D. È ancora possibile sostenere al giorno d’oggi quanto affermava Berkeley, ossia che “certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprire gli occhi per vederle?”.
Per tanti secoli, siamo stati convinti del “fatto” che la verità fosse altrove, persino l’altrove: nel regno dei cieli, nelle tavole della legge incise col fuoco su tavole di pietra consegnate a Mosé sul monte Sinai, nella società perfetta, dell’abbondanza o a rischio zero. Da un punto di vista socio-antropologico, l’inaccessibilità del vero, la sua non immediatezza, ha consentito la proliferazione e la legittimazione di agenzie di socializzazione, dispositivi e strutture in grado di scoprirla, interpretarla e quindi trasmetterla agli individui. Tali “ordini del discorso”, secondo le parole di Michel Foucault, sono appannaggio di élite che si avvicendano nella storia secondo lotte di classe (per Karl Marx), cambiamenti di paradigma (come suggerisce Thomas Kuhn), cicli economici (in accordo con il pensiero di Fernand Braudel), leggi mediologiche (nella prospettiva di Marshall McLuhan) e altri modelli psicologici, culturali e sociali che, pur nelle loro sfumature, confermano la distanza e la separazione tra il corpo sociale, la vita quotidiana e l’ordine della verità con ciò che esso implica in quanto conoscenza.
In una condizione del genere, l’Occidente ha steso un velo di sospetti e censure nei confronti delle immagini considerandole superficiali, illusorie o addirittura mendaci, suggerendo in modo perentorio di diffidare da quanto sembra evidente alla ricerca di profondità abissali ovvero di verità astratte. In tal senso, ancor prima di esercitare una qualsivoglia critica contro tale o talaltra ideologia, è utile operarne una nei confronti di ogni “ideologia” in quanto trasfigurazione astratta della realtà in nome di una porzione di verità tradotta in verità universale per mezzo di un artificio retorico! Con ciò, intendo fornire delle chiavi di letture per interpretare il disagio da noi avvertito, ieri ed oggi, a constatare l’ordine delle cose per ciò che è, nella sua natura trasparente e cristallina.
Solo in tempi più recenti, in effetti, iniziano ad emergere una visione scientifica e una forma di conoscenza, in linea col senso comune – la “ragione sensibile” evocata da Michel Maffesoli – in grado di legittimare un rapporto più disinvolto e diretto, scevro di mediazioni, con la verità, ovvero con il vissuto. Il percorso è stato preparato, in termini filosofici, dalla filosofia che parte da F. Nietzsche, nel suo riconoscere il “sentire pensante”, quindi la saggezza del corpo, e giunge fino a M. Heidegger, allorché precisa che la verità è a nostra disposizione a patto di essere pronti a svelarla, tramite un’azione analoga a quando si rimugina la terra per portarne alla luce gli elementi latenti. È una metafora preziosa giacché prefigura un sentiero al contempo agevole e impegnativo: possiamo innescarlo e accedervi purché ne riconosciamo e integriamo il processo.
Dal punto di vista sociologico, un’insorgenza del genere non sarebbe stata possibile senza più di tre secoli di cultura di massa intesa non tanto per i suoi contenuti quanto per la sua dimensione mediologica. Alberto Abruzzese ha usato una formula brillante per suggellare lo scenario a cui siamo giunti: “Solarizzazione delle masse”, affioramento, emergenza, insorgenza dopo essere state gettate nella radura. Radura delle metropoli, delle fabbriche, delle periferie urbane… La fine delle grandi narrazioni universali, annunciata da Jean-François Lyotard alla fine degli anni 70, è pertanto il corollario della proliferazione di forme di verità locali, parziali, marginali, in corso di eruzione dal basso, dal vissuto, dal quotidiano. Se la televisione è stata un mezzo di passaggio fondamentale per un passaggio del genere, le reti digitali e in particolare i social network ne sono il punto di svolta.
Siamo al compimento di una lunga traiettoria che implica un rapporto diverso con l’esperienza. Affrancati dallo spettro di diversi pensieri unici e totalizzanti, quelle verità universali che spiegavano la storia e la vita al posto del vivente, sostituendosi agli individui, ci troviamo ora immersi in una nebulosa confusa di dati e interpretazioni tra loro in perenne conflitto, diffusi in modo spasmodico ed accelerato da ogni dove, nell’ambito di uno spazio-tempo iper-reale ed ubiquo, che inducono sovente a una sorta di schizofrenia, disturbi di attenzione, stress, ansia e sentimento di impotenza e di precarietà esistenziale.
