Quando si pensa alla violenza, spesso tra le prime immagini che si figurano nella nostra mente vi sono scene di aggressioni fisiche, molestie sessuali, atti persecutori come lo stalking o la più “sotterranea” ma non meno devastante violenza psicologica, che colpisce e mina “in modo diretto la fiducia in sé e l’autostima di una persona” (Merzagora Betsos, 2006).
Esistono tuttavia forme di violenza talora tristemente dimenticate – o forse ignorate. È questo il caso della violenza ostetrica. Alcuni ne staranno sentendo parlare per la prima volta; mentre altri tenderanno forse a ricondurla a dei rarissimi casi di maltrattamento da parte di personale sanitario non votato alla cura del paziente. Altri ancora probabilmente troveranno antitetico a se stesso questo concetto, domandandosi come si possa guardare a un momento di affido e cura alle mani esperte del personale ostetrico e ginecologico, che è senz’altro lì solo per il bene della donna e del bambino che porta in grembo, come possibile portatore di violenza da parte del personale stesso.
È bene allora fare chiarezza e non dare per scontato di che cosa stiamo parlando. All’interno del fenomeno della violenza ostetrica vi rientrano: abusi fisici, umiliazioni, aggressioni verbali, imposizione coatta di trattamenti o procedure mediche e/o mancanza di consenso pienamente informato da parte delle donne rispetto a tali atti, rifiuto di somministrare farmaci antidolorifici qualora la donna ne faccia richiesta, gravi violazioni della privacy.
Dinnanzi a questa descrizione, si può forse essere indotti a ritenere che raramente si possa assistere con durezza e imprudenza pazienti in un momento tanto delicato delle loro vite e che risulti plateale al personale sanitario stesso una messa in atto di questa. Sfortunatamente, le statistiche dell’unica indagine italiana ad oggi condotta sul fenomeno dicono tutt’altro.
La ricerca Le donne e il parto condotta dall’Istituto Doxa e pubblicata nel 2017 riporta dati decisamente poco rassicuranti: il 21% delle mamme afferma di essere stata vittima di una qualche forma (fisica o psicologica) di violenza ostetrica alla loro prima esperienza di maternità. Vale la pena sottolineare che questa percentuale corrisponde all’incirca a un milione di donne. Una percentuale ancora superiore – ben il 41% – rileva per certi aspetti “lesiva della propria dignità e integrità psicofisica” l’assistenza ricevuta da parte del personale sanitario nell’accompagnamento al parto. Tra le esperienze vissute come maggiormente negative e lesive risulta la pratica dell’episiotomia, l’incisione chirurgica del perineo e della parete posteriore della vagina allo scopo di allargare l’orifizio vaginale e facilitare il passaggio del feto, subita da oltre la metà (il 54%) delle mamme intervistate. Per il 15% di queste donne, pari a circa 400.000, si è trattato di una menomazione degli organi genitali, mentre il 13% delle madri, circa 350.000, con tale operazione ha visto tradita la loro fiducia nel personale ospedaliero; questo in quanto non solo a molte di loro non fossero stati esposti e spiegati i motivi di tale proposta chirurgica e le relative conseguenze, ma non fosse stato nemmeno richiesto il consenso per la messa in atto di tale procedura.
Oltre a questi numeri, vi sono anche altri aspetti allarmanti del fenomeno della violenza ostetrica. Come indicato dalla Dott.ssa Roncoroni, neolaureata in Ostetricia con una specifica tesi sul fenomeno del maltrattamento della donna da parte del personale ostetrico-ginecologico durante il parto: <<uno degli aspetti che mi ha maggiormente colpita è il target di donne più suscettibili ad essere vittime del fenomeno>>. Infatti, sono proprio le categorie che potremmo definire più fragili, che al contrario andrebbero maggiormente tutelate, ad essere esposte a un maggior rischio di subire violenza ostetrica: donne svantaggiate sul piano socioeconomico, donne provenienti da minoranze etniche, migranti, donne sieropositive, adolescenti e ragazze madri; dati tristemente confermati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2014).
