Neuropsicologia dell’essere umano

di Riccardo Pignatti *

Padre, se nessuno credesse più a Dio, Dio esisterebbe ancora? (T. Wharthon)

Quando pensiamo al nostro funzionamento cognitivo, dobbiamo esprimerci spesso con delle metafore. “Ce l’avevo sulla punta della lingua. Non riesco a ingranare. Mi è sfuggito di mano il pensiero. Mi si è accesa la lampadina”.

Fa riflettere che nessuno di noi abbia una diretta ed esatta coscienza di come facciamo a percepire, a pensare, a ricordare, ad accedere a una parola e non a un’altra, oppure ad attivare l’attenzione selettiva verso la conversazione telefonica in cui siamo impegnati, rispetto alle chiacchiere di fondo.

Avere poca o nessuna idea di come funzioni la nostra mente produce inevitabilmente la necessità di usare un linguaggio condiviso per comunicare ciò che sentiamo in quel momento agli altri. L’uso delle metafore ci aiuta a risolvere un po’ l’incognita, spostandoci su un terreno più esperienziale e quindi più comunicabile.

La stessa cosa potremmo dire delle emozioni. Anche se siamo molto empatici, non potremmo mai sapere l’esatta percezione che ha una persona della propria ansia, del dolore o della felicità. Anche qui l’uso di metafore è molto frequente, “Ho il cuore in gola, sento le farfalle nello stomaco, è come un pugnale in testa”.

Il ruolo delle scienze cognitive e più in generale delle neuroscienze sarebbe dunque quello di esplorare, su più livelli, il modo che ha il nostro cervello di interfacciarsi con gli stimoli, esterni o interni, e di produrre risposte, interne o esterne, attraverso una funzione neurologica, frutto di una elaboratissima rete di connessioni elettriche. La situazione è talmente complessa che nessuno arriva a conoscere esattamente come funziona il proprio cervello, ma, anche se vi riuscisse, la possibilità che avrebbe di controllarne e modificarne le risposte sarebbe minima o persino nulla. Nessuno può del tutto volontariamente decidere di pensare in modo diverso, di sottrarsi a un’illusione ottica, di dimenticare un’informazione, di ricordare una procedura, o di provare appetito in un determinato momento. Tuttavia, sapere che alla base di tali funzioni vi sono alcuni meccanismi, può almeno farci dirigere gli sforzi nella direzione giusta.

La volontà, sulla quale hanno speso infinite pagine eminenti studiosi di vari campi, dai filosofi ai neuroscienziati, è infatti in buona parte… involontaria. Infatti, più che “decidere” di fare qualcosa, ci accorgiamo di un desiderio, di un ricordo o di un’azione effettuata, solo quando una particolare sequenza di stimoli affiora nella consapevolezza. Per esempio, sentiamo il desiderio di una focaccia quando passiamo davanti a un forno che spande il suo profumo di pane caldo nella strada. Fino al momento precedente, non avevamo consapevolezza di quel desiderio, anche se in qualche modo esisteva già dentro il nostro bagagliaio delle voglie. Dunque, non abbiamo deciso di desiderare, ma ce ne siamo accorti. Immediatamente dopo, qualcosa ci spinge ad andare fisicamente da quel fornaio, ma può darsi che altre “voci” ci dicano che è meglio non farlo, perché siamo a dieta, oppure siamo di fretta, o non abbiamo abbastanza soldi e così via. Abbiamo semplicemente percepito in quel momento gli esiti del funzionamento di memorie olfattive, centri del piacere, aspetti di personalità, inibizione motoria, ragionamento, senza sapere cosa sia realmente accaduto ai nostri neurotrasmettitori e con il dubbio di avere fatto la scelta giusta.