Marx ed Engels avevano descritto la loro epoca come il periodo in cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Oggi siamo parte di quel “tutto”. Fino a qualche anno fa, l’immaginario della liquidità, così come proposto da Z. Bauman, lasciava presagire una certa leggerezza dell’essere. Il suo peso appare invece oggi, invertendo il titolo del celebre romanzo di M. Kundera, insostenibile. Ci sono troppe cose da vedere perché esse siano chiare, innumerevoli messaggi da ascoltare, fatti da interpretare, fonti da selezionare, post da commentare, swipe right o left da selezionare… Così, paradossalmente, mentre tutto è immediatamente a nostra disposizione e noi siamo a disposizione di tutto, non siamo più disposti a seguire tutto – e ci siamo persi, abbiamo smarrito il nostro “io”. Legati a tante alterità tramite catene senza fili. Forse allora non è più il caso di “aprire gli occhi” ma di richiuderli e di sentire e sentirsi altrimenti…
D. La coscienza si nutre continuamente di ciò che esterno, lavora sull’incorporazione dal fuori al dentro. Ciò che viene incorporato lascia tracce ed impressioni che della coscienza ne costituiscono l’essenza stessa. Ed allora insieme al diritto della conoscenza si può parlare anche di un diritto alla memoria?
Siamo una società obesa abitata da individui obesi di informazioni. La dinamica tra il fuori e il dentro da te evocata risponde alla logica del flusso e rientra nel paradigma del consumo e della dissipazione: con la bocca spalancata in modo grottesco, divoriamo dati senza processarli o meglio lasciandoli processare agli altri: la matrice, le reti, gli algoritmi, gli influencer, streamer, youtuber… Avvalendomi della metafora informatica, il nostro hardware non è più in grado né di sostenere tale mole di dati, né di filtrarla, contestualizzarla e interpretarla, per cui siamo consciamente e soprattutto inconsciamente disposto a trasferirla altrove: in memorie esterne, cloud e processori delocalizzati di vario ordine, dalle chiavi USB agli archivi della Silicon Valley. L’esternalizzazione della nostra coscienza, secondo McLuhan e nelle parole del Dottor O’blivion di Videodrome (Cronenberg, 1983), era già stata avviata con la televisione. Anche in questo caso, essa si compie definitivamente nell’ambito della cultura digitale, per cui siamo quasi totalmente esonerati dal compito di pensare, archiviare informazioni e persino conoscere! Gli algoritmi dispiegati in modo diffuso attorno a noi stanno tessendo nodi neuronali autonomi che fanno a meno degli individui e li rimpiazzano. Ecco ciò per cui Black Mirror è un ritratto fedele della nostra epoca: nel suo segnalare la nostra vita quotidiana in quanto distopia realizzata, realissima!
La memoria non ci appartiene più. Tuttavia, potremmo riattualizzare l’intuizione di Maurice Halbwachs sull’esistenza di una memoria collettiva che precede ed eccede quella individuale. Essa è oggi ulteriormente presente ed assume sembianze post-umanistiche, nel senso che non è più semplicemente depositata in uno spirito collettivo o nel paesaggio storico e naturale, ma anche e soprattutto in sistemi informatici, totem digitali ed altri artifici elettronici. A mio avviso, il soggetto che abbiamo lasciato alle spalle dal XX al XXI secolo non è destinato a resuscitare, né può essere guarito. “L’uomo è obsoleto”, scriveva Gunter Anders a metà del Novecento. Invece di riesumarne l’anima e le forme, potremmo invece impegnarci a convivere con i paesaggi e le creature che ci circondano, anche laddove ne siamo avvolti e avviluppati. Il diritto alla memoria consisterebbe pertanto a raschiare libertà di pensiero e di ricordo in sistemi dove non possiamo più né pensare, né ricordare. D’altra parte, consentimi una provocazione, abbiamo fondato per troppi secoli la nostra vita sul voltarci indietro per proiettarci nel futuro da aver sempre dimenticato di abitare il presente. Per tanti aspetti, in un equilibrio precario tra l’euforia e il panico, l’ebbrezza dell’istante e il fascino del carpe diem potrebbero essere utili presupposti per dismettere la corazza dell’io costruita dal Rinascimento e suggellata dall’invenzione e dalla diffusione della stampa, in nome di una nuova carne di cui il soggetto è solo una particella elementare. Abitare la nostra decadenza in modo poetico ci consentirebbe altresì di scoprire cosa sta nascendo in noi, attorno a noi e al di là di noi. Non si tratta più, quindi, di poggiare i piedi sulle terre solide del passato per marciare verso il futuro, ma di tornare a ballare avvinti dall’altro come in un rave party, i piedi sulle macerie, saltellando in accordo col ritmo dei corpi, dei paesaggi e delle macchine circostanti.
