Lina Salvori Pivetta
In questi mesi, un misterioso e infestante virus ha messo sotto scacco l’intera popolazione mondiale, falciando miriadi di morti tanto da non sapere ancora il numero esatto degli scomparsi. Qualcuno ha detto che la sua potenza sanguinaria poteva essere paragonabile a quella della Seconda Guerra Mondiale.
Queste considerazioni, credo, le possono fare solo le generazioni nate dopo il 25 Aprile 1945, quando ebbe fine uno dei più tormentati e crudeli avvenimenti della storia.
Io, che la guerra l’ho vissuta e che ora sto vivendo questa feroce e letale epidemia, dico che le due tragedie non vanno accostate o confrontate tra loro.
Semmai spero che se qualcosa di bello e di buono potremo imparare da quest’ultima esperienza, mi piacerebbe che assomigliasse alla fine della mia guerra, quando dopo un dolore incommensurabile, tutti quanti insieme ci tirammo su le maniche con uno slancio da far invidia al mondo intero, con una gioia immensa, ed una grandiosa volontà. Allora ci impegnammo a ricostruire il paese, le case rase al suolo dai bombardamenti, i moli devastati, le fabbriche in rovina. Era la nostra povera terra distrutta, angariata e martoriata che andava curata, amata, restaurata con amore.
Dal dolore nacque un’Italia nuova e pulita che esaudì moltissimi grandi desideri, facendoci accarezzare sogni sicuri e certi. Furono gli anni migliori, gli anni gioiosi e belli della ricostruzione. In quel tempo ci sentivamo tutti fratelli: ognuno aiutava il prossimo con le proprie instancabili fatiche, ed eravamo lieti e felici. La casa di mio padre fu costruita con l’aiuto dei suoi amici. E lui e i miei fratelli, a loro volta, aiutarono i vicini a ricostruire la loro. Lo facevano, entusiasti, quando la sera tornavano dal cantiere o di domenica, e la loro grande euforia cancellava ogni stanchezza. A volte suonava la mezzanotte e loro erano lì, ancora ad aiutare. E il giorno dopo erano puntuali al lavoro nel cantiere del padrone, alle cinque in punto.
Non ho mai visto in quei tempi così tanta gioia, orgoglio e fierezza dipinti sul volto di mio padre e dei suoi amici quando festeggiavano un lavoro finito, tirato su dalle macerie.
La generazione nata dopo quella data non ha potuto vedere la catastrofe dei bombardamenti, la distruzione di millenni di storia, le atrocità e le nefandezze, i tradimenti, i bavagli a chi aveva voce per poter scrivere e svelare alla popolazione la verità mostruosa, le famiglie ebree distrutte, umiliate e poi fatte sparire nel fumo dei forni crematoi, gli omosessuali e i nomadi perseguitati, le persone per bene che amavano il prossimo e l’Italia fucilate, uccise o mandate al confino o fuggite all’estero e poi ricercate e fatte uccidere perché denunciavano l’odio razziale che piano piano s’era insinuato nella società disorientandola e manipolandola.
Fatti crudeli e abominevoli, imposti alla popolazione, che, leccandosi le ferite, era appena uscita, da un’altra triste e miserabile guerra, quella del ’15-‘18, che aveva fatto milioni di morti, non solo nelle trincee ma con la fame, con la tubercolosi, le pandemie come la ‘Spagnola’, il colera. C’erano dovunque milioni di invalidi, storpi, ciechi, muti e pazzi. E ora il fascismo voleva fare accettare alla popolazione un’altra guerra infinitamente ingiusta con alleanze anomale e malvagie.
Una guerra atroce che produsse orrori infiniti: Paesi interi dati alle fiamme insieme a donne, vecchi e bambini, colpevoli di essere stati generosi, di aver ospitato, sfamato o nascosto qualcuno che lottava per la libertà. Non credo si possa immaginare cosa furono gli anni di quella guerra: fa male al solo pensiero di averla vissuta. E coloro che potevano contrastare tale infamia, che si sentivano in dovere di fare qualcosa, fuggirono sulle montagne dove il nemico potente li andava a scovare, torturandoli fino alla morte perché facessero il nome dei loro compagni, o chiudendoli nelle tradotte che li portavano in Germania a morir di fame negli ignobili e scellerati Lager.