Alcune patologie neurologiche sono caratterizzate proprio dall’assenza di consapevolezza verso la malattia, o anosognosia. Un esempio classico è il Neglect: in seguito a una lesione, generalmente della parte inferiore del lobo parietale destro, il soggetto ignora tutto ciò che si trova nello spazio sinistro del proprio mondo (per una trattazione sui disturbi visuo-spaziali, vedasi Vallar, 2007). Il Neglect può manifestarsi in vari modi e a vari livelli di gravità, ma in generale il soggetto non si accorge più di avere una metà sinistra della faccia in cui radersi, di mangiare anche il cibo nella parte sinistra del piatto, che il disegno di un cane prevede 4 zampe e non solo 2 sulla destra, di una persona che gli/le parla da sinistra oppure non legge più la metà sinistra delle parole e può arrivare persino a credere che la metà sinistra del proprio corpo appartenga a un’altra persona. La persona sa che esiste una parte sinistra del mondo, ma non può portarvi attenzione, e, se non può portarvi attenzione, allora non è consapevole del problema, e non c’è istruzione razionale che possa curarla. Il soggetto affetto da Neglect può tuttavia avere una reazione inconscia adeguata a quella parte di mondo “oscuro”. Alcuni studi hanno mostrato che il soggetto può effettuare delle scelte corrette su figure che hanno elementi da discriminare nella parte sinistra, quella ignorata, anche se non sanno spiegare come hanno fatto. Il Neglect non è l’unica patologia neurologica in cui emerge l’anosognosia. Altre sono particolarmente diffuse soprattutto in età avanzata, ad esempio, l’amnesia grave, della quale il soggetto non è consapevole poiché non può ricordare di aver dimenticato. Spesso, alla consapevolezza è associata una deflessione del tono dell’umore del soggetto, mentre la anosognosia può portare molti più problemi a chi ne è affetto e ai relativi caregiver, ma più difficilmente è associata a una depressione.

Altre patologie, molto rare, prevedono che compaia un comportamento del quale il soggetto è consapevole e al quale può certamente portare attenzione, ma che tuttavia non può in alcun modo governare. L’esempio forse più eclatante è la Sindrome della mano aliena. Il soggetto affetto da questa sindrome, non si è “dimenticato” di avere una mano, come nel Neglect, ma non può più esercitarne il controllo. Ad essere perso in questo caso è il senso di “agency” su una parte del corpo: una mano (di solito, la sinistra) non risponde più al soggetto e anzi spesso si mette a interferire con i compiti che egli cerca disperatamente di eseguire con l’altra mano (Schaefer, Heinze e Galazky, 2010).

Le Neuroscienze ci spiegano dunque che ciò che succede all’interno del nostro cervello, anche in fisiologia e non solo in patologia, è in larga parte inconscio o, meglio, fuori dalla consapevolezza e/o dalla volontà (per approfondimenti, anche sulle implicazioni psicopatologiche, vedasi Ginot, 2017). Non abbiamo bene idea di come mai, se stiamo leggendo in questo momento, non ci accorgiamo dei rumori di fondo, ma probabilmente ce ne siamo accorti ora che sono stati citati nel testo. Forse potremmo dire lo stesso del senso di costrizione delle dita dei piedi nelle scarpe. Questi segnali già c’erano, e avremmo anche potuto reagire a essi se avessero superato una certa soglia, ma semplicemente ci stavamo fidando che il nostro cervello avrebbe impartito un ordine, qualora ce ne fosse stato bisogno. Non sappiamo bene come mai e men che meno come fa il cervello a farlo, ma ci accorgiamo, quasi subito, che stiamo eseguendo un movimento, oppure che stiamo rievocando un ricordo. Stiamo così parlando dell’economia mentale.

Il cervello consuma molti zuccheri e quindi, per farci risparmiare, fa benissimo molte cose in automatico, senza bisogno dell’intervento cosciente. Non pensiate che la cosa sia limitata a semplici azioni motorie, perché questo riguarda spesso anche procedure complesse, come accesso alle memorie, coazione comportamentale, desideri (come detto), percezioni e così via. Siamo frutto dell’evoluzione e quindi a molte cose hanno già pensato (bene o male) i nostri genitori o i nostri avi, che ci hanno lasciato in regalo risposte preconfezionate agli stimoli. Una risposta “innata” è una maggiore probabilità che, di fronte allo stesso stimolo, sia privilegiato un canale di risposta rispetto a un altro. Da un lato è un risparmio energetico, dall’altro è un tentativo di adattamento all’ambiente, perché, se una cosa ha funzionato per secoli a farci sopravvivere, è probabile che funzioni ancora. Immaginate che fatica se ogni giorno, ogni generazione di esseri viventi, dovesse sperimentare e reimpostare tutto da capo. Passeremmo più tempo a cercare strategie che a utilizzarle.