Sebbene le statistiche parlino già da sole, il miglior modo per comprendere il fenomeno è dare voce a quelle donne che lo hanno vissuto sulla propria pelle. Quelle che seguono sono le testimonianze di tre donne che ho incontrato nella mia pratica clinica e che hanno coraggiosamente voluto condividere le loro angosciose esperienze:
<<Non ho capito subito cosa mi stava succedendo. […] Cioè, sapevo che avrei sentito un male cane ma quello proprio non mi tornava… e poi ho capito: mi avevano tagliata a tradimento!>>
<<Se solo mi avessero detto cos’avrei passato con l’induzione del travaglio… col cavolo che avrei accettato! E poi perché tutta ‘sta fretta? Mi avevano detto che S. sarebbe stata di 3 kg e mezzo se avessimo aspettato il termine e che era un peso troppo elevato… ma ho scoperto che non era vero, che ci sono bambini che nascono anche oltre i 4 kg! Perché fare a modo loro? Noi non eravamo pronte…>>
<<Idiota. Ecco come mi sono sentita. Un’idiota. Perché così mi parlavano, come se fossi un’idiota. […] Chiedevo, domandavo, cercavo lo sguardo di qualcuno… avevo paura sa? E morire se qualcuno perdeva del tempo per questo. […] Non ci ho potuto credere quando mi hanno detto tipo “beh dai, su, stai buona e collabora!” A quel punto mi sono chiusa nella mia paura>>.
Man mano che entriamo nel vivo di questo fenomeno ci rendiamo conto allora che “violenza ostetrica” non è un’espressione così esagerata né tanto meno antitetica. Essa presenta infatti: <<tutti i crismi della violenza: da un lato perché la donna è di fatto privata della propria libertà personale, soggetta a trattamenti fisici non richiesti e depauperata del proprio diritto di autodeterminarsi nella più intima e personale delle situazioni, qual è la nascita di un figlio, e dall’altro per le possibili conseguenze dannose di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, equiparabili agli effetti avversi di altre forme di violenza contro le donne >> (Rizzelli, 2015). Il concetto di violenza ostetrica ha dunque a che fare con la costrizione, il non ascolto e il mancato rispetto della persona da parte del personale sanitario ma soprattutto uno degli aspetti più traumatici e alienanti della violenza: l’esperienza dell’impotenza, reale e/o percepita, comune denominatore di tutte le forme di violenza. Infatti, nella definizione di “violenza ostetrica” che i ricercatori dello studio pocanzi citato propongono alle donne intervistate si evidenzia chiaramente il carattere di imposizione e scarso potere della donna sul momento del parto: <<Appropriazione dei processi riproduttivi della donna da parte del personale medico, costrizione della donna a subire un cesareo non necessario, costrizione della donna a subire una episiotomia non necessaria, costrizione della donna a partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, esposizione della donna nuda di fronte ad una molteplicità di soggetti, separazione della madre dal bambino senza una ragione medica, non coinvolgimento della donna nei processi decisionali che riguardano il proprio corpo e il proprio parto, umiliazioni verbali nei confronti della donna prima, durante e dopo il parto>> (ibidem, 2015)
Guardando allora alla frequenza con cui alcune di queste procedure vengono applicate, ci rendiamo conto di quanto questo fenomeno sia qualcosa di molto presente nelle sale parto italiane. Alcune di queste pratiche sono qualcosa di tristemente quotidiano, inserito nella normal practise; nonostante la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, in una dichiarazione del lontano 1985, abbia chiaramente espresso le linee guida di un’adeguata assistenza ostetrico-ginecologica alla neomamma, valutando come percentuali così elevate di procedure mediche, quali induzione del travaglio (23,2% relativo all’anno 2017 (SIGO, 2021)) e parto cesareo (il 36,7% nel 2016 secondo l’Istituto Veronesi (Banfi, 2016)), non siano giustificate e non dovrebbero superare il 10-12%, e guardando all’episiotomia come a un trattamento da riservarsi solo <<a uno stadio avanzato del travaglio e non [svolto] di routine>> (WHO, 1985), come invece spesso accade.
La violenza ostetrica in talune sue forme è dunque qualcosa che va purtroppo inserendosi nelle naturali routine dei reparti di ginecologia e ostetricia, routine così frenetiche e automatiche da non lasciare tempo al personale sanitario di rendersene conto appieno.
