Queste note sono frutto di un’esperienza decennale con il progetto “Lato Oscuro” del Centro White Dove Progetto Educazione di Genova e della partecipazione come consulente alla Commissione Femminicidio al Senato della Repubblica.
Questo percorso è stato per me molto intenso e mi ha cambiato profondamente consentendomi di confrontarmi con le mie radici maschili e di lavorare per una evoluzione personale in tal senso.
Il lavoro con la violenza è molto impattante e non avrei potuto portarlo avanti per così lungo tempo se fosse il tema esclusivo della mia professione e se non avessi la rete di supporto dei miei colleghi dell’associazione e la riflessione nella rete nazionale Relive ed europea WWP.
La violenza maschile contro le donne costituisce un fenomeno grave e diffuso, al di là dei confini nazionali, essendo presente in tutti i paesi europei e a livello internazionale in modo trasversale. Con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata. L’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini. L’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti violenti sopra descritti. La scelta di usare il termine “uomini autori di violenza” invece di uomini violenti, perpetratori o maltrattanti corrisponde ad una ben precisa scelta politica del modo in cui intendiamo contribuire ad un cambiamento di prospettiva culturale e clinica nel contrasto alla violenza di genere. Poiché, a nostro avviso, la violenza non è un destino maschile, è necessario al fine di favorire un reale cambiamento, distinguere identità dell’uomo, che può mostrare anche valori e principi da preservare, dal comportamento violento, in modo che l’abbandono della violenza non metta in crisi I’identità nel suo complesso, generando negazione, rifiuto e stigma, ma costituisca piuttosto un arricchimento relazionale per tutti coloro che entrano in relazione con l’uomo in trattamento.
La letteratura scientifica in materia ha dimostrato che le cause di violenza non vanno ricercate all’interno di un unico fattore, ma che la violenza è da considerarsi un fenomeno derivante dall’intreccio di una molteplicità di fattori di natura diversa: individuale, relazionale, sociale e culturale. Per questo è necessario sviluppare un modello teorico integrato, che consideri tutti questi aspetti in modo interconnesso. Il modello teorico privilegiato dall’OMS (2002; 2005) dall’UN WOMEN e dal WWP (2006-2008) è quello ecologico (Brofenbrenner) in quanto fornisce degli elementi chiave sia per la lettura, sia per l’intervento sul fenomeno.
Ma non esiste solo la violenza fisica e sessuale o il femminicidio, esistono altre forme analogamente significative e impattanti sulla vita di chi la subisce e per l’intera collettività:
- La violenza psicologica, ossia comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo ed intimidazione;
- La violenza economica, ossia la privazione o limitazione nell’accesso alle proprie disponibilità economiche o della famiglia;
- Lo Stalking, ossia l’insieme di comportamenti persecutori ripetuti e intrusivi, come minacce, pedinamenti, molestie, telefonate o attenzioni indesiderate.
La violenza contro le donne è un fenomeno da sempre presente nella nostra cultura come in tantissime realtà in tutto il mondo. Non possiamo dimenticare che molti racconti storici e mitologici, molte pratiche, anche di popoli antichi, raccontano di violenze perpetrate dall’uomo sulla donna: il “ratto delle Sabine”, le pratiche di stupro sistematico delle donne in occasione di conquiste militari e razzie, la millenaria condizione di sottomissione e subalternità della donna nei confronti dell’uomo presente anche nei codici di legge di tutto il mondo fino ai giorni nostri. Basti ricordare, ad esempio, che nel nostro Codice penale solo nel 1981è stato abrogato il matrimonio riparatore, mentre solo nel 1996 lo stupro è stato considerato un reato contro la persona e non un reato contro la morale.
La lettura psicologica del problema del maltrattamento quindi non si può basare su modelli individualistici, ma su approcci che vedono in primo luogo come oggetto del proprio intervento le relazioni. La lettura del fenomeno in termini di comportamenti e di caratteristiche psicopatologiche individuali da correggere lascia spazio ad una lettura che vede persone che vivono ed esprimono nelle loro relazioni la cultura in cui sono inseriti, che sperimentano, talvolta in maniera drammatica, dei problemi e in qualche modo sentono una domanda di cambiamento che può e deve essere colta. Questa domanda di cambiamento è un’opportunità che la società deve sostenere, diffondere e poi accogliere con competenza. Trattare queste domande significa offrire una possibilità di sviluppo per la persona e per le relazioni che questa persona vive, offrire questa opportunità e renderla sistematica e aperta a tutti significa incidere profondamente nella società e nella cultura.