L’apprendimento è essenzialmente questo: davanti a una rete quasi infinita di connessioni, dobbiamo farne sopravvivere alcune e non altre. Più che inserire qualcosa di nuovo, apprendere è eliminare qualcosa di inutile per la nostra sopravvivenza. Apprendere significa nutrire alcune linee elettriche delle nostre reti neurali e farne morire di fame altre. Ciò che è collegato, è nutrito. Ciò che resta isolato, muore. E la morte è necessaria per far vivere meglio i sopravvissuti. Sembra anche questa una metafora (ci ritornerò più avanti) ma è piuttosto realistica rispetto a ciò che accade nelle nostre reti neurali.

Abbiamo intanto (inconsciamente?) appreso alcuni concetti del nostro funzionamento neuro-psicologico, semplicemente leggendo questo articolo. Non possiamo non identificare come lettere questi segni su un foglio, dunque non possiamo decidere di vederle e di non leggerle, magari possiamo ignorare quello che c’è scritto, ma non possiamo decidere cosa ricordare e cosa dimenticare. So che questo può sembrare sconfortante, ma noi non abbiamo avuto nessuna voce in capitolo nemmeno su cose con le quali siamo generalmente fortemente identificati, come il nostro nome e cognome, il nostro sesso, la nostra apparenza estetica, il nostro luogo di nascita, i nostri genitori e la lingua madre. Possiamo amarle o detestarle, nasconderle o evidenziarle, ma sono una parte di noi che ci influenza e ci determina profondamente, senza che qualcuno ci abbia mai chiesto cosa avremmo preferito. Può andarci bene o male, ma di questo ce ne accorgeremo solo con il crescere della nostra esperienza e di come ci adatteremo ad essa. E le opinioni in merito, le narrazioni sul nostro passato, potranno mutare continuamente a seconda delle esperienze, “il futuro è certo, il passato cambia sempre” (detto polacco).

La più parte degli apprendimenti avviene in modo inconsapevole ed è inconsapevolmente agita. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei bambini quando imparano a camminare, a gestire gli sfinteri, a parlare, a riconoscere i volti famigliari da quelli sconosciuti e via dicendo. I bambini non hanno consapevolezza di quello che sta accadendo, non prendono in merito alcuna decisione cosciente, ma stanno, nello stesso momento, mettendo le basi di comportamenti e conoscenze che useranno per tuta la vita. Questo accade costantemente anche da adulti, spesso però abbiamo l’illusione di poter decidere volontariamente il funzionamento delle nostre funzioni cognitive, anche se ciò è evidentemente al di fuori delle nostre possibilità. Anzi, tentare di controllare con la volontà ciò che avviene involontariamente può provocare dei fallimenti. Ad esempio, se ci sforziamo di dormire, restiamo ancora più svegli, e se cercassimo di portare completa consapevolezza e volontarietà ai movimenti delle dita su una tastiera, ci bloccheremmo molto più facilmente nello scrivere o nel suonare (Jaynes, 1996).

Nel campo della neuropsicologia clinica, possiamo fingere, ma solo in una direzione svalutativa. Possiamo simulare di non ricordare delle informazioni, di essere più lenti o più distraibili, ma non possiamo fare finta di rendere di più di quello che possiamo. Mentre un test psicologico può essere influenzato tanto in meglio, dalla desiderabilità sociale, quanto in peggio, dalla accentuazione e simulazione di un disturbo psichiatrico, un test neuropsicologico non può essere svolto intenzionalmente “meglio” (a meno che uno non truffi, perché sa le risposte in anticipo).

Siamo abituati a percepire le Neuroscienze come le scienze che si occupano solo delle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, prassie, attenzione, etc…), ma anche la personalità, la coscienza, il senso di “agency” e la presa di decisioni sono temi che appartengono al cervello e al suo funzionamento. La coscienza, per la verità, forse fa un po’ eccezione: poiché non vi è una definizione chiara di cosa sia, né una sede anatomico-funzionale in cui collocarla, della coscienza potremmo persino supporre una sede esternalizzata, o dentro altri organi non-cerebrali, come ad esempio nel cuore, come si credeva diffusamente nel passato. Ciò sarebbe anche, in linea teorica, possibile, almeno finché non vi sarà un pronunciamento scientifico più chiaro. Dopodiché, la presunta collocazione extra-personale o extra-cerebrale sarà considerata un…accanimento metafisico.

