Migrazioni: uno sguardo antropologico

di Mauro Carosio

Da sempre l’essere umano ha fatto i conti con la figura dello straniero avendone percezioni diverse a seconda del contesto sociale, civile e geografico. Lo straniero diventa una minaccia soprattutto in periodi di tensione, di crisi o di incertezza sociale. Oggi troppo spesso una deriva semantica spinge termini quali “clandestini” o “irregolari” sempre più in prossimità di “delinquenti” o “criminali”. E pensare che nell’antica Grecia xenos – straniero, significava anche ospite, quindi una persona da trattare con i dovuti riguardi.

Gli ingenti flussi migratori che hanno caratterizzato la storia europea negli ultimi decenni, ridefinendo confini e gerarchie, hanno prodotto reazioni, paure e profonde ambivalenze nei paesi riceventi. I migranti sono sempre richiesti, ma non sempre i benvenuti, per cui ovunque vi siano fenomeni migratori, si assiste a una forte contraddizione tra apertura economica da un lato e chiusura politica e sociale dall’altro. L’economia ha bisogno di forza lavoro in alcune specifiche nicchie di mercato dove manca l’offerta autoctona (lavori che gli italiani non vogliono fare) e ciò rende le persone che arrivano da alcuni paesi “richieste”, “necessarie”, “utili”, ma al tempo stesso invasori. Il mercato ha bisogno di queste persone, ma la società si difende dall’“altro”, dallo straniero, costruendo delle barriere simboliche (ci portano via il lavoro etc.) e fisiche. “L’alterità” spaventa, disturba e innervosisce. Quindi deve essere contenuta e tale contenimento avviene seguendo tre strade complementari:

  • agendo sul linguaggio: vu cumprà, extracomunitario, badante
  • producendo o generando stereotipi: gli africani/i negri sono…
  • definendo e circoscrivendo gli ambiti di manovra e i gradi di libertà concessi agli stranieri

Nascono così i lavori per stranieri, i quartieri per stranieri e prende forma un’integrazione subalterna per cui lo straniero viene, eventualmente, accettato a patto che sia gerarchicamente inferiore. Per certi versi le donne sono percepite come meno minacciose e più facilmente assimilabili, comunque anche loro vengono confinate in ruoli subalterni, riferibili spesso a quelli più tradizionali della femminilità oggi messi in discussione dalle donne occidentali. Ѐ così che le migranti tramite un processo che potremmo definire di “proiezione simbolica” divengono ai nostri occhi colf, badanti, prostitute o mogli tradizionali, quantomeno nell’immaginario di alcuni maschi eterosessuali occidentali.

Sono stati fatti diversi paragoni tra la tratta degli schiavi dei secoli scorsi e lo sfruttamento delle persone migranti contemporaneo. C’è una grossa differenza di base: gli schiavi non desideravano emigrare verso il “nuovo mondo” (le “Americhe”) o quanto meno non si attivavano in tal senso, ma erano persone prelevate con la forza dai loro contesti, sradicate, separate con violenza dai luoghi d’origine e dagli affetti ai quali difficilmente si sarebbero ricongiunti. Le attuali vittime del traffico o tratta (e ora vediamo le differenze) sono migranti che hanno molteplici motivi per desiderare di partire.

Tratta e traffico

Da un punto di vista giuridico troviamo una definizione di tratta nel protocollo di Palermo del 2003 e ratificato nel 2013 (protocollo addizionale delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata per combattere il traffico di migranti via terra, mare o via aria). Art. 3: “Tratta di persone indica il reclutamento, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone tramite l’impiego della minaccia, della forza o altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno e abuso di potere. Sfruttamento che richiede l’impiego di lavoro forzato, prostituzione, asservimento, chiedere l’elemosina, commettere reati, prelievo di organi. Il consenso della vittima di tratta è irrilevante”.

Il traffico prevede il consenso della persona interessata, lo sfruttamento finisce con l’arrivo del migrante nel paese di destinazione e il denaro serve al migrante per pagare i trasferimenti clandestini.

Una lunga tradizione di studi ha messo in rilievo come l’esperienza della migrazione accompagni spesso una sofferenza psichica. È importante   sottolineare che le teorie medico-psicologiche proposte (modelli di trauma, memoria ecc…) devono essere messe in relazione con fattori determinanti quali i legami sociali, la rappresentazione della famiglia, e dell’individuo stesso da un lato e la costruzione dello stato-nazione e della retorica sul concetto di cittadinanza dall’altro.

Rispetto a questi intrecci c’è un tema emblematico che è quello della nostalgia, vediamo perché.

