di Paolo Chiappero
<<Basta David, andiamo a berci una stout nel pub qui sotto…non ne posso più di questo lavoro>>.
<<Smettila Marc. Dobbiamo ancora dipingere una stanza e abbiamo finito. Se no non ci pagano. E poi, non hai detto che vuoi diventare una popstar?>>.
<<E questo che c’entra?>>.
<<Dobbiamo fare la gavetta, mettere da parte soldi per qualche strumento, ma di quelli buoni. Non dimenticare che stiamo facendo questo sporco lavoro per Kenneth>> Nota 1
<<Ok David. Io voglio diventare una rockstar!>>.
E così fu! David Bowie e Marc Bolan (con la sua band T-Rex). Il glam rock in persona. Quello che John Lennon, amico fraterno per altro di David, definirà: il rock con il rossetto.
Con rossetto o senza rossetto: Chi era veramente David Bowie? Lo Ziggy Stardust dei primi anni ’70, l’hippie dei fine anni ’60, Il presidente della “Società per la prevenzione della violenza verso gli uomini con i capelli lunghi” (sic) nel 1964, e poi Halloween Jack con la benda nera sull’occhio, Aladdin sane (che sta per: A lad insane, cioè un ragazzo malato di mente), The thin white duke e, perché no, anche il noto Major Tom di Space Oddity che vaga perduto nello spazio (e che nel brano Ashes to ashes di dieci anni dopo è diventato un “tossico” perso nell’universo), fino a diventare una Blackstar?
Nota 1 Kenneth Pitt era il loro manager musicale
Per non dire di quegli occhi “diversi”, una diversità marchio di fabbrica, che se non fossero stati così bisognava inventarli! Chi è questo essere umano che, nel suo essere cangiante, sfida persino le leggi di natura? Nota 2
Nota 2 La sua patologia oculare, chiamata anisocoria, era frutto del pugno ricevuto da bambino da uno dei suoi migliori amici, George Underwood, nel “contendersi” una coetanea, o per lo meno così narra la legenda. Questo trauma faceva credere, erroneamente, che David avesse gli occhi di due colori differenti. Si trattava invece di una diversa dilatazione pupillare, così che un occhio pareva più scuto dell’altro.
Risposta: David Bowie era David Jones. Quest’ultimo è il suo nome all’anagrafe. Quello registrato l’8/1/1947 dalla signora Margaret Mary Burns (per tutti Peggy) e dal signor Haywood Stenton Jones a Brixton, periferia sud di Londra. Non lambicchiamoci la mente nel chiederci chi era, e cadere nell’abisso vorticoso dell’ “uno nessuno e centomila” pirandelliano. David Jones ha creato David Bowie (in realtà su suggerimento del suo produttore di allora, per differenziarsi da un altro David, o Davy, Jones, all’epoca noto membro del gruppo The Monkees) ed è Bowie che si manifesta in tanti personaggi, che a loro volta sono collegati, e si nutrono, di differenti forme musicali, artistiche, di costume, ecc….Nota 3
Il filo rosso dei personaggi citati è lui, DB, quindi non affanniamoci a cercare il “vero” Bowie, o il migliore, o il più autentico.
Nota 3 Il nome d’arte fu una scelta ispirata al pioniere James Bowie, morto nella battaglia di Alamo, e noto per il coltello da duello chiamato appunto “il Bowie”. Un altro personaggio……l’eroe.
L’artista Bowie
A una versatilità, come dire, longitudinale (i vari personaggi che si succedono nel tempo) assistiamo a una trasversalità di contesti. Bowie, al netto delle varie “immagini”, non è solo un autore di brani musicali, di cui è interprete, è anche un polistrumentista (inizia a 15 anni a suonare il sax nella band The Konrads).
La trasversalità accennata è relativa anche alla sua presenza di artista sul set di film e sul palco di rappresentazioni teatrali.
Il nostro si presta anche a “filmetti” hollywoodiani che non passeranno sicuramente alla storia del cinema, accanto a quella che è la sua più rappresentativa presenza sul set: The man who fell to earth.
Sì, proprio un uomo che cade sulla terra, da spazi siderali, con atteggiamenti goffi e un tentativo di confondersi con gli umani che non gli riesce del tutto, anzi. E’ il destino anche del Bowie uomo? Lascio ai suoi più celebri biografi la risposta.
Il film di Nicolas Roeg è del 1976, tratto dal romanzo omonimo di Walter Stone Trevis (lo stesso che in tempi recenti scriverà il romanzo “La regina di scacchi” della nota serie Netflix). E’ un personaggio incompreso (anche nel film la domanda delle persone è: “Ma chi è veramente?”). Ha una missione umanitaria da compiere, quindi un eroe dell’altro spazio (“Possiamo essere eroi, solo per un giorno” scriverà in Heroes un anno dopo).
Anche nel film i vari personaggi si chiedono “chi è?”. Il diverso, lo sconosciuto, incute perplessità, timori, ricerca di categorizzazioni veloci e semplici. Ci si deve attaccare alle maniglie della razionalità, del già noto, peccato che queste maniglie non esistono, e rimaniamo con il braccio sospeso nel vuoto delle nostre paure e pregiudizi.