Ho visto ragazzini di sedici anni uccisi e poi gettati nei fossi ed altri ancora impiccati agli alberi dei viali lasciati bruciare al sole poiché non potevamo dare sepoltura: dovevano, le loro salme deturpate, servire come esempio alla popolazione. Furono anni bui, empi e vergognosi, col feroce terrore dentro di noi. E alla fine arrivò anche un’arma micidiale e sconvolgente, la bomba atomica, che avrebbe potuto distruggere una volta per tutte il mondo intero. Quando dopo numerosi misfatti, disastri, infiniti lutti e afflizioni, tutto finì, lasciandoci più poveri, straccioni, e senza tetto in mezzo a strade piene di macerie, il dolore era talmente grande che per poterne parlare dovemmo aspettare anni prima di sapergli rendere testimonianza e raccontarlo, tutto fino in fondo.
Per poter continuare a vivere lo dovemmo umiliare e rimuovere soffocandolo dentro di noi. Avvenivano dentro di noi, sperduti nel terrore, sconvolgimenti impressionanti, ma che non hanno mai intaccato o cambiato i nostri più alti sentimenti e che non ci fecero mai mancare il coraggio di sognare che giorni più luminosi sarebbero giunti. La speranza non ci lasciò mai soli.
Che cosa sia una guerra mondiale e come si possa accostarla al dolore vissuto dai nostri cari, che il mostruoso virus si è portato via, non è assolutamente possibile. Il terribile morbo, che si è insinuato in tutta la popolazione mondiale, ha le pacifiche e fastidiose sembianze di una banale influenza. Nessuno poteva sospettare la sua sadica e crudele ferocia. A fine inverno infestò nel giro di pochi giorni ospedali, pronto soccorsi, strutture sanitarie, ospizi per lungodegenti, case di riposo per anziani ed entrò negli aeroporti, nei treni, nei luoghi pubblici e nelle nostre abitazioni, con la furia devastante di un oceano che frantuma barriere e dilaga mostruosamente per affermare la sua sete insaziabile e, laddove non riusciva ad uccidere, lasciava lo sgomento, l’orrore e la paura. Nessun farmaco, nessun vaccino, niente poteva stoppare la sua virulenta e sanguinosa follia. Non ci restava che chiudersi in casa come già lo aveva fatto la Cina, da dove il virus era arrivato. Le disposizioni erano che nessuno poteva uscire di casa o entrare tranne che per curare malati o rifornire di cibo bambini ed anziani. La notte stessa che da noi si emanò il decreto di chiusura totale, mi ricordo che rimasi incollata al televisore che continuava a dare notizie terrificanti, che il terribile virus, un attimo dopo, le rendeva incontrollabili, incontenibili, e già sorpassate. Il misterioso morbo aveva nell’attaccare la velocità di una meteora ed il suo potenziale distruttivo non si arrestava di fronte a nessuno.
Intervenne l’esercito. E quando vidi le fila di camion militari, coperti da teloni mimetizzanti, carichi di salme, girare per le strade alla ricerca di un luogo per dar loto sepoltura, poiché i cimiteri, e gli inceneritori erano al collasso, credetti che Dio si fosse dimenticato di tutti noi. I focolai dell’infezione continuavano a moltiplicarsi paurosamente; la città era desolatamente deserta e l’urlo incessante delle sirene delle ambulanze inquietava e metteva angoscia e spavento.
Lo sconosciuto continuava a fare vittime non solo tra i nostri anziani congiunti, che se ne andavano in silenzio senza un saluto ai, e dai, loro cari, ma iniziava la sua vendetta anche tra gli operatori sanitari, i medici e tutti coloro che non avevano alcuna protezione, per stare accanto a chi si ammalava. Mancavano le mascherine, i guanti, il disinfettante, le cose più elementari per stare accanto agli ammalati e tentare di curarli. I primi giorni furono un vero e proprio incubo, poiché il virus, arrivando micidiale come una furia, non aveva dato il tempo a nessuno di organizzarsi.
Mi consideravo estremamente favorita dalla sorte, poiché due dei miei figli risiedono nella città in cui vivo, e il più grande mi portava la spesa, che acquistava al supermercato e, se avevo necessità, mi comperava le medicine in farmacia, unici negozi rimasti aperti insieme alle edicole dei giornalai; ma dentro, mi tormentavo per la paura che potesse infettarsi e i sensi di colpa mi facevano pensare che era meglio morire di fame piuttosto che gli succedesse qualcosa. I fioretti in quei giorni furono tanti, ed il cibo, le medicine, ed i giornali, non mi mancarono. Quando mio figlio suonava al citofono aprivo la porta di casa, lui saliva le scale, appoggiava la borsa nell’entrata e se ne andava. Avevo una voglia di abbracciarlo (ma gli abbracci erano proibiti) di chiedergli scusa, di ringraziarlo. Quando tossiva avrei voluto chiedergli come stava, ma lui si girava scendendo le scale con i suoi guanti e la mascherina che gli avevo cucito poiché quelle chirurgiche ancora mancavano. Quasi quasi non lo riconoscevo. Dio ti benedica ed abbia cura di te, dicevo mentalmente.