Non attinge, nella maggioranza dei casi, alla volontà di ferire o ledere la donna o il suo bambino. Come evidenzia la Dott.ssa Cromi, Presidente del corso di studi in Ostetricia dell’Università degli Studi dell’Insubria e Responsabile S. S. Patologia della Gravidanza ASST Sette Laghi di Varese, sono soprattutto alcune malpractise routinarie a rischiare di non essere rispettose se non violente per la donna assistita. <<Se pensiamo all’atteggiamento sminuente e umiliante verso le pazienti e alla volontaria aggressività, onestamente non ritrovo questi nella mia realtà professionale. Non stento a credere che in alcune realtà, forse anche nelle nostre sale parto di alcuni decenni fa, questi possano essere presenti, ma non nella mia attuale esperienza. Quello che vedo è un gruppo di persone che è lì per far il bene di quelle donne. Se però guardiamo al consenso informato al trattamento, all’attenzione alla privacy, al non entrare in tanti in sala parto se non necessario mentre la donna sta partorendo, onestamente sì. E non ne faccio un vanto. C’è senz’altro un margine di miglioramento>>.
E anche i percorsi formativi del futuro personale ginecologico hanno ancora da dover migliorare. La Dott.ssa Cromi sottolinea infatti come ci sia talora la necessità di richiamare gli specializzandi a maggiori attenzione e sensibilità nei confronti delle donne assistite, in quanto spesso più attenti alle procedure tecniche, in <<routine da medico che vuole fare attivamente>>, che non alla persona che hanno di fronte. Ci si domanda se non varrebbe la pena lasciare più spazio nella formazione medica universitaria anche agli aspetti psicologici e relazionali e non meno alla conoscenza di fenomeni quali la violenza ostetrica, fenomeno che sembra appunto riguardare anche la non consapevolezza del proprio agire di medico e delle sue conseguenze psicologiche sulla donna e lo “sguardo” alla sola tecnica e non alla persona.
Anche perché, come saggiamente ci ricorda Stern (2000), uno dei compiti degli operatori perinatali concerne proprio il <<rispondere al bisogno della neomamma di [ricevere] qualche forma di convalida e di incoraggiamento, [che] non consiste semplicemente nel fornire consigli o informazioni [medico-cliniche], ma soprattutto nel creare un clima psicologico che faccia sentire la donna sicura e fiduciosa>> dell’assistenza ricevuta e di sé e delle proprie competenze.
Sembra dunque che il fenomeno della violenza ostetrica riguardi anche il porre la donna assistita in una posizione di passività e dipendenza, in un’eccessiva medicalizzazione del parto spinta forse da una presunta convinzione, più o meno conscia, che la donna non abbia le necessarie competenze per comprendere, valutare e agire di conseguenza per il bene proprio e del bambino che sta per nascere. Come la Dott.ssa Cromi considera a proposito della troppa attenzione alla tecnica, di fronte alla mamma e al suo bambino ci si dimentica che <<non stiamo parlando di medicina, ma di come si sta al mondo>>, snaturando talvolta l’evento più naturale per eccellenza: la nascita, non solo del bambino ma anche, psicologicamente parlando, della donna, in una sorta di rinascita come madre, due eventi vecchi come la storia dell’umanità. Rammenta infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità (1985) che <<la nascita rappresenta un importante evento personale, familiare e sociale ancor prima che sanitario>>.
Sulla base di queste considerazioni, potremmo domandarci se e quali conseguenze potrebbero derivare dall’esperienza di una donna che si è vissuta, nel delicato momento del parto, come impotente e incapace, sostituita in questo da esperti mossi da tecnicismi e direttività, se non imposizione e costrizione. Ad oggi purtroppo non vi è molta letteratura sull’argomento, soprattutto nel panorama nazionale. Tuttavia, i pochi recenti studi sostengono che <<l’assistenza perinatale direttiva, di stampo biomedico/organicista, che non considera altri determinanti della salute, che svalorizza le competenze della donna, che la pone sotto tutela, in una posizione subalterna e passiva, con scarsa attività informativa, di counselling e supporto e che ricorre all’ipermedicalizzazione spesso non informata e non acconsentita, inneschi nella donna un processo di dis-empowerment. [Ciò che ne deriva sono] un senso di sfiducia in sé e nelle proprie capacità potenziali e l’impotenza appresa [, che] possono esitare nell’inibizione o nella difficoltà di esprimere le proprie risorse e competenze da parte della donna>>, come madre e non solo (Rizzelli, 2015).