Per ora, intanto, c’è un ampio dibattito anche su cosa siano la volontà e la scelta; ci domandiamo se siamo schiavi del nostro cervello o se conserviamo il libero arbitrio. Come sintetizza Harari (2019): <<Si è scoperto che ogni nostra scelta, da quello che mangiamo ai compagni che amiamo, non dipende da un misterioso libero arbitrio bensì da miliardi di neuroni che calcolano probabilità in una frazione di secondo. La tanto decantata intuizione umana consiste in realtà nel riconoscimento di modelli>>. Per avere una idea di come si possa aprire qui una discussione tutt’altro che chiusa, con posizioni, ancorché scientifiche, lontane tra loro, invito i lettori ad approfondire la questione, passando da “L’uomo non fa ciò che vuole, ma vuole ciò che fa” (Benini, 2022) a “Il cervello non spiega chi siamo” (Legrenzi e Umiltà, 2009). Qui lascio solamente immaginare le implicazioni etico-legali, sociali e politiche, di ritenere gli esseri umani “involontari” rispetto alle scelte: ad esempio, le carceri andrebbero sostituite con centri di neuroriabilitazione (e gli avvocati con i neurologi). Se invece fossimo totalmente “volontari”, dovrebbe accadere il contrario.

Basiamo spesso ciò che siamo ora sui nostri ricordi, ma, quando rievochiamo qualcosa, è frequente che si manifestino molti problemi, quali: false memorie, bias della congruità dell’umore sulla rievocazione, problemi che derivano dal contesto di apprendimento e di rievocazione, influenze sociali sul ricordo, decadimento della traccia mnesica per particolari selettivi, influenza retroattiva di cosa raccontiamo su cosa ricordiamo, e così via (e parliamo solo dei bias fisiologici della memoria e della rievocazione, senza entrare nel merito delle patologie amnesiche). Le emozioni, le aspettative e i ricordi hanno una influenza enorme anche sulla percezione di fattori cosiddetti “fisici”, come il dolore cronico (anche il cervello è un elemento anatomico, dunque non andrebbe distinto ontologicamente dagli altri organi).

Alcune connessioni cerebrali sono più potenti di altre e possono condurci a una reattività maggiore verso ciò che immaginiamo o ricordiamo, rispetto a ciò che fisiologicamente sarebbe trasmesso dal sistema nervoso periferico “in purezza”, senza un sistema nervoso centrale che lo elabori. Il sé narrativo (quello che utilizza la memoria e che racconta le vicende della nostra vita) è influenzato da fattori emotivi in maniera differente dal sé esperienziale (quello che ha vissuto realmente gli eventi). Il sé narrativo è meno sensibile alla durata del tempo ed evidenzia le emozioni più intense e quelle più recenti. Il sé esperienziale, invece, rileva, nel momento in cui le vive, tutta la varietà di situazioni piacevoli o spiacevoli e le colloca all’interno di una sequenza temporale. Questo effetto è particolarmente evidente nel lutto, dove l’emozione più forte e quella finale della nostra esperienza con una persona spesso coincidono e diventano enormemente prevaricanti, rispetto alle altre esperienze emotive che possiamo aver fatto con essa. Quindi, restiamo soli con il sé narrativo, che continua a riproporci il dramma del lutto. Ma lo stesso si può dire di un film con un buon o un brutto finale, o con particolari intensità durante la trama, che fanno ricordare l’intera esperienza con poche informazioni, a dispetto della durata di quell’evento (film, cortometraggio, serie televisiva).

Il ragionamento e la presa di decisioni seguono più spesso sentieri emotivi (“di pancia”) che logici o razionali. Questo fenomeno accade anche in persone esperte di un determinato settore e anche contro le evidenze fattuali. Spesso prendono più peso su una decisione il pensiero magico e l’azzardo, rispetto alla probabilità statistica. L’andamento delle borse mondiali è pieno di esempi di accadimenti emotivi che hanno avuto più peso di eventi storici o naturali. Conta più la reazione all’evento, che l’evento stesso. Per fare un altro esempio, prevedere il futuro sulla base del passato è evidentemente un inganno statistico: non si muore finché si è in vita, ma il fatto di essere sempre stati in vita non è garanzia di non morire; ma tutti noi, prima o poi, siamo cascati nel sottovalutare dei rischi perché “non è mai successo che…”. Questa, e altre, strategie fallimentari di presa decisionale in condizioni di incertezza e di rarità degli eventi sono state magistralmente descritte ne “Il cigno nero” (Taleb, 2014) e in tutti i libri dell’autore sul ciclo dell’Incerto.