Successivamente, sempre per il grande schermo, sarà il Ponzio Pilato di “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese (1988), così come lo scienziato Nikola Tesla (sì, quello delle auto) e ancora: il maggiore dell’esercito alleato Celliers, prigioniero in un campo di concentramento giapponese. Accanto a lui, co-protagonista, un altro grande artista della musica: Ryuichi Sakamoto, poliedrico compositore e autore musicale, oltre che attore. Nel film (Furyo, 1983) i due daranno luogo a una relazione ambivalente e ambigua allo stesso tempo, nella cornice delle regole crudeli della prigionia e di una guerra che ormai volge verso la sconfitta del Giappone.
Il nostro sarà anche il protagonista del film per bambini (siamo sicuri?) “Labirinth” (1985). E’ lui il “cattivo” Jareth, re dei Goblin. Ed è anche sua la colonna sonora.
L’attività teatrale è più ridotta, ma artisticamente riscontra più ragguardevoli critiche positive dalla stampa specializzata. Due le interpretazioni significative.
La sua esperienza di mimo, con il grande mentore Lindsay Kemp, nella pièce Pierrot in torquoise, nel 1968, a 21 anni. Questa formazione in pantomima realizzatasi in quegli anni giovanili gli sarà utile nei futuri concerti, in cui metterà in scena, in alcuni tour, qualcosa a metà tra lo spettacolo di una band musicale e il teatro.
David era molto attratto e affascinato dalla cultura nipponica. Anche nelle sue forme estetiche e modernamente creative (ma che novità!) vestendo abiti ideati per lui da Kansai Yamamoto e ritratti dal popolare e visionario fotografo giapponese Masayoshi Sukita.
Ne scaturirà un design che, a proposito di trasversalità, possiamo collocare tra il glam, il fantasy e l’estetica giapponese. I due collaboreranno, attraverso mostre fotografiche, in cui sono presenti scatti che immortalano Bowie, per quarant’anni.
Nell’interpretazione a Broadway di “Elephant Man” avremo un esempio più maturo di recitazione sul palco. La storia del “mostro”, nota anche per il successo riscosso al cinema nella versione del visionario David Linch (che uscirà nelle sale in contemporanea con la trasposizione teatrale con Bowie, nel 1980).
Anche Elephant man desidera conoscere, elevarsi dalla sua condizione; ama l’arte e la bellezza; è vittima della cattiveria umana e della paura del “diverso”. Quest’uomo, vissuto realmente nella seconda metà dell’800, parteciperà a spettacoli circensi insieme con altri esseri umani caratterizzati da diversi tipi di deformità. I cosiddetti “Freak show” (da cui il drammatico capolavoro cinematografico “Freaks” di Tod Browning del 1932).
L’uomo “elefante” è affetto da quella che, in seguito, sarà rubricata come “sindrome di Proteo”, richiamandosi all’essere proteiforme della mitologia greca. Come non vedere qui, in forma meno angosciante e discriminante ovviamente, e men che meno mitologica, l’essere proteiforme dello stesso Bowie?
E di nuovo: chi è David Bowie?
Esiste anche un David Bowie (o David Jones, fate voi) che si dedica alla pittura, con pregevoli opere soprattutto durante il suo soggiorno a Berlino nei fine anni ‘70, quello che partorirà la cosiddetta trilogia berlinese (gli album Low, Heroes e Lodger). I tempi sono proprio quelli della gravidanza, se si tratta di tre album per circa ventisette mesi di soggiorno (anche se il terzo verrà ultimato in Svizzera e a New York, ma “pensato” a Berlino).
Bowie si ispira soprattutto al surrealismo della cultura pittorica di lingua tedesca. Personalmente vi ho sempre riscontrato ispirazioni e assonanze con autori come Kirchner, del gruppo espressionista tedesco “Die Brucke” o al secessionismo viennese (ad es. Kokoscha). Pareri personali di chi ama l’arte pittorica, ma non ne è un esperto. Ciò non toglie che molti suoi quadri siano stati apprezzati da chi critico d’arte lo è davvero. E’ un fatto, comunque, che Bowie (e l’amico-collega Iggy Pop) nel suo lungo soggiorno berlinese frequentava spesso le gallerie d’arte, ed in particolare la Brücke-Museum in Bussardsteig 9. Nota 4
Nota 4 L’Espressionismo tedesco è un interesse di Bowie che riguarda anche le opere teatrali di autori come Fritz Lang e Georg Pabst. In un’intervista del 1996 al Telegraph Magazine di Londra afferma: <<La qualità genuina del teatro espressionista tedesco produceva una commovente stravaganza, che contrastava con la professionalità patinata del teatro americano>>.
L’idea di Bowie di arte è “totale”, multimodale. Lui stesso dipingeva mentre componeva canzoni. E l’ispirazione nasceva da questo connubio, di fertilizzazioni incrociate: la pittura che influenzava la sua musica e viceversa.
