Le cure palliative in modalità “queer”

Credits: Sara Linguanti (Saralin Ecoartworks)

di Sandro Spinsanti *

Dove stanno andando le cure palliative? È più che mai giustificato l’interrogativo sul loro futuro. Diversi elementi dello scenario sociale ci fanno immaginare di trovarci a un punto di svolta. Come la crisi di risorse disponibili per la sanità pubblica: riusciremo ancora a garantire servizi estesi a tutti i cittadini, assicurando un’uniforme erogazione dei livelli di assistenza che coprono anche la fase dei trattamenti per le malattie che declinano verso la fine? In una prospettiva di un SSN che, come una coperta troppo corta, viene tirato da tutte le parti, si riuscirà ancora a trovare le risorse per dei servizi che non godono di nessuna spettacolarità? E ancora: come ridisegnare la rete di cure palliative, spostando il baricentro dei servizi nel territorio? La recente introduzione della specializzazione in medicina palliativa nel curriculum formativo universitario si tradurrà in un beneficio per la palliazione o la isolerà ancor più dal contesto generale della cura, facendola diventare l’ennesima specializzazione affiancata alle altre, in un percorso di cura fatto a pezzi? Sono alcune delle questioni che ci preoccupano.

Non sembri una provocazione se ci accingiamo a confrontarci con le sfide del futuro rivolgendo il nostro sguardo verso il passato. Contestualmente alla domanda sul profilo che sta assumendo la palliazione nel contesto delle cure garantite dal nostro welfare state, ci chiediamo: da dove vengono le cure palliative? Naturalmente non stiamo parlando di una ricostruzione storica dell’evoluzione del loro sviluppo; ci limitiamo a una domanda simbolica: le cure palliative vengono da Marte o da Venere? Il rimando è ovviamente al libro di John Gray: Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere (1992), pubblicizzato come il libro sui rapporti di coppia più venduto al mondo. Il pensiero di base è tanto semplice quanto efficace: presuppone che gli uomini e le donne abbiano due diversi modi di pensare, di parlare, di amare; configurano quindi due stili di pensiero e di azione opposti e irriducibili l’uno all’altro.

Pienamente consapevoli che gli anni decorsi dalla pubblicazione del saggio hanno reso quel pensiero dualistico così ingenuo improponibile ai nostri giorni, ci appoggiamo tuttavia alla metafora perché ci aiuta a dar corpo a due diversi atteggiamenti del mondo professionale della cura in generale, e della palliazione in particolare. Indipendentemente da quanto è avvenuto nell’ambito dell’identità di genere, obbligata ormai a confrontarsi con la queerness, il mondo della medicina continua a essere segnato da due atteggiamenti diversi e contrapposti: quello che privilegia il curare e quello orientato al prendersi cura; quello che si riconosce nelle scienze esatte e quello che trae linfa dalle scienze umane; quello che valorizza la biologia e quello che nella cura tiene conto della biografia del malato. Sono, simbolicamente, i due modelli ai quali ci riferiamo evocando Marte e Venere.

Come medicina sotto il segno di Marte ci riferiamo alla pratica di cura che ci stupisce per ciò che è capace di fare: diagnosi accurate, trattamenti risolutivi, capacità di dar scacco alla patologia e assicurare alle persone una lunghezza di vita che le generazioni precedenti non hanno mai conosciuto. È la medicina che si nutre di sapere scientifico e di tecnologie sempre più sofisticate. Sotto il segno di Venere, invece, collochiamo la medicina bella e gradevole, gentile, accogliente; quella che ci stupisce non tanto per le cose che fa, quanto per “come” le fa; quella che, riferendosi a un trattamento ricevuto, fa esclamare: “Mi sono sentito trattato proprio in modo degno e rispettoso”.