Ciò che percepiamo, che è il mondo “sicuro” su cui ci basiamo e che crediamo reale, è quindi spesso diverso dal… mondo esterno. Pertanto ci troviamo a combattere spesso un nemico interno e ciò può anche essere fonte di rabbia, poiché reagiamo a un altro bias, ovvero che sia più facile modificare una situazione interna rispetto a una esterna. E se il mondo rappresentato è fallace, lo saranno ancora di più le nostre risposte, poiché, come abbiamo rapidamente visto, nel percorso stimolo-risposta ci carichiamo di ulteriori bias mnesici e di ragionamento. Tutto questo avviene già normalmente in condizioni fisiologiche, di “salute”, ma è drammaticamente accentuato in condizioni patologiche, sia neurologiche sia psichiatriche. La disinibizione, i deficit attentivi, la perdita del senso di realtà, le perseverazioni, solo per citare alcuni tipici disturbi, sono un ostacolo enorme a poter mettere in discussione strategie fallimentari alla luce dei feedback ricevuti. Per una trattazione approfondita sui bias di ragionamento, vedasi Kahneman (2020) e, per i bias di memoria, Denes (2022).

Allora, il nostro cervello è un modello vecchio? Forse poteva essere sul pezzo nel tempo in cui le società erano strutturate e stabili, le persone si muovevano poco, il supporto famigliare e sociale era intenso e ci si accontentava di quello che si aveva. Meglio restare fissi in una condizione mediocre, che subire un potenziale abbandono in cambio di un futuro incerto, a bassa probabilità di miglioramento. Il funzionamento del cervello, per come si è strutturato, nella sua filogenesi e ontogenesi, sembra dirci questo.

A una verità storica che comporta dei rischi, è preferibile una verità individuale, soggetta a deformazioni, ma che ci mantenga in uno status quo accettabile. La fobia è l’emozione che traduce nel corpo questa scelta. Del resto, a differenza degli altri animali, l’uomo è meno forte, meno veloce, meno mimetico, ha bisogno di molto supporto esterno (case, vestiti, cibo procurato in gran parte da altri) e quindi per lui è molto adattivo avere una terribile paura dei pericoli e dei cambiamenti. Oltre a ciò, l’essere umano ha anche un’altra esclusiva nel mondo animale: un linguaggio simbolico, che gli permette di comunicare ai propri simili concetti astratti e relativi al passato e al futuro. Niente di meglio per sviluppare una “coscienza”, un senso di sé, e quindi anche una coscienza “fobica”.

La comunicazione è dunque alla base della nostra sopravvivenza di animali fobici, deboli e interdipendenti, quindi stare connessi è una condizione necessaria (coscienza condivisa? Inconscio collettivo?). Ma ricordate i neuroni? Ciò che si isola, muore. Ha più possibilità di sopravvivere chi si nutre, non chi è più forte e nemmeno chi “sta meglio”. Questo forse spiega anche le resistenze al cambiamento che abbiamo di fronte a situazioni sociali o famigliari disastrose, che però fanno parte delle nostre abitudini e in qualche modo delle nostre certezze. Stanze di tortura? Magari sì, però a risparmio energetico e antisismiche. Il sistema nervoso, con le sue caratteristiche, sembrerebbe funzionare in maniera analoga.

Ma in questa società attuale, iperfluida e ipercompetitiva, il nostro sistema nervoso centrale deve avere un aggiornamento di sistema? Ѐ davvero un modello obsoleto? Ѐ necessario per forza mutare le proprie abitudini e vivere in una costante tensione al miglioramento e al cambiamento?

Un aggiornamento per il cervello è già avvenuto, con l’invenzione di periferiche ad hoc, ovvero gli smartphone. Se siano aggiornamenti positivi o negativi, dipenderà dall’uso che ne faremo. Qui ci limitiamo ad osservare, tuttavia, che all’interno del nostro cervello fisico “1.0”, per quanto complesse e radicate le abitudini, irrazionali le scelte e inconoscibili i procedimenti cerebrali, c’è comunque una opportunità per aggiornare il nostro sistema operativo. Possiamo lavorare sull’attenzione, perché dove portiamo attenzione, lì c’è amplificazione. E semplicemente dobbiamo accettare che ciò che non conosciamo sia infinitamente più grande di ciò che conosciamo. Inoltre, la nostra memoria di lavoro può lavorare sui famosi 7 più o meno 2 elementi alla volta.  Nemmeno la persona più colta e intelligente del mondo può arrivare a contatto con altro che solo una irrisoria porzione della conoscenza globale. E anche se potesse accedere a tutto, non potrebbe comunque utilizzare più di circa 7 elementi alla volta per formulare dei pensieri.