Inoltre, dal punto di vista psicopatologico è stato dimostrato che la sofferenza psicologica nel post partum, in particolare se sfociante nello sviluppo del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTDS), sia associata al tipo di assistenza ricevuta e al tipo di parto stesso, vissuto con valenza traumatica (Rizzelli, 2015). Sempre a proposito dell’esordio di PTSD, esso risulta fortemente associato alla percezione di un basso livello di supporto da parte del personale sanitario durante e dopo il parto (Creedy e al., 2000).
Per alcune donne quindi l’esperienza del parto si può trasformare <<in un vero e proprio incubo, che a volte non riesce a essere superato e porta ad alcune strategie tipiche di evitamento, come la ferma volontà di non avere più figli o il ricorso al cesareo programmato nelle gravidanze successive>> (Bonapace e Ciotti, 2009). Sempre secondo l’Indagine Doxa (2017) infatti ben l’11% delle madri italiane, in seguito a un’esperienza di parto traumatica dovuta a una mal assistenza da parte del personale sanitario, avrebbe preferito rimandare di molti anni la scelta di avere un’ulteriore gravidanza. Per il 6% del totale il trauma è stato così forte da portare queste donne a prendere la scelta di non avere più altri figli, con una stima di circa 20.000 bambini non nati nel nostro paese all’anno. Inutile dire quanto questo abbia anche significative conseguenze sulla fertilità a livello nazionale.
Alla luce dei risultati di questi studi, come fa notare Grandolfo (2012): <<ci si condanna all’insuccesso se l’assistenza si muove nella prospettiva di mettere sotto tutela le persone esaltando ed esasperando le fragilità, specificamente con la medicalizzazione>>. Se, al contrario, <<la promozione della salute produce competenze e consapevolezza, una sua manifestazione è proprio l’aumentata capacità di cercare salute, che quindi non si può dare per scontata ma è un effetto dell’intervento efficace>>.
Guardare allora al paziente come a una persona <<degna di fiducia e intrinsecamente motivata a collaborare per la propria salute e benessere>> (Anfossi et al., 2008) potrebbe influenzare positivamente il modo che il paziente ha di guardare a sua volta a se stesso. Se la donna possiede infatti <<la consapevolezza delle proprie competenze e la libertà nel poterle esprimere, [si innesca] un processo virtuoso di empowerment in grado di produrre effetti positivi sulla salute e il benessere psicofisico della madre, della persona che nasce e della famiglia e comunità in cui vivono. […] Ciò favorirebbe la possibilità per le donne di autodeterminarsi durante il percorso nascita, compiendo scelte libere e informate rispetto alla propria salute e al proprio corpo>> (Mattina, 2018).
Le conseguenze di un approccio clinico che concede libertà, responsabilità e fiducia al paziente quindi si riverberano positivamente non solo in chi beneficia direttamente dell’esperienza, ma anche in coloro che sono in relazione con esso. Come non immaginare dunque che anche la relazione madre-bambino non possa essere condizionata dall’esperienza che la madre fa del parto e del puerperio? Stern (2000) rileva infatti come, nei casi in cui madre e bambino abbiano vissuto dei traumi, possa venire lesa la possibilità di dare inizio al processo di attaccamento del bambino nei confronti della propria madre. Egli identifica come in situazioni dovute a complicanze mediche, ad esempio quelle conseguenti a un parto prematuro, comportante l’utilizzo dell’incubatrice, oppure dovute a una patologia che richiede un immediato intervento chirurgico, l’inizio del processo di attaccamento possa essere leso, in quanto vengono impedite le prime interazioni diadiche tra la madre e il suo bambino.
Anche specialisti dell’ambito ostetrico hanno osservato, a seguito di alcune situazione di parto difficile, maggiori complessità della madre a relazionarsi con il proprio bambino. Dalle osservazioni cliniche della Dott.ssa Bonaccorso, Coordinatore Ostetrico presso Asst Sette Laghi e docente dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese, le donne che hanno subito un travaglio complicato e sulle quali il personale sanitario ha agito con maggior urgenza e interventismo, <<talvolta in puerperio manifestano un maggior senso di insicurezza nel prendersi cura del bambino e maggiore inadeguatezza del proprio ruolo genitoriale>>. Conseguentemente, queste donne <<spesso necessitano di maggior sostegno, […] richiedendo l’intervento di figure competenti>>.