Un uomo “rinascimentale”
Accanto alle sue creazioni c’è la sua voracità bulimica di cultura umanistica. Compreso quell’amore anche per l’arte pittorica rinascimentale, che farà sì che ne diventi anche un collezionista. Tra le opere più celebri, troviamo “L’Annunciazione del martirio di Santa Caterina di Alessandria”, del Tintoretto, ora collocata in un museo d’arte di Anversa.
La visione artistica di Bowie risente della cultura anni ’50-’70 fatta anche di demistificazioni delle forme culturali mainstream. Da Roland Barthes ad Andy Warhol (basti pensare alla critica di quest’ultimo alla riproducibilità dell’opera d’arte o al diritto di ognuno ai quindici minuti di fama), Bataille e la critica al conformismo, e quella più in generale al pensiero moderno, per arrivare alla messa in discussione della concezione di Potere da parte di Foucault o della centralità del Complesso edipico (e ancora della modernità) di Deleuze e Guattari. Sono tutti autori che l’artista inglese conosceva, avido di letture come era, spaziando dalle scienze umane alla narrativa. Quest’ultima, distribuendosi da Dante a Jack Kerouac, da Flaubert a Tomasi di Lampedusa. Approfondimenti che scaturivano sempre dalle letture dei testi originali e non da “bignamini” o libri di critica letteraria. Quelli che ti fanno dire: <<Sì conosco X>> oppure <<Quel romanzo parla di questo e quest’altro>> solo perché se n’è letto un sunto su Wikipedia!
Lo stesso David disse una volta: <<Le persone sono così stupide. Nessuno legge più, nessuno esce e guarda ed esplora la società e la cultura in cui sono cresciuti. Le persone hanno un’attenzione di cinque secondi e tanta profondità come un bicchiere d’acqua>>.
Poliedrico, proteiforme, eclettico, eccentrico, contaminante, versatile.
Come fare convivere tutto ciò, nella stessa persona?
L’artista stesso disse in un’intervista: <<Certe volte non mi sento una persona. Non sono che un insieme di idee di altra gente>>. Prendiamolo come un momento di smarrimento. Qui s’impone il tema del Sé, sia come struttura sia come processo. Non è facile integrare vari aspetti (sub sistemi) del Sè, per dirla in psicoanalese. Se ci riusciamo, forse possiamo avere un’identità più variegata, ampia, flessibile, fluida. Tout se tien, diceva il linguista francese Antoine Meillet, o no? Per altro la frase viene “rubata” dal suo molto più celebre maestro De Saussure. Quindi non rubava solo Bowie!
Quella del furto è un’altra tematica che si collega alle “varie identità” e ad alcune sue opere. Da chi le ha prese? Dove le ha rubate? Bowie è esplicito in merito quando sostiene che:<<I dilettanti copiano, i maestri rubano>>. In realtà la frase è di Picasso…del resto stiamo parlando di “furti”.
Ritornando al tout se tient……non è facile. Si può esser presi dallo sconforto: <<Adesso non c’è alcuna differenza tra la mia vita personale e quello che faccio sul palco. Sono molto raramente David Jones ormai. Penso di aver dimenticato chi David Jones sia>>. E’ ancora Bowie che parla.
Il rischio è la disidentità, la frammentazione psicotica del Sé.
Mettere insieme parti della propria personalità presuppone che queste siano atte a integrarsi, ci vuole flessibilità, strutture fluide (non è un ossimoro), confini permeabili, coraggio e curiosità. Disponibilità a rischiare la perdita di noi stessi forse, di molte convinzioni sicuramente.
Tra tanta fluidità e osmosi è necessaria una regia possente. Ci vuole un centro forte per avere dei confini deformabili. Un centro di gravità permanente, un locus of control.
“Dove siamo adesso? Nel momento in cui lo capisci, capisci di averlo capito” (dal brano “Where are we now?”, 2013).
C’è temporalità, ma anche spazialità nelle varie sub-identità. Dove siamo? Che spazio occupiamo?
La canzone citata è tra le più struggenti di David (Jones o Bowie non importa). Nel video c’è una Berlino come lui la ricordava, nelle sue esperienze berlinesi di fine anni settanta.
Bowie afferma: <<Just walking the dead>>, cioè <<Sto portando a spasso i morti>>, per dire che sta risvegliando i suoi ricordi. I morti sono anche le sue varie “identità” ed è degno di nota che, nelle immagini del video clip, Bowie sia rappresentato con delle sembianze che lo fanno assomigliare a un pupazzo.
Un pupazzo? Un burattino? E chi tira i fili? Sempre lui! David Jones. Ciò che conta è la continuità del Sé: <<Finchè ci sarà il sole, finchè ci sarà la pioggia, finchè ci sarà il fuoco, finchè ci sarò io, finchè ci sarai tu>> (“Where are we now?”). Ci deve essere da qualche parte non solo un giudice a Berlino (che non guasta mai), ma un centro di gravità permanente. Filosoficamente parlando possono esserlo gli “elementi all’origine di tutte le cose” (Empedocle). Bowie sembra rifugiarsi in questa fantasia nel brano citato. Però chi più di lui è consapevole della lezione di Eraclito: “Panta rei”, cioè: tutto scorre. <<Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo>>, così c’è riportato, negli scritti sul pensiero del filosofo greco.
