e dai diari redatti post factum. Èpiù che mai necessario esercitare con estremo rigore la “critica delle fonti” che, tuttavia, non consente di sciogliere completamente gli enigmi.

Il problema per quanto scomodo non è nuovo, Italo Calvino lo aveva già affrontato ne il Ricordo di una battaglia in cui immaginava metaforicamente i ricordi rintanati «come anguille nelle pozze della memoria»; era certo che fosse sufficiente «rimestare nell’acqua bassa per vederli affiorare con un colpo di coda» o sollevare «qualcuno dei grossi sassi che fanno da argine tra il presente e il passato» per vederli emergere. Ma quando finalmente decise di tirare a riva le reti dei ricordi per vedere quello che avevano trattenuto: «eccomi qui ad annaspare nel buio». Calvino conosceva i rischi della damnatio memoriae e temeva che i ricordi affioranti potessero trasformarsi in «un racconto con lo stile di allora, che non può dirci come davvero erano le cose ma solo come credevamo di vederle e di dirle».

L’abituale pausa delle 18.00 non è più rallegrata da un caffè casalingo o da un bicchiere di Vermentino, ma dal consueto, inquietante bollettino diramato dalla Protezione civile. Il numero dei morti continua a essere alto, la curva del contagio non accenna a decrescere. In aprile, finalmente, i dati si fanno confortanti e il Governo, preso atto del miglioramento, decreta il 18 maggio, dopo sessantanove giorni, la fine del lockdown.

Si può tracciare un bilancio – ahimè non ancora definitivo – degli effetti perversi di un virus che ha fatto strage di anziani. Non meno drammatiche le ricadute economiche: si configura un forte decremento del Pil, il Governo corre ai ripari, varando misure di sostegno che si riveleranno tardive e insufficienti a sostenere molte categorie professionali venutesi a trovare in uno stato di grave difficoltà.

Il Paese, ancorché traumatizzato, torna lentamente alla vita, anche gli archivi riaprono con cautela le sale agli studiosi. È ora possibile svolgere il lavoro di ricerca che, in tempi solleciti, porta all’acquisizione di una matassa di fili documentari indispensabili per apportare le necessarie modifiche al disegno architettonico del volume e rifinire sia la trama sia l’ordito della storia. La libera Repubblica di Pigna, “libro strano”, concepito durante il periodo di clausura vedrà la luce in dicembre.

Per concludere, i lavori agricoli svolti in perfetta solitudine hanno garantito assoluta protezione fisica dal contagio; l’abitudine di chi scrive a lunghi periodi di isolamento ha permesso di sviluppare una forma di immunità, più che sufficiente a combattere i contraccolpi psicologici.

Suggerisco, infine, la lettura dei due libri di Italo Calvino che mi hanno accompagnato in questo non lungo ma surreale viaggio: La strada di San Giovanni e Il sentiero dei nidi di ragno. Nel primo – come detto poco sopra – Calvino affronta il tema della rimozione dei ricordi; nel secondo – scritto appena due anni dopo la Liberazione – il grande romanziere offre il giusto strumento per misurare il grado d’intensità e il cambiamento di direzione del vento della Storia nella quale, a tempo debito, entrerà anche il lockdown.

Paolo Veziano è olivicoltore e studioso delle persecuzioni antiebraiche in provincia di Imperia e delle migrazioni clandestine alla frontiera di Ventimiglia negli anni 1915-1940. Tra i suoi lavori, Sanremo. Una nuova comunità ebraica nell’Italia fascista 1937-1945, Diabasis, Reggio Emilia 2007, Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940, Fusta editore, Saluzzo 2014 e La libera Repubblica di Pigna. Una parentesi di democrazia (29 agosto-8 ottobre 1944), Fusta editore, Saluzzo 2020.