D. La conoscenza non può ridursi ad un semplice atto di coscienza. È, invece, un equilibrio precario tra interno ed esterno, tra ciò che so e ciò che non so. Può esserci quindi una conoscenza senza partecipazione?
L’immaginario della conoscenza sorge, almeno dalla Grecia antica, come esercizio atto a delineare i rapporti tra il sé e l’altro da sé nell’ambito di una cornice spazio-temporale ben definita. Per comprendere l’altro, com-prendere, “prendere insieme”, “afferrare con l’intelletto”, è innanzitutto fondamentale il transito verso il “Conosci te stesso”. Così Apollo intimava agli uomini di riconoscere la propria finitezza. Si tratta pertanto di un processo che implica un fecondo andirivieni – potremmo persino chiamarlo “interazione” – tra l’individuo e ciò che gli è esterno. D’altra parte, Socrate considera il dialogo come l’unico metodo per conoscere la verità e accedere alla sapienza. Recentemente, Giorgio Agamben ha giustamente ricordato che in Europa le università sono nate per iniziativa di associazioni studentesche, universitates, caratterizzate da incontri assidui, scambi e socialità. Detto altrimenti, non c’è sapere nel senso più radicato e incorporato senza partecipazione nella sua definizione, interpretazione e diffusione. Occorre pertanto diffidare di forme di conoscenza che innalzino a feticci le pratiche e i metodi fondati sull’astrazione e la solitudine. L’una e l’altro costituiscono procedimenti virtuosi solo se bilanciati dalla sensibilità e dalla condivisione, mentre al contrario conducono a derive di cui l’ultimo secolo di storia non è avaro: l’individualismo esacerbato, la metafisica e la devastazione del mondo.
Nel momento in cui il soggetto sapiente si separa dall’oggetto di studio, radicalizzando il “penso dunque sono” in modo esclusivo e disgiuntivo, tanto da rendere straniero e alieno tutto ciò che non è “io”, ogni alterità è considerata come materia esterna, manipolabile, di secondo piano. In fondo, le bombe atomiche, le guerre mondiali, il surriscaldamento del pianeta, la recente pandemia e tanti altri disastri sociali ed economici sono il frutto perverso di un siffatto umanesimo, quello per cui l’essere umano – autonomo, separato e razionale – è il centro del mondo, al centro del mondo, unico agente che conta, sola fonte di azione sulle cose. Ciò che è avvenuto da Hiroshima a Wuhan fino a Bergamo impone a noi tutti, invece, un atto di umiltà che implica l’urgenza di considerarci “agiti” almeno quanto, se non più di quanto, non agiamo. Donde l’insorgenza di forme partecipative di conoscenza basate sulla conversazione, le affinità connettive, il gioco, il sogno, le leggende, il genius loci… comprese la fenomenologia delle fake news! Cosa indicano, infatti, queste ultime se non il fascino esercitato da un’irrealtà più prossima e situata di ogni schiacciante realismo?! Siamo giunti al paradosso: dato l’aspetto sempre più esoterico, settario e ideologico delle conoscenze ufficiali, il fake appare più reale della realtà proprio in virtù della ricreazione societale da cui sgorga.
D. Ammesso che la libertà sia autodeterminazione, se è vero che è impossibile uscire dal condizionamento esterno fatto da media e social, è ancora sostenibile che la conoscenza possa rendere liberi?
La libertà languisce nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie. Se è vero che il mondo è sempre più a nostra disposizione, a distanza di un clic o di un mero cenno del pensiero, ciò avviene nella misura in cui abbiamo ceduto la parte più consistente di noi alla rete e alle sue derivazioni, solo giacché ci siamo consegnati alle sue mani invisibili senza esserne coscienti, se non con una tendenziale e generalizzata incoscienza. A ben vedere, i problemi indotti dai big data, dal social profiling, dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale in termini di subordinazione, controllo e manipolazione dell’individuo rinviano allo stesso nodo cruciale: l’annientamento del soggetto autonomo e razionale, del cogito ergo sum, a partire dalla violazione della sua intimità, della sua privacy e in nome di qualcosa d’altro: di una carne elettronica tanto inebriante quanto lungi dal corrispondere alle promesse di felicità care all’Occidente.