Come per ogni contaminazione, integrazione, da un lato, e fluidità e mutevolezza dall’altro, tutto questo non è il caos che porterebbe alla morte dell’umanità, paradossalmente diviene la premessa della stabilità.
E’ continuità della discontinuità. Sappiamo che l’acqua del fiume è sempre diversa eppure non abbiamo dubbi a chiamarlo “quel” fiume. La consapevolezza, la conoscenza, l’apertura al nuovo sono il vero zoccolo duro della stabilità. Anche quando appare disordine e paradosso. E perché no, pazzia.
Starman e dragqueen
Bowie pare a volte affascinato dalla follia. Noi diremmo che è una formazione reattiva (“amo la follia, ma in realtà la temo”). A volte sembra essere qualcosa di più patologico: una negazione, attraverso la maniacalità. <<Perché preferisco stare qui, insieme a tutti i pazzi, piuttosto che morire con gli uomini tristi che vagano liberi. E preferisco giocare qui, con tutti i pazzi, perché sono proprio contento, sono tutti sani come me>> (da “All the madmen”).
Riprenderemo a breve il tema della follia, che in Bowie aveva riflessi di forte ambivalenza. Soffermiamoci ora sull’influsso che l’artista ha avuto, non solo nel mondo musicale, ma nel contesto culturale e sociale più ampio.
Come impatta nella cultura mainstream “L’uomo che cadde sulla terra” (ancora un altro personaggio: Jerome Newton del film omonimo)?
Al netto del marketing di uno star system forse non peggiore, ma sicuramente più spregiudicato di quello odierno, la filosofia di fondo di molti testi bowiani è tesa a indicare e personificare nuovi modi di essere.
Citiamo ciò che comparve in questa stessa rivista qualche anno fa. Il tema del numero era “Io e gli altri, identità e alterità”:
<<Era la sera del 6 luglio 1972 e in Gran Bretagna la BBC trasmetteva il programma Top of the Pops. Si trattava del programma musicale d’intrattenimento più noto, più visto e più atteso nelle famiglie inglesi.
Quasi tutte le famiglie erano davanti al piccolo schermo, come per le altre puntate, in attesa di vedere i cantanti più famosi del momento. C’erano adulti e bambini, anziani e adolescenti. Quando apparve David Bowie, all’epoca ancora poco conosciuto dalla massa dei telespettatori, si mescolarono stupore, inquietudine, rifiuto ma, soprattutto per i teenager dell’epoca, tanta curiosità. Bowie, e la sua band, si presentarono con vestiti dal taglio tra il femminile e l’avveniristico, coloratissimi, i visi truccati, le movenze sessualmente ambigue e infine, last but not least, c’era la canzone: Starman.
C’è un uomo delle stelle che aspetta in cielo
Vorrebbe venire e incontrarci
Ma pensa che potrebbe impressionarci
C’è un uomo delle stelle che attende in cielo
Ci ha detto di non cacciarlo
Perché lui sa che ne vale la pena
Mi disse: lascia che i bambini lo perdano
lascia che i bambini lo usino
lascia che tutti i bambini ballino
Dovevo chiamare qualcuno così ho scelto te
Hey, è tanto forte che l’hai sentito anche tu
Accendi la TV
potremmo magari prenderlo sul secondo canale
Guarda fuori dalla finestra, riesco a vedere la sua luce
Se facciamo segnali potrebbe atterrare stanotte
Non dirlo al tuo papà o ci farà rinchiudere impaurito
E qui si scatenò il fenomeno inaspettato. Migliaia di ragazzi e ragazze, si precipitarono a telefonare alla BBC. Chi non possedeva un telefono in casa andava dall’amico o dal vicino. Tutti volevano saperne di più su “questo David Bowie”, ma i ragazzi e le ragazze, attraverso un vero e proprio fenomeno collettivo spontaneo, parlavano in queste telefonate della loro identità e della loro sessualità.
E lo facevano gridando al telefono frasi del tipo: “Anch’io non so se sono maschio o femmina”, “anch’io mi sento diverso”, “ecco qualcuno che ci dice che possiamo essere tutti diversi ed essere noi stessi contemporaneamente”, “a volte vorrei vestirmi come mi pare, voglio poter fare anch’io come lui”.
Dal giorno dopo le cose non furono più le stesse. I bambini potevano ballare, i bambini potevano “usarlo” per identificarsi con la libertà della scelta della propria identità, i bambini potevano non dirlo al papà, che li avesse rinchiusi nella loro stanza o meno. Quella sera avevano trovato qualcuno con cui correre>>. (Chiappero, 2016).
Non c’sono solamente la “diversità”, la direzione ostinata e contraria in ambito estetico e musicale oppure “una risata vi seppellirà” intrisa di musica rock, c’è anche una ribellione giovanile che sfida schemi e tabù, a partire dalla famiglia che uccide, per dirla con Morton Schatzman (1973), lo psichiatra americano autore del libro omonimo.