Intanto proviamo a definirla: la nostalgia evoca una lacerazione della trama dei riferimenti che sono a fondamento della nostra esperienza. Uno sfaldamento progressivo che disarticola immagini e ricordi mettendo in crisi il senso della nostra identità e della nostra esistenza. Nella vita di un immigrato, spesso, la nostalgia diventa il centro organizzatore di tutti gli eventi, una compagna costante, dal momento che un individuo che ha lasciato la propria terra si trova sospeso in una situazione di totale incertezza. La nostalgia dell’immigrato non è solo il fantasma ossessivo della madre patria o il desiderio di farvi ritorno, anche perché in molti casi non si vuole tornare affatto. Nell’immigrato spesso si sviluppa una sorta di resistenza nei confronti della nuova vita che si manifesta con un senso di spaesamento determinato dallo sradicamento e dal disadattamento alle nuove condizioni dell’esistenza insieme alla difficoltà di rapporti sociali e un’avversione eccessiva verso la minima ingiustizia. D’altronde l’immigrato vive in un tempo sospeso fatto di ritardi delle istituzioni e contraddizioni delle leggi dei paesi ospitanti, fattori che provocano gradi intollerabili di incertezza. Il contesto in cui l’immigrato vive è spesso ostile, dove la precarietà e la frustrazione rispetto al progetto originario provocano uno stress profondo. Oggi gli epidemiologi devono anche tenere conto dell’ambiente in cui gli immigrati si trovano: sul lavoro, condotto per lo più in ambienti malsani in condizioni di provvisorietà e senza garanzie, e nel contesto abitativo caratterizzato da sovraffollamento e promiscuità. Fattori che provocano la maggior parte dei disturbi medici osservati nella popolazione immigrata. Questo si accompagna, a volte, alla necessità di mentire a se stessi e alla propria famiglia che spesso aveva investito nel viaggio del congiunto come soluzione a vari problemi.

Il ruolo delle famiglie d’origine

Da decenni la comunità internazionale si interroga sul ruolo delle famiglie di origine dei migranti, sulla complicità o sui livelli di consapevolezza. Come sempre lo scenario è complesso e non esistono risposte chiare. Le famiglie a volte sono ignare, a volte intuiscono, ma non intervengono, nella speranza di un tornaconto economico e in altri casi esiste un vero e proprio investimento economico da parte di una famiglia o di un gruppo di persone sperando in un vantaggio. Talvolta la famiglia non esiste (come gli orfani che si arrangiano per trovare i soldi per il viaggio).

Nel contesto dei problemi legati all’immigrazione siamo di fronte a dinamiche ambivalenti: abbiamo da un lato il dolore del distacco dal paese d’origine e l’eventuale perdita di legami e dall’altro un forte desiderio di separazione e di autonomia. Da una parte c’è l’idealizzazione del luogo d’origine e dall’altro la volontà di non tornarci. Già nel 1961 lo scrittore senegalese Cheick Kamidou Kane scriveva: “Ѐ fra dubbi e incertezze che prendono corpo stanchezze indicibili, silenzi che aumentano nel corso del tempo: si conosce bene quello che è stato lasciato e si è convinti dell’assurdità dell’idea di tornare”.

Ancora la nostalgia interpretata come una sorta di ambivalenza nell’immigrato che si esprime spesso con una forte critica nei confronti del nuovo contesto, mostrandosi resistente a qualsiasi tipo di integrazione: dalla difficoltà ad apprendere la lingua a quella di socializzare con la popolazione locale. Prima era il paese d’origine a essere intollerabile ora è   quest’ultimo a essere idealizzato e il paese ospitante, pensato in partenza come la soluzione ai propri bisogni e ai propri progetti, si rivela sempre di più un territorio di incertezze, di prove dove solo il successo conta e può cancellare la voglia di tornare.

Altri aspetti che dobbiamo esaminare rispetto all’argomento che stiamo trattando sono il razzismo e gli stereotipi purtroppo ancora presenti. Anche qui l’ambivalenza regna sovrana. Alcune ricerche raccontano che a emigrare sono prevalentemente soggetti deboli, poco integrati nelle società e nelle famiglie d’origine nei quali disturbi latenti si rivelerebbero nel paese di accoglienza. Il tentativo di correggere questo stereotipo invoca il principio opposto, quello detto della “selezione positiva” secondo il quale a emigrare sarebbero al contrario soggetti particolarmente dotati sui quali l’intera comunità di appartenenza e la famiglia, investono le proprie risorse e speranze.

Stiamo replicando di fatto i vizi propri di ogni generalizzazione e di ogni classificazione. Ricerche più recenti hanno mostrato invece la preponderanza di fattori contingenti a causare l’emigrazione: crisi sociali ed economiche, guerre, violenze strutturali, persecuzioni e torture tali da rendere illusoria la possibilità di tipologie soddisfacenti e l’idea di scelte migratorie razionali e autonome.

Lo sguardo antropologico sul fenomeno migratorio può dare un contributo, insieme alla psicologia e alle altre scienze sociali, a una migliore gestione e presa in carico delle persone che oggi, nel mondo globalizzato, fanno parte integrante, che piaccia o meno, del nuovo modello di “società”.

BIBLIOGRAFIA

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Ambrosini, M. (2020), Altri cittadini. Vita e Pensiero, Milano.

Beneduce, R. (2007), Etnopsichiatria. Carocci Editore, Roma.

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