Alla luce di queste considerazioni cliniche, ci si potrebbe domandare se anche l’aver subito violenza ostetrica possa rientrare in quelle esperienze traumatiche che in qualche modo possano inficiare il legame di attaccamento.
In base ai risultati degli studi esposti sembra infatti che questa possa essere considerata in taluni casi per la madre un’esperienza violenta e traumatica a tutti gli effetti. E l’esperienza clinica coi pazienti traumatizzati ci informa di quanto il vissuto di impotenza, reale o percepita, abbia il potere di “congelare” l’esperienza, bloccando la persona in un ripetitivo e angoscioso presente. Viene da sé che un passato tanto ingombrante, che si fa eterno presente, renda impossibile guardare al futuro. Quale potrà essere allora il futuro della relazione madre-bambino laddove la madre non riesca a muoversi verso esso, bloccata dal trauma vissuto e avendo legato a questo il suo stesso bambino? Come si muoverà questa donna nei panni del suo nuovo ruolo di madre? Abbiamo tante domande e purtroppo ancora poche risposte. Ma quello che afferma il ginecologo Leboyer nel suo capolavoro Per una nascita senza violenza (1974) in parte potrebbe risponderci: <<La madre che è riuscita a partorire senza dolore [fisico ma soprattutto psichico] sarà in grado di reggere e toccare il proprio bambino col dovuto riguardo>>.
Sembra che gli operatori sanitari in sala parto non abbiano allora “solo” il compito di aiutare praticamente la donna a mettere al mondo il proprio bambino; attraverso le loro mani dovrebbe passare molto di più. Sempre Leboyer (1974) ci ricorda infatti che le loro <<mani devono essere leggere, che non comandano. Che non chiedono niente. Che, semplicemente, ci sono. […] Attraverso queste mani passa [o dovrebbe passare] l’amore>>. E questo è tanto vero per il bambino che sta nascendo quanto per la madre che lo sta mettendo al mondo.Non è un “linguaggio” affatto scontato in quanto implica l’aver guardato all’altro e all’esperienza che sta vivendo attraverso i suoi occhi e non con i propri, uscendo “dal nostro tempo”, come sostiene sempre Leboyer, per entrare nel “tempo” dell’altro. Paradossalmente, è come se i ruoli si dovessero ribaltare e fosse il personale sanitario a doversi mettere, simbolicamente, nelle mani della donna e del suo bambino. Perché loro sono i protagonisti principali di cui talora ci si dimentica, presi <<dalla distrazione, gli automatismi, l’abitudine>> (Leboyer, 1974).
Ma da dove viene quello <<strano nervosismo di fondo [che spinge] tutto il nostro essere in senso contrario>> al saper guardare al “tempo” dell’altro e saperlo accogliere e rispettare? Per dirla sempre con le parole del famoso ginecologo: <<che cosa ci impedisce dunque di vedere e percepire l’altro nella sua realtà? [È] il fumoso insieme dei nostri desideri, appetiti e, soprattutto, paure>> (Leboyer, 1974).
Ci si potrebbe forse domandare quali desideri, appetiti e paure dovrebbero forse avere dei sanitari esperti e competenti in relazione alla loro professione; si pensa che questi possano semmai riguardare coloro che si affidano ad essi. Eppure le professioni votate alla cura del paziente, se svolte con sincera passione ed entusiasmo, non sono solo professioni ma particolari scelte di vita. Questo forse non è valido per tutti, ma vi sono alcune scelte professionali che sembrano avere un legame molto stretto e intimo con la propria storia. Trovo esemplare la profonda analisi che Leboyer (1974) fa della scelta di professioni che si occupano di gravidanza e parto: <<I medici che assistono al parto, per quanto conoscano bene l’evento, ne sono profondamente turbati. Hanno scelto questa professione per un motivo preciso: devono avere un conto in sospeso con la propria nascita. […] E [dinnanzi a una nuova nascita] qualcosa in loro si risveglia, si ‘ricordano’ di quell’esperienza>>. Secondo il ginecologo, assistere alla nascita di qualcun altro e dunque alla (parziale) separazione di questo dalla propria madre è una sorta di riedizione della propria nascita e tutto questo libera una quota di “angoscia repressa”, della quale ci si può sentire in balia, spaventati, impotenti.