“Tu hai messo tua madre in confusione; lei non è sicura che tu sia un ragazzo oppure una ragazza (…) Ribelle, ribelle, hai strappato i tuoi vestiti, ribelle, ribelle, la tua faccia è una confusione. Ribelle, ribelle, come possono sapere?” (dal brano “Rebel rebel”).
La “diversità” bowiana non può prescindere dal tema della sessualità. Argomento spesso banalizzato o ridotto a caricatura quando accostato a Bowie.
L’orientamento e il comportamento sessuale, così come l’identità di genere, sono in Bowie concetti sfumati, fluidi, che non escludono mai possibili “transizioni”.
Al netto di qualche trovata anche pubblicitaria, Bowie ha un impatto sull’immaginario giovanile degli anni settanta, che favorisce prese di coscienza identitarie e legittimazioni soggettive delle proprie condizioni: sessuali, estetiche, di costume. Nota 5
Nota 5 Ci riferiamo all’intervista del 22 gennaio 1972, concessa alla mitica rivista musicale Melody Maker, che fece così scalpore all’epoca. Non dimentichiamo che solo cinque anni prima l’omosessualità era stata depenalizzata dal Parlamento inglese.
Il nostro è sicuramente un’icona gender fluid. C’è nelle sue opere, come nella sua vita, un processo continuo di cambiamento/rinnovamento. Oltre ai personaggi “ufficiali” (Ziggy Stardust con la sua estetica transgender, The thin white duke, con la sua asessualità) ci vengono proposte identificazioni “passeggere” con altri personaggi: ne è un esempio tra i più popolari la copertina dell’album Hunky Dory (1971), ispirata ad un ritratto dell’attrice svedese Greta Garbo. Lo sguardo onirico, perso nel vuoto, la foto ricolorata (dal suo amico e disegnatore George Underwood, sì quello del più famoso pugno nell’occhio della storia del rock), che riecheggia i manifesti colorati dell’epoca del cinema muto.
Inoltre, non dimentichiamo che Bowie fu tra gli artisti che utilizzò maggiormente i video clip per diffondere le sue canzoni, ai primordi dell’impiego di questo mezzo mediatico-musicale.
Come non rammentare le immagini di “Boys keep swinging” (1979): a fronte di un testo che nasce con l’intento di parlare al proprio figlio in difficoltà (dopo il divorzio dei genitori) il video suggerisce ben altri significati. C’è un Bowie parodia di se stesso che canta e tre figure femminili, in versioni caricaturali, interpretate dallo stesso Bowie: due spogliarelliste e un inquietante sosia di Marlene Dietrich. Questo videoclip, più che la canzone in sé, divenne un manifesto camp, al pari di certi brani coevi dei Village People.
Bowie non abbandonerà mai totalmente, nei testi e nell’immagine, l’estetica drag. Che procede nella sua carriera musicale parallelamente al successo, e che è presente (seppure in modi meno “esibiti”) anche a fine carriera. Ne è un esempio, il brano The stars (are out tonight) (2013) dove una coppia di star imborghesite (lo stesso Bowie e l’attrice Tilda Swinton).
<<I satiri e le loro mogli bambine (…) eccole lì in cima alle scale, asessuate e frigide>>. Seppure il brano affronti in prevalenza un altro dei topos bowiani: il successo (un esempio su tutti Fame, 1975), anche in questa circostanza è il videoclip che ci mostra il sottotesto attraverso le immagini.
Bowie e Tilda sono ossessionati, e attratti allo stesso tempo, dai loro stessi incubi, dalle figure sessualmente ibride che prendono possesso delle loro menti, che li attraggono e li respingono allo stesso tempo.
Non siamo più negli anni settanta; forse non c’è più “bisogno” di una star capace di diventare un’icona delle istanze anticonformiste in materia di sessualità e identificazioni di genere? O no? In ogni caso Bowie ci ricorda, ormai sessantaseienne, che <<Le stelle non dormono mai, sia quelle morte sia quelle vive>>. E con loro sopravvive la carica trasgressiva del passato, sotto le apparenti vestigia mainstream.
Per tutto l’arco della vita privata e artistica di David Bowie non troviamo presunzione nella sua rivolta anticonformista. Né tantomeno la speranza di mutare radicalmente la realtà o vederla a propria immagine e somiglianza. David ha il senso del limite: << Noi siamo artefici della vita, ma è anche vero che la vita stessa è artefice di noi stessi>> disse in un’occasione. Ed era ben informato del fatto che la vita psicologica inizia nel nucleo familiare dalle cui dinamiche, se patologiche, non si sfugge così facilmente, come dalla follia che sovente ne è allo stesso tempo causa e conseguenza, in quelle matrici familiari psicopatologiche dalle quali discendono quelli che oggi siamo usi chiamare “traumi transgenerazionali”.
David ha sempre cercato di essere in anticipo sui tempi, che al netto delle intuizioni artistiche è anche un modo per non farsi sorprendere dal futuro, tanto più se, oltre ad immaginarlo, operiamo per cambiarlo. Tutto ciò ha anche a che fare con la sua storia personale. Come psicoterapeuti conosciamo il meccanismo di difesa, altamente evolutivo, della “anticipazione”: immaginare gli eventi futuri, prefigurarseli preparandosi a essi, immaginare strategie per affrontarli, scenari possibili, ecc….