Senza avere alcuna ambizione di essere esaustivi nella descrizione di un fenomeno che interroga da sempre I’uomo, possiamo individuare tre fattori che principalmente si riscontrano nell’analisi di casi di maltrattamento come elementi che ne hanno facilitato l’emersione:
1) I residui della cultura patriarcale e maschilista, cultura fondativa dell’intera storia umana che, tra le altre cose stabiliva il dominio dell’uomo sulla donna, l’assenza nelle funzioni di cura e affettive da parte dell’uomo nel contesto domestico e familiare, una visione statica e scontatamente data delle identità di genere maschili e femminili e delle relative funzioni sociali previste. Questa tradizione culturale ha i suoi effetti, specie nell’uomo, a prescindere dal fatto che ci si riconosca o meno: anche l’uomo che più si sente estraneo alla cultura patriarcale si confronta intimamente con essa, con gli stereotipi e i pregiudizi che questa cultura ha generato nel tempo. Gli effetti principali del patriarcato sono: una minore funzione di cura dell’uomo nell’ambito domestico; una minore presenza della donna nei contesti sociali, politici e del lavoro, con una conseguente minore libertà economica della donna, specie se madre; una visione statica delle identità di genere e delle funzioni sociali dell’uomo e della donna, che mal si conciliano con la fluidità e l’instabilità del contesto sociale in cui viviamo. In estrema sintesi potremmo dire che nella cultura patriarcale l’uomo, in quanto tale, è un’istituzione di potere. Nella nostra epoca tutte le istituzioni di potere si sono disgregate e stanno percorrendo un profondo, difficile e controverso processo di ripensamento e di rifondazione, anche l’uomo, ogni uomo, quindi, deve attraversare questo processo, non può sentirsi estraneo a questa storia.
2) Il possesso come modo di stare nelle relazioni intime. Le relazioni affettive possono essere vissute in un contesto di condivisione e di desiderio, ma molto spesso l’intensità dei vissuti emozionali, la paura di perdere la relazione e una fondamentale fragilità identitaria per la quale si ha bisogno dell’altro per sentirsi sicuri, fanno si che queste relazioni siano vissute entro fortissime emozioni richiamanti il “possesso” e quindi il “controllo” dell’altro. Possedere l’altro è una fantasia che ha una grande capacità di presa emotiva, diventa facilmente un obiettivo totalizzante e nell’uomo ben si aggancia con gli stereotipi della cultura patriarcale. Ma nessuno si possiede fino in fondo, in quanto l’altro è per definizione altro da sé e in quanto tale non è riducibile a ciò che si desidera. Questa impotenza comporta quasi inevitabilmente la trasformazione della fantasia di possesso con la fantasia di distruzione di ciò che si vorrebbe possedere. In sostanza il possesso è sempre impotente, disperato, distruttivo e violento. Nel tentativo, disperato, di perseguire il possesso dell’altro, emergono delle ulteriori modalità relazionali. In primo luogo, il controllo, uno dei vissuti che maggiormente si riscontrano nelle relazioni maltrattanti, ma anche la pretesa, I’obbligo, la provocazione, la diffidenza, la lamentazione, la preoccupazione. Tutti vissuti emotivi che si trasformano in pretesti e comportamenti che inevitabilmente si manifestano nelle relazioni in cui invece che la condivisione dei desideri si vive il tentativo disperato del possesso dell’altro, intossicando la relazione fino a sviluppi potenzialmente sempre più violenti se non si riesce a sviluppare un pensiero su ciò che si sta vivendo.