Non mi restava che pregare. Agli inizi avevamo paura di tutto, anche di parlarci poiché non sapevamo ancora dove il virus si annidasse e come si propagasse. C’erano giorni di pioggia e di freddo, sapevo che doveva fare lunghe code, distanziate, poiché avvicinarsi alle persone era vietato, per acquistare le scorte. Il tempo inclemente, si era messo dalla parte dello sterminatore.
Per far diminuire la sanguinosa pandemia che stava infettando a velocità spaventosa la popolazione, ci dissero di stare chiusi dentro casa. Le farmacie per chi poteva curarsi in famiglia, rimasero aperte anche la notte. Le scuole furono chiuse, ma la scuola che i nostri ragazzi seguivano da casa, con i video, era altrettanto scomoda: non c’erano relazioni, scherzi, giochi ma solo faccine grandi come francobolli sui monitor dei computer. Certo, chi aveva voglia di imparare poteva farlo, anche se non era proprio come frequentarla, e il disagio, per coloro che non avevano tecnologie simili a disposizione, era davvero assoluto. Le scuole di quando ero ragazza io erano state devastate, invece, dalle bombe, e gli alunni, fuggiti di casa con le proprie famiglie per i bombardamenti, restavano chiusi al freddo in vecchi fienili dove la sera non ci si spogliava per il gelo e la fame, disumana, rodeva le viscere. Ci si addormentava con gli incubi dei bombardamenti e ci si svegliava coi morsi della fame. Il giorno dopo nei campi a cercare erbe da mettere sul fuoco, o qualche piccola pannocchia dimenticata dal contadino tra le stoppie dei campi.
La scuola fu presto dimenticata, forse l’avremmo ripresa nel dopo guerra? Non tutti lo poterono fare.
Nei quasi novanta giorni in cui lo sconosciuto virus ci incarcerò nelle mura domestiche, ognuno dovette arrangiarsi come meglio poteva. Una mia amica a cui poco tempo prima della pandemia era mancato il marito, dovette trasferirsi in un’altra città, dove viveva la figlia. Aveva trovato un’ottima casa di riposo per anziani in quella città. Ci lasciammo con grande tristezza. Per lei il dolore fu doppio: dovette lasciare al cimitero il suo sposo, la casa di una vita, la sua città, gli amici. Ci siamo sempre telefonate. Quando ci chiudemmo in casa lei mi disse che la dirigenza della struttura dove viveva era stata molto drastica: non lasciavano entrare e uscire nessuno.
Non un parente fu ammesso a visitare i propri cari, e non un solo ospite avrebbe potuto varcare la soglia per uscire. Fu la sua fortuna, nessun contagio fra gli ospiti si manifestò né durante i giorni caldi dell’epidemia né tuttora. Aveva una sorella più giovane, ricoverata in un ospizio per lungo-degenti nel comune di Alessandria, che morì nel bel mezzo della pandemia. Era stata ricoverata per degli esami ospedalieri di routine, e se ne andò improvvisamente il giorno dopo insieme alla sua vicina di letto che da tre giorni era ricoverata col corona virus, senza poter incontrare o salutare nessuno dei suoi cari. Ora, lo sconosciuto si è un po’ allontanato. Si può uscire di casa con la mascherina, le scuole sono ancora chiuse ma i negozi stanno riaprendo, ed i miei nipoti, i figli dei miei figli mi mandano le foto dei loro bambini, che stanno frequentando la scuola on line da casa.
Sembra tutto molto bello, hanno i loro genitori seduti accanto.
Il mio pensiero va ai ricordi di una orribile guerra che ci ha fatto perdere la scuola, la casa ed i nostri anni migliori, ma confrontando quel periodo con quello che vivono i miei pronipoti, penso che questo sia molto meglio. Se considero la scuola della nostra generazione con quella di ora, osservo però una grande differenza; la nostra era molto più povera, e la maestra ci insegnava che era nostro dovere dividere ogni cosa coi compagni. Quando qualche alunno senza possibilità di comprarsi i quaderni rimaneva senza, i compagni facevano a gara per staccare dalle graffette i fogli nel mezzo del proprio per poterli donare al compagno bisognoso. Nella scuola di oggi, non noto nessun sacrificio, c’è poca solidarietà, nessuna sopportazione, molta, troppa, opulenza e tantissima ingiustizia. Ci sono ancora bambini poveri che non possono mangiare alla mensa coi compagni e non hanno i mezzi per potersi comprare i libri di scuola, poiché alla famiglia mancano i mezzi necessari per poter vivere. Ma questa è un’altra storia direbbe qualcuno.