Madman
Sentire di dover sfuggire al destino tragico della malattia mentale e del suicidio presenti nella propria famiglia allargata era un imperativo.
Per quanto concerne il nucleo familiare, David racconta di un padre che lo aiutò e stimolò nella sua carriera musicale. Haywood Stenton Jones aveva anche provato, con scarsi risultati, a gestire dei locali musicali, ed era interessato agli interessi del figlio.
<<In fondo sognavo di essere solo e incompreso. In realtà credo di non essere stato nulla di tutto ciò. Solo un ragazzo molto egocentrico e terribilmente vanitoso. Cose tipiche da adolescente. I miei genitori si preoccupavano per me. Pensavano che avrei messo i piedi per terra andando alla scuola d’arte, che avrei messo la testa a posto – come il mio amico George – intraprendendo la carriera di grafico commerciale. Mi vedevano già sgobbare dietro un bel bancone, nell’equivalente londinese di Madison Avenue….
La musica li faceva diventare matti. Mia madre non mi ha mai aiutato, mai incoraggiato. Solo mio padre mi sosteneva. Per loro, l’arte e la musica erano dei mondi sconosciuti. L’unico musicista della famiglia era il padre di mia madre, che suonava malamente la tromba. Siamo una piccola tipica famiglia della classe operaia, con vita ordinata e monotona. Nulla di magico, nulla di brillante. Ho capito che questa vita non faceva per me a otto anni, quando ho ascoltato Little Richard. Quello fu lo scatto, la rottura. Quindi, ero sicuro che la mia vita non sarebbe terminata nella periferia a sud di Londra. (Da un’intervista concessa al settimanale di cultura e musica Les Inrockuptibles, nell’estate 1993).
La madre aveva tre sorelle su cinque con gravi problemi psicopatologici e, si narra, che anche lei non se la passasse così bene da questo punto di vista.
Lo stesso rapporto tra David e la madre fu tormentato, con lunghi periodi di assenza di frequentazione. Nota 6
Margaret “Peggy” era madre di altri due figli, un maschio e una femmina, avuti da due relazioni precedenti il matrimonio con Haywood Stenton Jones.
La figlia fu adottata da un’altra famiglia e se ne persero le tracce. Il figlio, nato nel 1937, di dieci anni più grande di David, era stato riconosciuto solo dalla madre di cui portava il cognome ed era molto trascurato dalla famiglia Jones, ma non dal fratello minore che lo aveva eletto suo mentore.
Nota 6. A titolo di aneddoto citiamo il seguente scambio di battute. Al funerale della madre, nell’aprile 2011, Bowie è avvicinato da uno dei suoi due più cari amici d’infanzia: Geoff Maccormack. <<Condoglianze David, mi dispiace per tua mamma, anche se so che non le sono mai stato simpatico>> e David: <<Non preoccuparti. Non gli ero simpatico neppure io>>
Purtroppo Terry, questo era il suo nome, ritornò da due anni di servizio militare nella Royal Air Force con quello che oggi chiamiamo un break down psicotico.
Terry ha operato anche in teatri di guerra. Che cosa avrà visto, cosa sarà accaduto nella mente di questo poco più che ventenne? Non lo sapremo mai. O forse l’avranno saputo i medici psichiatri delle varie strutture riabilitative che lo avevano ospitato. La diagnosi era “schizofrenia paranoide”.
Eppure è proprio in questi anni, a cavallo tra i cinquanta e sessanta del secolo scorso, che Terry introduce David alla letteratura e all’ascolto di musica jazz e rock’n’roll.
Il fratello di Bowie morirà suicida nel 1985.
Nelle opere bowiane egli è molto presente. Spesso in modo implicito, allusivo. Pensiamo a quella che doveva essere la copertina dell’album “The Man Who Sold The World” (1970). In essa, in stile grafico da cartone animato, si rappresentava una cupa immagine dell’ingresso principale del Cane Hill Hospital, ospedale psichiatrico della periferia londinese, chiuso definitivamente nel 2000 e che ospitò anche Hannah Chaplin, moglie di Charlie.
Oppure il brano “Jump (They Say)” (1993), che lo stesso Bowie disse ispirato al fratellastro. <<L’uomo tremante (…) dicono che non ha cervello, dicono che non ha umore>>. Nel testo, e nel videoclip interpretato dallo stesso autore in modo più esplicito, tutto finisce con una defenestrazione da un grattacielo. Nella realtà Terry si tolse la vita buttandosi contro un treno in corsa, ma la sostanza non cambia.
E non si può non citare “The Bewlay Brothers” (1971). Tutto il testo parla di questo sodalizio tra fratelli: <<Io ero Pietra e lui Cera, così lui poteva urlare, e tuttavia rilassarsi. Incredibile. E facevamo scappare via i bambini per lo spavento>>.
<<C’erano stati troppi suicidi nella mia famiglia per i miei gusti. Pensavo che, se fossi riuscito a trasferire questi eccessi psicologici nella mia musica e nel mio lavoro, sarei riuscito a liberarmene>> disse Bowie in un’intervista.