Per insistere ancora sul bipolarismo, la medicina che viene da Marte e si nutre di scienze esatte può essere sintetizzata come la medicina che “conta”, mentre l’altra, pervasa di Medical Humanities, è la medicina che “racconta”. La prima ha il suo modello ideale nell’Evidence Based Medicine, la seconda nella Medicina Narrativa. Appoggiandoci alla sintesi offerta dal neuroscienziato Fabrizio Benedetti, abbiamo questi due scenari di fondo:

<<La scienza non fa altro che misurare. Misura l’Universo, le stelle, i pianeti, le montagne, gli oceani, gli animali, l’uomo, le cellule, le molecole, gli atomi. E per far ciò usa la matematica, da quella più complessa, come la teoria della relatività, a quella più semplice, come il numero delle cellule in un tumore. Tutte le misure devono passare test statistici per verificare se ciò che è osservato non sia frutto del caso. In base a una o più misure si cerca di costruire una teoria che spieghi il perché delle cose>>.

Questa è la scienza spiegata in dieci righe.

L’Umanesimo, come la scienza, cerca di capire l’uomo e l’Universo ma, a differenza della scienza, non usa misure. Si basa invece sulle attività, la creazione, la storia e il pensiero dell’uomo. L’umanesimo dunque si incentra sull’uomo, sulle sue opere letterarie, artistiche, sociali, scaturite da sentimenti interiori e profondi, come l’amore, l’odio, il dolore, l’angoscia, l’entusiasmo, l’euforia, la tristezza, la paura, il terrore, la gioia. Descrive eventi passati, presenti e futuri usando l’arte nelle sue varie forme, la scrittura, le parole.

Questo è l’umanesimo spiegato in dieci righe (Benedetti, 2013).

Per quanto riguarda il dimorfismo di genere, siamo diventati sempre più consapevoli che può costituire una trappola. Senza per questo voler perorare la disforia sessuale, è necessario rendersi conto che il modello bipolare incide negativamente sulla percezione della realtà. Enfatizza certi aspetti, oscurandone altri. Ciò vale anche quando lo assumiamo come metafora per decidere da dove vengono le cure palliative.

La pratica medica collocabile sotto il segno di Marte si è fondamentalmente ritenuta estranea alla palliazione. “All’inizio, i palliativisti sono stati visti con freddezza, quando non con ostilità, dall’establishment medico”: è la sintesi offerta dal sociologo Marzio Barbagli nel saggio dedicato al morire in Italia (2018). Ricostruendo la reazione del mondo sanitario che si riconosceva unicamente nella medicina che combatte eroicamente, senza mai desistere e senza offrire diritto di cittadinanza in medicina al concetto di inguaribilità, Barbagli riporta il vissuto di Franco Toscani, un palliativista della prima ora: <<Per molti anni non siamo stati considerati come professionisti, portatori di un sapere diverso, criticabile, ma come una specie di medici scalzi, di medici buoni, di missionari>>. La convinzione che circolava negli ambienti medici ufficiali era che il medico che pensasse che esistono dei malati inguaribili fosse un medico fallito. Le cure palliative – per riportare le parole di un oncologo che osteggiava in maniera caricaturale i palliativisti – consisteva nel fare le carezzine sulle mani dei malati… Più radicali nell’ostilità erano coloro che accusavano i promotori delle cure palliative di introdurre in medicina, più o meno surrettiziamente, il ricorso all’eutanasia; e perciò consideravano la palliazione contraria all’ethos ippocratico.

La medicina che discende da Venere rischia anch’essa di rendere caricaturali le cure palliative, anche se con categorie opposte. Enfatizzandone, per esempio, la dimensione attribuita in maniera stereotipata alla femminilità. La fondatrice Cecily Saunders, a questo proposito, viene non di rado “agiografizzata” evidenziando l’empatia e l’umanizzazione della sua proposta, a scapito degli aspetti più ruvidi del suo comportamento nei confronti delle pratiche sanitarie. Nella realtà Saunders è stata molto combattiva nel portare all’interno delle cure palliative l’attenzione alla terapia del dolore, facendo ricorso all’uso efficace e appropriato di farmaci oppiacei. La femminilizzazione del suo profilo ricorda da vicino quanto è avvenuto con Florence Nightingale. La fondatrice dell’infermieristica moderna è stata celebrata con l’immaginetta della “Dama con la lanterna”, con cui vigilava nottetempo sui malati ricoverati, passando di letto in letto, nell’epoca della guerra in Crimea. Niente di più fuorviante: Florence era stata celebrata in alcuni articoli giornalistici come la “Dama con il martello”; nell’ospedale militare, infatti, aveva scassato con il martello la serratura di un deposito in cui un sergente aveva sequestrato farmaci e risorse sanitarie indispensabili per curare i malati. La stampa ritenne inopportuna l’immagine e sostituì il martello con la lampada, molto più appropriata a una donna… Quando le cure palliative sono ricondotte sotto il segno di Venere, rischiano di venir decurtate di quanto si ritiene più appropriato alla maschilità marziale, enfatizzando tratti che vengono ricondotti a una femminilità impregnata di dolcezza e di sentimenti umanitari.