Che sposiamo o meno la teoria di Leboyer, l’esperienza clinica come psicoterapeuti ci mostra ogni giorno come i meccanismi di difesa intervengano, più o meno rigidi e massivi, tanto più viene mobilitata un’angoscia per il soggetto intollerabile e come, tra questi sistemi difensivi, talvolta si attivino quelli che hanno il compito di conferire l’illusione onnipotente di avere totale potere e controllo sull’angoscia stessa e sul senso d’impotenza che questa produce. Le conseguenze di questo processo difensivo possono essere un allontanamento non solo dal proprio mondo interno ma anche da quello dell’altro e una difficoltà, se non impossibilità, a identificarsi empaticamente con lui.
Come queste considerazioni teoriche dovrebbero riguardare la violenza ostetrica e l’ipermedicalizzazione del parto? Come per una buona assistenza al neonato l’identificazione con esso implicherebbe ascolto, tolleranza e gestione dei propri vissuti, angosce e conflitti che prendono forma dalla relazione stessa con lui, il medesimo processo identificatorio risulterebbe necessario per sostenere la neomamma durante il parto. In entrambi i casi, il personale sanitario ha l’arduo compito di uscire dal porto sicuro del proprio ruolo e identificarsi con la paziente e il suo bambino, sostando assieme a loro nell’incertezza di cui è naturalmente portatore il momento della nascita. È questo il “tempo” di cui parla Leboyer, sia esso riferito al neonato o alla sua mamma.Ci si potrebbe allora domandare cosa possa significare questo processo in coloro che non riescono, per una ragione o per un’altra, a sostare in questo incerto stato di cose. Forse, il ricorso da un lato a difese che richiamano al controllo onnipotente e al diniego della propria impotenza e dall’altro a un’immagine del paziente come incapace e bisognoso di affidarsi passivamente alle mani dei professionisti sanitari, è il rischio che alcuni di questi ultimi corrono. E forse, la durezza e talvolta la violenza a cui si ricorre nei confronti delle neomamme parla proprio di questa intollerabile impotenza che l’operatore sanitario necessita di proiettare sulla donna assistita, la quale, in un meccanismo di identificazione proiettiva, la va ad aggiungere ai già presenti dubbi e paure che qualsiasi neomamma probabilmente possiede. Possiamo immaginare le conseguenze sull’autostima e sul senso di autoefficacia di queste donne: <<Il risultato è l’interiorizzazione della svalutazione operata dall’altro e l’identificazione con un ruolo passivo, bisognoso e dipendente, con vissuti di sconforto, ansia e paura>> (Rizzelli, 2015).
Che queste ipotesi siano o meno valide, d’impotenza dell’operatore che opera in ambito ginecologico-ostetrico possiamo parlare almeno per un aspetto. Egli è impotente anzitutto perché si fa da “tramite” per qualcosa di ben più grande di lui e della scienza medica, la Natura. E forse talvolta ci si dimentica di questo ruolo “ponte”. Secondo Lebovici e collaboratori (1999) molte delle motivazioni che sottendono alla non accettazione dei propri limiti e della propria impotenza <<riposano sul mito dell’onnipotenza e del totale controllo dell’uomo sulla natura>>, mito che viene risvegliato dalla percezione delle proprie impotenza e vulnerabilità di fronte alla grandezza di un evento tanto imponente come la nascita di un individuo.
Lebovici e colleghi proseguono valutando come quando questa onnipotenza non viene elaborata a livello individuale e istituzionale diventi nociva, causando il bisogno di introdurre <<una rigida regolamentazione di modelli educativi e comportamentali>>, di quei freddi tecnicismi che possono divenire impositivi e violenti, a discapito dell’attenzione al singolo e della capacità di sostare nell’incertezza che l’unicità di ogni caso comporta.
L’operatore sanitario non è allora padrone di quel “tempo” di cui parla Leboyer, tempo che riguarda solo mamma e bambino e che viene “ritmato” da questa diade. <<L’idea che di solito abbiamo della nascita è che il bambino non vi partecipi in prima persona>> e che la madre debba affidarsi alle tecniche e al sapere del personale sanitario per poter partorire “bene”. Forse pochi sanno che in verità <<l’ormone che scatena le doglie si trova nel corpo del bambino e la madre naturalmente sente>> che quel momento è giunto (Leboyer, 1974). Così, in una naturale danza sincronizzata, la coppia si prepara al viaggio della nascita: l’uno come persona (solo in parte) separata, l’altra come madre. E l’operatore sanitario? È lì per danzare insieme a loro, la loro musica.