Ricordo, soprattutto nell’inverno del ’44-‘45, con la neve e il ghiaccio, che se qualche fuggitivo che si nascondeva sulle montagne, braccato dai tedeschi, infreddolito con indosso ancora i vestiti d’estate, bussava alla nostra porta, mia madre come altre madri di allora non lo lasciava andar via senza prima coprirlo, rifocillarlo anche a costo di far saltare a noi il nostro misero pranzo, e rischiare la deportazione di tutta la famiglia. Si aveva poco o niente ma si divideva tutto. Ora non ci manca nessuna cosa, abbiamo troppo, abbiamo tutto, ma le persone non sono più solidali come allora.
Il virus mortale circola più lento di qualche mese fa, ma è ancora in agguato e le persone impazienti fanno pressione affinché sia aperto tutto come prima. A centinaia protestano perché trovano insopportabili le mascherine che servono come deterrente contro il morbo. A volte penso che le persone siano come i bambini. Non sono mai cresciute. Vogliono gli aerei, le navi, i treni gli alberghi, le vacanze, vogliono tutto, pensano che la loro sofferenza, in questi mesi, sia stata troppa.
Credo che questa sciagura, per chi ha avuto delle perdite, sia stata un dolore immane che non si dimentica, e grande ed ingiusta sia stata la dipartita di chi si è donato per tutti noi, tra l’indifferenza di chi ancora protesta per il solo fatto che non può divertirsi e vivere come prima della pandemia. Sicuramente avranno sofferto moltissimo, ma non si dica che questa esperienza è stata vissuta al pari di una guerra, come alcuni affermano.
Avrebbe dovuto, questo insidiosissimo e letale morbo, per il tanto dolore lasciato, disseppellire in noi la solidarietà e la capacità di aprire il cuore alla misericordia. Invece apri un giornale o accendi la televisione e vedi che coloro che ci dovrebbero insegnare la solidarietà litigano come prima della pandemia.
Il conflitto, che hanno vissuto i nostri cari (i sopravvissuti della Seconda Guerra Mondiale) quando erano giovani e che uno sconosciuto assassino ha portato via lasciandoci più poveri e privi della loro sapienza, saggezza, della loro memoria, e del loro amore, è il peggior male che potesse accadere oggi. Il virus, colpendo loro ha colpito una parte, spesso bella e nobile, dell’umanità ma non ha voluto portarsi via la parte cattiva: l’egoismo e l’odio. Il morbo però ha colpito, e può colpire ancora tutti in egual misura senza guardare nessuno. Dovremmo perciò aver cura di noi, poiché non è del tutto sconfitto. I focolai continuano ad esistere altalenandosi.
Nella grave situazione in cui ci siamo trovati, non sono mancati di risplendere la grandiosa compassione degli uomini e l’altruismo di tantissimi volontari che si sono donati fino a morirne. A questi siamo tutti debitori. Eppure, non è possibile equiparare la guerra a nessun altro inferno. La guerra ti travolge, ti stravolge, ti uccide dentro, ti fa cambiare e non ti toglie la memoria della misericordia e dei buoni sentimenti, che nei grandi e dolorosi conflitti fa brillare talvolta gli umani come gemme lucenti. Il virus, già ora, che lento ancora continua, lo si può con dolore raccontare.
In tutte le grandi pandemie che hanno sconvolto la storia, l’uomo ha saputo con grande fatica risollevarsi. Il dolore del virus, che non ha saputo portarsi via il nostro egoismo, lo stiamo già dimenticando, mentre avrebbe potuto farci riflettere sui mali e le gravi ingiustizie del mondo, e donarci, e lasciarci, più fratellanza, più uguaglianza e più amore.
Non conosco altri sentimenti capaci di rendere l’uomo migliore.
Metteremo a dimora/
Piante di rossi melograni/
E la loro delicata ombra/
Sarà leggera/
Sulla terra/
In cui dormiranno.
Lina Salvori Pivetta: ha 92 anni e ha pubblicato due libri di memorie autobiografiche : La riva dei fiori scarlatti e Il giardino delle libellule.