Merita conto soffermarsi sulla modellizzazione dualistica che le cure palliative possono aver interiorizzato dalle modalità contrapposte di concepire la cura nel passato: quel dualismo, infatti, potrebbe proiettare un’ombra lunga anche sul presente. E sul futuro sviluppo della palliazione. Guardare nello specchio retrovisore del recente passato come si sono sviluppate queste cure nel corpo generale della medicina non è un vezzo: la permanenza di certi modelli potrebbe incidere sulla pratica attuale e condizionare l’evoluzione della palliazione nel prossimo futuro. Se la medicina che “conta” (che si fonda sull’evidence e sulla scienza) e quella che “racconta” sono vissute come contrapposte e inconciliabili, abbiamo quella tipologia di curanti che un saggio del clinico internista Claudio Rugarli qualificava come “medici a metà” (2017). Ovvero – per appoggiarci alla molto enfatizzata immagine della cura come un Giano bifronte – come due figure che si voltano le spalle, ignorandosi o disprezzandosi reciprocamente.

Esiste una pratica della cura che è orientata a prolungare indefinitamente gli interventi, ignorando la saggezza del limite o squalificandolo come rinuncia alla vita. “Ti curerò senza arrendermi mai”: è uno dei tre impegni che fanno parte di un giuramento dei medici proposto dalla FNOMCeO nel periodo della crisi del Covid, con lo scopo di rinnovare il patto tra curanti e cittadini (giurando contemporaneamente di “curare tutti senza discriminazione” e che il medico avrà cura del malato in ogni emergenza). Con il giuramento di “non arrendersi mai” il medico sembra volersi schierare contro una cura in modalità palliativa, che richiede la rinuncia a quell’atteggiamento che si era soliti chiamare accanimento terapeutico e che la legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento ci invita a ribattezzare come: “ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”.

Una variante dell’atteggiamento oltranzista consiste nel suddividere il campo della cura in due territori distinti, a gestione differenziata: il curante – specialista d’organo a cui il malato ha fatto ricorso per la patologia che l’affligge: l’oncologo, il cardiologo, il nefrologo, il pneumologo… – prosegue i trattamenti fino al momento in cui è costretto a riconoscere che non ci sono più risorse curative efficaci; a questo punto dichiara che il malato non è più di sua competenza e nella staffetta della corsa il testimone passa al palliativista. In estrema sintesi: “Non c’è più niente da fare: chiamate il palliativista”. E questo perché il malato è dichiarato “terminale” (con prevedibili conflitti tra curanti, determinati dalla valutazione che “è troppo presto per chiamare il palliativista” e orientati a rimandare il più tardi possibile il momento in cui il malato debba essere assegnato al palliativista). In questo atteggiamento è inevitabile vedere proiettarsi l’ombra della medicina che viene da Marte, che considera disonorevole la resa, come tratto di lesa maschilità, lasciandola semmai alla medicina sotto il segno di Venere e della femminilità.