Giungendo alle conclusioni, ci si rende conto di quanto il fenomeno della violenza ostetrica sia qualcosa di complesso e del quale purtroppo non si sa ancora abbastanza dal punto di vista della ricerca.Forse la situazione sta migliorando rispetto a molti anni fa. E forse, nella maggior parte dei casi, il personale sanitario che assiste le neomamme è sinceramente inconsapevole delle ferite provocate dal loro operato. Tuttavia, il fatto che non vi sia la volontarietà di ferire l’altro non fa della violenza ostetrica una forma meno grave di violenza. I numeri e le toccanti testimonianze delle vittime ce lo rammentano. Essa è una violenza a tutti gli effetti, che come tale ha delle conseguenze importanti sulla salute della donna, della diade madre-bambino, della coppia e della famiglia. I numeri delle madri lese nel corpo e nella psiche da un’assistenza violenta al parto sono ancora troppo alti e la conoscenza e la consapevolezza del fenomeno da parte del personale sanitario al contrario ancora troppo basse per poterci permettere di ignorarla.L’intento di riportare questi studi e considerazioni teoriche è conoscitivo. Non vi è la presunzione di dare risposte sicure e assodate, né muoversi verso un’insensata accusa al personale sanitario da un lato, né tanto meno dall’altro giustificare e deresponsabilizzare questo.
Conoscere un fenomeno non ci dà automaticamente la possibilità di arrivare a certezze e soluzioni; tuttavia, ci può rendere consapevoli che qualcosa possiamo e dobbiamo fare, impegnandoci nella ricerca di strumenti che ci consentano di poterlo affrontare e ancor più prevenire. E questo è vero a tutti i livelli, che si tratti della formazione di professionisti dell’area perinatale che si occupano più specificatamente degli aspetti organici o della salute mentale del singolo, della coppia e del sistema familiare, oppure dei percorsi pre-parto e di accompagnamento alla genitorialità rivolti a mamme e papà.
Un primo passo verso una riduzione (e si auspica un domani un’eliminazione) di questo dolente fenomeno potrebbe essere anzitutto quello di <<investire risorse nella formazione degli operatori e nel miglioramento della qualità dell’assistenza nel periodo perinatale. [Questa] è una grande opportunità che abbiamo, non solo per promuovere la salute e le competenze delle singole persone coinvolte ma anche per determinare un cambiamento positivo per tutta la comunità>> (Mattina, 2018).
Dobbiamo infatti ricordare che: <<ogni sforzo che facciamo per migliorare la salute mentale e lo stato d’animo di una mamma è un contributo alla stabilità familiare e alla salute delle generazioni future>> (Brockington and Guedeney, 1999).Cosa farne allora di quel sentimento d’impotenza che talora ci pervade, bloccandoci o al contrario facendoci ab-reagire, come professionisti della salute, di qualsiasi tipo di salute si tratti, fisica, psichica o sociale? L’impotenza che a volte percepiamo ed effettivamente abbiamo di fronte ad alcune situazioni più grandi di noi e del nostro sapere può essere allora vista non come un limite bensì una risorsa. L’elaborazione della nostra vulnerabilità è il nostro punto di forza perché ci permette di riconoscere la vulnerabilità dell’altro e tenerne conto nella cura e nel trattamento, identificandoci con lui e con la sua situazione. <<Il motore essenziale è sempre il sostegno identificatorio che un professionista competente costituisce per la donna, il suo bambino e la famiglia>> (Lebovici e al., 1999), motore che consente a sua volta lo sviluppo e il consolidamento della fiducia in sé e nelle proprie competenze, nonostante dubbi, paure e fragilità.
Grazie a un’assistenza lontana dalla violenza e improntata su incoraggiamento, comprensione e rispecchiamento empatico sarà così possibile per la donna rinascere nel suo nuovo ruolo di madre.
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*Jessica Facoetti è psicologa e psicoterapeuta, specializzanda in Psicologia e Psicopatologia perinatale, lavora nell’area perinatale e dello sviluppo