Da addetti ai lavori (psicoterapeuti) possiamo scomodare i concetti di resilienza, sublimazione, strategie di coping (da cope, reagire, qui il copiare non c’entra).
Creatività
Tra le risorse psicologiche ed emotive, non dimentichiamo che la creatività si mostra anche attraverso l’utilizzo o il riutilizzo di strumenti creativi di per sé. Bowie non poteva che esserne curioso e appassionato allo stesso tempo. Ci riferiamo alla tecnica del Cut-up e a quella delle Oblique strategies.
La prima, cut-up method, è una tecnica inventata dallo scrittore William S. Burroughs, icona della beat generation.
Trattasi di ritagliare frasi prese da diversi scritti dello stesso autore, per poi ricomporle casualmente dando luogo a diversi significati. Burroughs aveva concepito con questa tecnica alcuni suoi scritti, prendendola a prestito dagli esperimenti artistici del Dadaismo.
Bowie la utilizzerà per alcuni testi delle sue canzoni, ad esempio nell’album 1.Outside (1995). Chiamerà il metodo “tarocchi occidentali”. La mescolanza casuale, al di là dell’effetto straniante, crea nuovi possibili significati e associazioni tra le frasi. Attraverso un processo mentale che chiama in causa il pensiero divergente e la possibilità di farsi sorprendere dalle possibili connessioni tra frasi, originariamente provenienti da fonti diverse.
Le Oblique strategies nascono da un’idea del musicista Brian Eno, collaboratore e co-autore di canzoni di Bowie, e del pittore Peter Schimdt. Si narra che nel 1977, tra la stesura dell’album Low e il successivo Heroes, il nostro “soffrisse” della sindrome della pagina bianca. Nota 7
Nota 7. Chiamata anche leucofobia, perché bisogna sempre attribuire un nome pseudoscientifico alle cose per farle apparire più serie. Letteralmente: paura del colore bianco.
Su suggerimento di Eno decise di affidarsi a un mazzo di carte dove ognuna di esse recava una frase enigmatica che si rivolgeva a chi l’aveva estratta dal mazzo. Questi aforismi, spunti, induzioni a determinati comportamenti favoriscono lo sviluppo del pensiero laterale e creativo (saranno usate anche da altri musicisti come i Coldplay e i R.E.M.). Le frasi possono apparire a prima vista indecifrabili e hanno l’obiettivo di “smuovere” qualcosa, dal punto di vista creativo.
Due tecniche utilizzate da Bowie, anche se non ideate da lui, che confermano che la vera creatività sta nell’utilizzo nuovo e creativo di oggetti e strumenti già esistenti ma utilizzati in modo differente o in situazioni differenti. Bowie baserà alcuni testi di canzoni, ispirandone anche la melodia, attraverso le frasi emergenti dal Cut-up e troverà nuovi stimoli creativi, per sé e i suoi collaboratori, traducendo in parole di canzoni e in stili musicali, le sollecitazioni delle carte di Brian Eno. Nota 8
Nota 8. Qualche esempio di frasi presenti nel mazzo di carte: “Onora il tuo errore come se fosse un’intenzione nascosta”, “Compi un’azione improvvisa, distruttiva e imprevedibile”, “Scrivi una lista esaustiva di ogni cosa che devi fare e fai l’ultima”, “La cosa più importante è quella più facilmente dimenticata”.
Parole e musica
In questo scritto abbiamo privilegiato la produzione artistica a tutto tondo. Una sorta di “meticciato” tra arti diverse e, all’interno di ognuna, di stili disparati, efficacemente integrati. Lo stesso vale per l’ambito musicale, il “core businnes” di Bowie. Quello che corrisponde all’immaginario collettivo. Chi era David Bowie? Un cantante, un musicista, ci viene detto.
E’ indubbio che abbia spaziato tra più generi musicali. Inventandoli, anticipandoli, cavalcando quelli che già esistevano ma tradotti in forme originali e personali. Spiazzando fan e case discografiche quando, aspettandosi un album che continuasse nel genere musicale del precedente, proponeva qualcosa di completamente diverso. A volte stupendo i suoi stessi fan, altre per la disperazione delle case discografiche che si trovavano a svolte musicali sperimentali e non a dischi più commerciali.
Non disdegnando di fare anche il contrario, come quando nei primi anni ’80 diventa una pop-star, con tre album di canzoni che strizzano un occhio alla discomusic e l’altro al businnes che deriva da un approccio più commerciale e convenzionale. Nessuno è perfetto.
La storia strettamente musicale di David Bowie sembra una summa di buona parte della musica moderna, se si esclude quella sinfonica. Dal rock in versione light, e le medodie da figli dei fiori degli esordi, al rock che diventa ben presto “glam-rock” (primi anni ’70), al soul in versione “bianca”, per virare verso la sperimentazione e i brani strumentali del triennio berlinese 1977-1980 (che non gli impedisce di scrivere, ironia della sorte, proprio lì la sua hit forse più celebre: Heroes). E poi la “svolta” pop, dance di buona parte degli ’80. E ancora, il ritorno a un rock simil anni ’70, meno glam ma più hard, con i Tin Machine. E poi ancora sperimentazione (con 1.Outside, 1995). E lo Jungle e il Drum and bass anni ’90, che non scopre certo David ma che cavalca, alla sua maniera. E poi ancora nuove canzoni melodiche, fino al suo commiato con Blackstar (2016),dove si avvale di una band di jazz sperimentale.