Nel corpo a corpo generalizzato che investe la nostra vita quotidiana, il mondo che abitiamo, contraddistinguendolo come uno spazio denso e convulso segnato dalla promiscuità tra i suoi elementi – soggetti e oggetti, natura e cultura, spirito e materia – l’alterazione che funge da corollario a ogni rapporto ravvicinato con l’alterità sprigiona effetti parossistici, corrodendo in modo pressoché integrale la corazza dell’io forgiata con tanti sforzi dal Rinascimento alla metà del XX secolo. Siamo talmente invasi dai nostri contatti, accerchiati dalla pletora di persone e sistemi che sollecitano avidamente la nostra attenzione, stonati dal fracasso mediatico da aver perso di vista il nostro baricentro e smarrito, nella confusione instaurata dalla tattilità e dalla prossimità caratterizzanti il ritmo della vita elettronica, il nostro “punto di vista”. Dal Web alla strada, l’intervallo spaziale e temporale tra il sé e l’altro da sé, ridotto ai minimi termini, svela una condizione societale per tanti versi analoga a una specie di orgia permanente, in cui godiamo dell’altrui presenza solo nel darci ad esso, come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort.
La condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei.
Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.
Per molti, la presa di coscienza di una situazione del genere potrebbe condurci ad affrancarcene, in una sorta di liberazione dalle catene che ci avvincono. Non è il mio parere. Credo invece che ci sia qualcosa di volontario nell’alienazione da noi esperita, come se vivessimo l’obsolescenza del soggetto – di noi stessi – con un misto di rassegnazione ed euforia nichilista. Dopo secoli di libero pensiero, produttivismo, progressismo e razionalismo, è come se la condizione di “essere pensati” ed “essere danzati” restituisse un equilibrio organico e una sorta di armonia tra l’individuo, il mondo della tecnica e la biosfera. Ormai è chiaro: non siamo più liberi (anche se dovremmo chiederci: siamo mai stati liberi? Quando? Non è forse più corretto sostenere che abbiamo tanto creduto in una libertà assoluta da sentirci liberi di soggiogare ogni alterità fino a devastarne la natura?). Ciò che rimane, è la vocazione cara alla cultura popolare, alla saggezza, alla furbizia e all’ironia degli oppressi di raschiare libertà laddove non c’è, inseguire il piacere nel dolore, strappare sorrisi tra le lacrime. Ecco la gioia tragica che trasuda dalle nostre vene, tra la vita digitale e le strade. Essa fa sua la caducità dell’esistenza e la nostra dipendenza nei confronti dell’altro sociale, tecnico e naturale. Non mi sembra che un sentire del genere sia alla ricerca della libertà in quanto assoluto, anzi ha dismesso ogni utopia nel frattempo trasformatasi in distopia. La distopia del nostro quotidiano. Così, l’ultima performance artistica possibile – vera e propria libido sciendi – risiede nell’abitare poeticamente l’inabitabile, danzare sulle rovine, rosicchiare libertà interstiziali in mondi impossibili. La pandemia, dopo il terrorismo e le crisi economiche, è stata pertanto l’ultima avvisaglia della crisi della modernità e dell’umanesimo. Siamo già nel post, dopo Metropolis, Blade Runner e Black Mirror, in attesa che dalle macerie sorgano fiori. Da un siffatto oscuro riflettere può sorgere un pensiero luminoso. Non so se ci renderà più o meno liberi, ma forse diraderà il sentiero per essere-insieme.
Vincenzo Susca è professore associato di sociologia dell’immaginario e della comunicazione, direttore del Dipartimento di sociologia e membro del Leiris all’Università Paul-Valéry di Montpellier. Direttore editoriale dei Cahiers européens de l’imaginaire, ha contribuito ad esplorare ed interpretare i rapporti tra media, immaginario e vita quotidiana con una serie di libri, tra cui: Transpolitica (Milano 2008), con D. de Kerckhove; Gioia Tragica (Milano 2010, Parigi 2011, Barcellona 2012); Les Affinités connectives (Parigi 2016, Porto Alegre 2019, Buenos Aires 2021); Pornocultura (Milano 2016, Montreal 2017, Porto Alegre 2017, Buenos Aires 2020), con C. Attimonelli; Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Milano 2020, Montreal 2021), con C. Attimonelli.