3) L’incompetenza a pensare le emozioni. La nostra cultura ancora oggi sottovaluta enormemente il valore e l’importanza delle emozioni, a volte vengono trattate come un ostacolo al comportamento razionale, a volte come una piacevole distrazione, un intrattenimento. Più raramente vengono prese in considerazione come una risorsa fondamentale per conoscersi e per comprendere le situazioni in cui si è inseriti. Le emozioni ci parlano del modo in cui stiamo vivendo il contesto in cui le stiamo sperimentando, sono lo strumento fondamentale per comprendere la relazione tra l’individuo e il contesto, chi siamo, in quale rete relazionale siamo inseriti e quale obiettivo ci stiamo ponendo in quel contesto, al di là di ciò che ci raccontiamo razionalmente. Pensare le emozioni infatti non significa razionalizzarle, ma, al contrario, arricchire il nostro pensiero del contributo emozionale per conoscere, creare, affrontare i problemi, porsi degli obiettivi. Pensare le emozioni significa riuscire a sentirle, a leggerle, a non agirle immediatamente per valorizzarle come risorsa di conoscenza, possiamo dire generalmente che la violenza è sempre frutto di emozioni non pensate e che più si è in grado di pensare le emozioni e meno si è violenti. Come tutte le competenze, anche questa può essere sviluppata in qualsiasi fase di vita, ancor meglio se dalla prima infanzia, e in qualsiasi contesti relazionale, in particolare ci preme sottolineare la scuola e la famiglia.
La finalità del lavoro con uomini autori di violenza è l’interruzione della violenza e la costruzione di modalità relazionali alternative ad essa, al fine di evitarne le recidive. In questo senso si considera come un’azione di prevenzione. I programmi per autori di violenza devono dare, ad ogni livello, la priorità alla sicurezza delle compagne e dei bambini degli autori. Nel lavoro con i maltrattanti quindi si hanno due categorie di beneficiari: il beneficiario diretto è l’uomo, che attraverso il programma può sviluppare un modo nuovo di stare nelle relazioni affettive, assumendosi la responsabilità della violenza e del proprio cambiamento; i beneficiari indiretti, ma prioritari, sono le donne e i minori coinvolti, in quanto, appunto, scopo fondamentale dell’intervento è interrompere la violenza da loro subita. I programmi per autori di violenza devono esplicitare in modo chiaro, tanto per gli operatori che per gli uomini con cui si lavora, questa peculiare caratteristica dell’intervento e la sua finalità.
I programmi per gli uomini autori di violenza si basano sulla convinzione che le persone che hanno la motivazione al cambiamento dovrebbero essere messe nella condizione di poter intraprendere un percorso e che una funzione fondamentale di una comunità è stimolare nelle persone questa motivazione. L’assunzione di responsabilità rispetto a ciò che si è effettuato è un prerequisito per poter cambiare, poiché fino a quando verranno attribuite ad altri o a elementi esterni le cause del proprio comportamento e dei propri vissuti, non sarà possibile essere autori del proprio cambiamento. Il maltrattamento non deve essere visto come una forma di patologia, piuttosto come la declinazione di un complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, relazionali, emotivi e identitari. In particolare, è l’incapacità a leggere questi aspetti e a sostenere il peso di questi su di sé che genera la violenza, la quale è sostanzialmente esito dell’incapacità di pensare le emozioni generate dal rapporto tra l’individuo e il contesto.
Attraverso il percorso l’uomo dovrà raggiungere i seguenti obiettivi:
- riconoscere i propri comportamenti violenti come qualcosa di agito e non subito, qualcosa di cui si è dunque pienamente responsabili;
- saper riconnettere il proprio agire violento con il complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, relazionali, emotivi e identitari;
- non effettuare semplificazioni liquidatorie e autoconsolatorie volte a scaricare le responsabilità ed il peso emotivo della violenza su altri, specie le vittime;
- avere la capacità di pensare le emozioni che in particolare spingono l’uomo a scaricare violenza sulla vittima, pensarle per sospendere l’azione e costruire letture più congruenti, complesse e utili per il problema che si sta vivendo;
- riuscire a “sentire” l’altro come soggetto e non come oggetto funzionale alle proprie esigenze emotive e personali.
I programmi per uomini autori di violenza devono assicurarsi che le compagne dei soggetti coinvolti siano informate sugli obiettivi e sui contenuti del programma, sui suoi limiti e le sue caratteristiche, non sottovalutando la possibilità dell’insorgere di ulteriori episodi di violenza. Le donne devono essere messe a conoscenza che la partecipazione al programma da parte del compagno potrebbe essere un modo per manipolarle e controllarle ulteriormente e della possibilità che esse stesse ricevano un supporto rientrando in progetti di sicurezza erogati da centri antiviolenza o servizi analoghi. Le informazioni fornite dalle compagne devono essere incluse nell’accertamento dei rischi e nella valutazione dell’autore. Le donne saranno avvertite qualora il compagno si ritiri dal programma o qualora gli operatori percepissero un rischio per la donna e i bambini. È necessario verificare che le compagne accettino volontariamente di essere contattate, sarebbe auspicabile, in una collaborazione territoriale di rete, che il contatto con la partner sia effettuato dai soggetti istituzionali che hanno in carico la donna in collaborazione con i centri che hanno in carico l’uomo. Inoltre, è necessario rendere minimo ogni possibile rischio rappresentato dal contatto col partner. I programmi si impegnano in tal senso a non usare in nessun caso le informazioni fornite dalla donna direttamente con l’uomo autore di violenza, al fine di non metterne a repentaglio la sicurezza. ll contatto partner, se gestito internamente e non effettuato tramite la collaborazione di rete deve essere realizzato da un professionista che non svolge l’azione trattamentale, salvaguardando, in tal modo, l’attività trattamentale da altre azioni che potrebbero influenzarla.