Quanto alla poetica dell’artista inglese, essa si muove dalle direzioni più intimistiche e un po’ naif degli esordi, verso temi distopici e la proposizione in versi di crisi identitarie. La sua prosa è molto ermetica, rispetto ad esempio all’esplicitazione del degrado e della sofferenza personale e urbana di un Lou Reed (suo amico fraterno). Sia nelle sue liriche più drammatiche o decadenti, sia in quelle più edonistiche o romantiche.
Le tecniche di composizione letteraria cui abbiamo accennato sopra (in particolare il cut-up) metteranno ancora più in risalto l’imperscrutabilità di certi testi, per quanto molti esegeti vi abbiano trovato significati simbolici, a volte opinabili, altre plausibili.
Anche la critica sociale è presente nei suoi testi. E’ risaputa la sua attenzione alla condizione giovanile, sul piano psicosociale, così come la sua denuncia della morale pubblica e del militarismo..
<<I soldi finiscono nel paradiso dei soldi, i corpi nell’inferno dei corpi>> (da “I can’t read”, 1989).
<<Bambini in tutto il mondo mettono cacca di cammello sui muri Fanno tappeti su macchinari, o frugano in discariche E non è un gioco>> (da “It’s no game, part. 2” 1980).
E ce n’è anche per il bigottismo religioso e le istituzioni ecclesiastiche: <<Dapprima ti danno quello che vuoi, poi si riprendono tutto quello che ha, vivono in piedi e muoiono inginocchiati, lavorano insieme a Satana mentre si vestono come santi, sanno che Dio esiste perché glie l’ha detto il diavolo>> (dal brano “The next day”, 2013, il cui video-clip è ancora più provocatorio ed esplicito).
E per l’industria delle armi in USA (“Valentine’s Day”, 2013 ), che gioca sul doppio senso della giornata degli innamorati e della strage di San Valentino compiuta da Al Capone, ma il testo tratta del massacro di Columbine (1999) in cui due ex studenti compirono una strage di allievi della loro ex High School.
A scanso di equivoci c’è posto anche per queste parole: <<E allora dov’è la morale, quando si rompono le dita alla gente. Essere insultati da questi fascisti è così degradante. E non è mica un gioco>> (“It’s no game Pt.1”, 1980).
Fino a quando Bowie dovrà affrontare la sua caducità. Non più solo quella morte spesso evocata nei suoi testi: <<Perché li sento già al cancello, per tutto quello che abbiamo visto, per tutto quello che abbiamo detto, noi siamo i morti>> (da “We are the death”) oppure <<Mi avevi promesso che la fine sarebbe stata chiara, quando quel momento sarebbe arrivato. Non farmi sapere quando aprirai la porta. Pugnalami nel buio, fammi sparire>> (scrive in “Bring me the Disco King”, 2003).
La porta si apre per davvero, nella sua esistenza e nel drammatico video clip del suo ultimo lascito: la canzone Lazarus, dell’album Blackstar. Il disco esce il 12 gennaio 2016, due giorni dopo la sua scomparsa.
Bowie, cosciente di essere ormai un malato terminale, conclude questa sua ultima opera e, in una sorta di sfida al tempo e alla “fatal quiete” come avrebbe detto il Foscolo, vuole fissare indelebilmente nei testi il suo testamento umano e artistico. Tanto che “Lazarus”, diventa anche un suo musical. L’esperienza artistica che mancava al suo rigoglioso carnet. Il suo canto del cigno.
La sua ultima uscita pubblica sarà proprio per la “prima” a New York del musical, che contiene i suoi testi e le sue musiche. Un progetto tenuto nel cassetto da tanto tempo.
<<Guarda qui, sono in paradiso
Ho cicatrici che non si vedono
Ho il mio dramma, nessuno me lo può togliere (…)
In questo modo o in nessun’altro
Sai, sarò libero
Proprio come quell’uccellino azzurro
Mi ci vedo proprio in tutto questo
Oh, io sarò libero
Proprio come quell’uccellino azzurro
Io sarò libero
Non è una cosa proprio da me?>>
BIBLIOGRAFIA
Chiappero P., Io e gli altri (per non parlare del cane) Rivista “Varchi. Tracce per la psicoanalisi”. N. 16. 2017. Arti Grafiche Francescane – Il Ruolo Terapeutico di Genova Editore.
Schatzman M., (1973), La famiglia che uccide. Trad. it. Feltrinelli Editore, 1976.
Per una biografia artistica completa (per quanto aggiornata al 2011) vedere:
Pegg N., (2011), Bowie. L’enciclopedia definitiva. Trad. it. Arcana Editore, 2012.
Per ulteriori fonti delle citazioni di frasi di Bowie e testi delle sue canzoni, chi volesse può contattare l’autore all’indirizzo: paolo.chiappero@yahoo.it