Un po’ di sfiducia verso ciò che pensiamo, crediamo e facciamo non è “bassa autostima”, ma è uno stimolo a provare nuove strade e a tenere i neuroni attivi e in comunicazione. Dubbio quanto basta, non paranoia. Sicurezza profonda e superficie cangiante sono un buon compromesso tra essere in costante balia degli eventi e l’isolamento in un mondo sicuro ma ostile. Anche per la parte riabilitativa e terapeutica non sappiamo esattamente come fa il cervello a recepire le informazioni e a tradurle in comportamenti adattivi o meno, né come avvenga il percorso ideale per portare il sistema nervoso a formare nuove vie di contatto tra le cellule, a rinforzare alcuni collegamenti (apprendimenti) o a prevenire un disturbo psichiatrico, pertanto facciamo ricorso anche in questo caso a delle metafore, che, di per sé, hanno già un valore terapeutico.

Essendo basate su una conoscenza che i soggetti di solito hanno già fatto, le metafore permettono di essere accolte come qualcosa di vicino e di utile, senza bisogno di uno sforzo cosciente. Le metafore vanno a seminare qualcosa che il cervello elaborerà con un significato personalizzato, anche se le metafore sono molto generiche. Storicamente, il ruolo della tradizione orale tramite favole, racconti epici, miti, simbologie religiose sembra confermare il significato adattivo-educativo profondo di questo sistema. Usare elementi presi dalla natura è utile proprio per dare prossimità esperienziale alla comunicazione. Ovvero, permettere al sistema nervoso del destinatario di non rifiutare l’informazione come un corpo estraneo, ma di darle l’opportunità di essere integrata come un nuovo elemento nella rete esistente. Tornando al “gold standard” dell’intervento, è certamente l’albero la figura metaforica più vicina ad esprimere questo concetto. Radici solide, tronco robusto che permetta di fare arrivare le sostanze nutritive in tutte le parti, rami e foglie che possono cadere ed essere perse, ma che possono anche rigenerarsi, seguendo il ritmo delle stagioni. Alcuni tipi di tagli possono danneggiare l’albero, ma altri possono anche rinforzarlo. Se avete accolto questa metafora, vi sarà certamente più semplice comprendere e accettare che è importante conservare un senso di sé profondo e mettere in discussione ciò che è in superficie. Potrete più facilmente portare attenzione alle informazioni importanti, quindi amplificarle rispetto ad altre informazioni che vi stanno bussando alla porta in questo momento. Per la mia modesta esperienza, le persone che sanno dove dubitare, sono le più resistenti e adattate. Spesso, anche le più disponibili e simpatiche. Penso che tutta la discussione che ho cercato di riassumere, in modo estremo, in questo articolo, di “antropologia neuropsicologica”, porti a questo.

P.S.: il T. Wharthon che ho citato all’inizio, nella “frase colta”, non esiste. Quanti hanno controllato questa cosa? E ora che sapete che non esiste, la frase ha cambiato il suo valore? O ha cambiato questo articolo?

BIBLIOGRAFIA

Aglioti, S.M. e Berlucchi, G. (2013), Neurofobia. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Benini, A. (2022), Neurobiologia della volontà. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Denes, G. (2022), La mente di Pinocchio, Neuroscienze fra memoria, bugie e fake news. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma.

Ginot, E. (2017), Neuropsicologia dell’inconscio. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Harari, Y.N. (2019), 21 lezioni per il XXI secolo. Bompiani, Milano.

Jaynes, J. (1996), Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Adelphi Edizioni, Milano.

Kahneman, D. (2020), Pensieri lenti e veloci. Mondadori Edizioni, Milano.

Legrenzi, P. e Umiltà, C. (2009), Neuromania. Il Mulino Editore, Bologna.

Schaefer, M., Heinze, H.J. e Galazky, I. (2010). Alien hand syndrome: neural correlates of movements without conscious will. PLoS One, Dec 13;5(12):e15010.

Taleb, N.N. (2014), Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita. Il Saggiatore, Milano.

Vallar, G. (2007), Spatial neglect, Balint-Homes’ and Gerstmann’s syndrome, and other spatial disorders. CNS Spectr, Jul;12(7), 527-36.

* Riccardo Pignatti è PhD, neuropsicologo psicoterapeuta, Dirigente psicologo ASL 3 Genova.