I minori che vivono in contesti in cui sono messi in atto comportamenti violenti risentono sempre direttamente o indirettamente, della violenza a cui assistono anche a causa della compromissione delle capacità genitoriali. Per questo motivo l’attenzione a loro dedicata costituisce una priorità dei programmi, tanto nel lavoro diretto con gli uomini, quanto rispetto all’integrazione tra sistemi di intervento più ampi e nella cooperazione con altri enti, ed istituzioni formali e informali. Il programma stabilisce una politica speciale di protezione dei minori che includa azioni concrete da intraprendere qualora il minore sia a rischio di violenza domestica, nel rispetto del contesto locale e della situazione normativa. Consapevoli degli effetti e dei rischi della violenza assistita, i programmi per autori dedicano una particolare attenzione al recupero delle capacità genitoriali, Gli effetti della violenza domestica sui minori e la presa di consapevolezza da parte degli uomini in quanto padri, rappresentano una priorità nei programmi per autori di violenza.
La valutazione del rischio di recidiva è un obiettivo necessario e al contempo complesso da realizzare. La funzione di valutazione del rischio è da considerarsi parallela alla funzione trattamentale, possibilmente svolta da professionisti con competenze specifiche oltre ad utilizzare una specifica strumentazione (test, questionari, griglie di valutazione ecc.), s’interfacciano con diverse figure come gli operatori stessi che svolgono l’azione trattamentale, ma anche il maggior numero possibile di soggetti che possono essere fonti di informazione, in particolar la partner, la polizia e ogni altro tipo di ente/servizio che si occupi dell’autore o della sua famiglia. Le operazioni di valutazione del rischio dovrebbero essere sistematiche e ripetute nel tempo, per tener conto del carattere dinamico dei fattori di rischio della violenza. Identificare gli uomini ad elevato rischio di essere violenti mette gli operatori e la rete territoriale di contrasto alla violenza in condizione di avviare le misure adeguate a garantire la sicurezza delle vittime. In tal senso risulta di primaria importanza considerare la valutazione del rischio come una funzione specifica che agisce a livello di rete territoriale, condividendo con gli altri soggetti della rete strumenti, procedure e informazioni.
Il lavoro con gli uomini maltrattanti nel contesto culturale italiano è ancora una novità, per cui risulta necessario esplicitare alcuni degli aspetti che è fondamentale che non ci siano nei programmi per maltrattanti, chiarendo in tal senso quali sono gli aspetti più dannosi e pericolosi in questo ambito:
- interventi che si focalizzano esclusivamente sull’uomo e non pongono alcuna attenzione alla sicurezza della partner e dei figli vittime degli atti persecutori;
- non riconoscere che in alcuni casi – come abuso di alcolici, uso di sostanze e disturbi mentali – è auspicabile che il trattamento avvenga in sinergia con una presa in carico dei servizi deputati alla cura del disturbo di base.
- la realizzazione di consulenze e terapie di coppia, specialmente in casi in cui il maltrattamento è in atto, in quanto questo tipo di interventi rischiano di aumentare la pericolosità della condizione della vittima.
- interventi che evitano di attribuire la responsabilità della violenza all’autore e attribuiscono, in modo implicito o esplicito, alla vittima/partner e/o al rapporto la causa della violenza, che sostengono il comportamento violento, giustificando le azioni violente dell’uomo, oppure che in qualche modo mettono le vittime/partner in una posizione di maggior pericolo.
*Arturo Sica è psicoterapeuta, Presidente dell’Associazione White Dove, consulente della Commissione femminicidio del Senato della Repubblica Italiana