Corrispettiva a questa suddivisione del territorio di cura in due ambiti che si susseguono l’uno all’altro è la resistenza a identificarsi con i professionisti della palliazione. Soprattutto se questa è fatta equivalere alla specialità che consiste nell’accompagnare nel percorso del morire, per cui essere affidati all’équipe che pratica la palliazione è percepito come equivalente a una sentenza di morte imminente. La questione è determinante per il futuro delle cure palliative. “Che tipo di palliativista mi chiedono di essere?”: lo scenario è diverso se la palliazione è intesa come una modalità della cura, distribuita in un processo che si articola nel tempo dell’evoluzione della malattia, oppure se la palliazione è concepita come un’attività residuale, riservata a quando i trattamenti attivi si arrendono e gli altri professionisti si ritirano. Si tratta fondamentalmente di assumere in modo preliminare una postura, ovvero con che tipo di palliativista ci si identifica.

 <<Prima o poi arriva il momento di decidere che tipo di medico essere. Non in senso tecnico, per esempio se vuoi diventare urologo o neurologo, ma per quanto riguarda il tipo di atteggiamento che vuoi avere con i pazienti>> (Kay, 2018). Sono le parole formulate in modo ironico da uno specializzando in ostetricia, che vede davanti a sé la scelta di un modo di essere in quanto professionista (“Sei sorridente, simpatico e ottimista? Silenzioso, contemplativo e scientifico?”). La scelta diventa determinante quando la spostiamo sulla postura da assumere come palliativista. Collocarsi nel solco bipolare di una medicina che si sviluppa nel segno di Marte o in quello di Venere è completamente diverso dal contestare questa suddivisione e rivendicare la cura come un processo unitario. Accettare di essere quel professionista che subentra quando la medicina curativa batte in ritirata è molto diverso da cure palliative concepite come simultanee e complementari agli interventi curativi.

Non diversamente da come contrapporre l’identità sessuale che viene da Marte a quella che viene da Venere può avere esiti caricaturali, con un maschilismo e una femminilità estremizzati, allo stesso modo le due modalità di cura, intese come antagoniste, si traducono in una deformazione della cura stessa. Il futuro della cura in modalità palliativa richiede anzitutto il rifiuto dell’alternativa o – o (che nel piano dell’identità di genere corrisponde a un binarismo senza alternative). Bisogna invece insistere sull’integrazione dei due aspetti della pratica medica: e – e. Con la stessa audacia con cui Michela Murgia auspica una prospettiva queer in ambito teologico: God save the queer (è il titolo del suo testo del 2022) – incoraggiati anche dal fatto che il paternalismo e il maschilismo che imperano nell’ambito sanitario non hanno nulla da invidiare a quelli che caratterizzano la Chiesa – , osiamo proporre un orizzonte di queerness in medicina, che superi la prospettiva binaria e la richiesta di definirsi in un modo o nell’altro: in questo caso, una pratica della cura sotto il segno di Marte oppure sotto il segno di Venere.

La queerness si presenta proprio come un “mettersi di traverso”, secondo il significato etimologico del termine tedesco originario, ai modelli standardizzati e concepiti come contrapposti. Se il binarismo di genere e di orientamento identitario è quanto meno una cosa culturalmente obsoleta, in ambito medico si traduce in una violenza che mutila la medicina stessa. La queerness non è solo il superamento di un pensiero rigidamente binario. Comporta l’avventurarsi in un terreno fluido che offre inaspettate possibilità di combinare aspetti della realtà non più intesi come contrapposti. Per quanto riguarda l’ambito medico, abbiamo bisogno infatti di una pratica della cura che sappia combinare gli interventi attivi (ma sempre nella consapevolezza che: “Fare di più non significa fare meglio”…), sia quelli orientati verso la qualità della vita e il contrasto ai sintomi che la compromettono. Che cosa diventa la cura quando si libera del binarismo e accetta la compresenza di principi considerati opposti? Le cure palliative in modalità queer possono farcelo scoprire. È verso questa palliazione che guardiamo fiduciosi.

Uno dei tratti fondamentali delle cure palliative del futuro sarà il dissociarsi dal modello della palliazione come trattamento residuale, da affidare a uno specialista che prende il posto occupato precedentemente da un altro specialista d’organo. Sarà un compito fondamentale nel disegnare le reti di cure palliative. Pensiamo al trauma che incombe sul malato nell’essere abbandonato dallo specialista che magari per anni si è occupato della sua patologia, per essere affidato alle mani del palliativista, inevitabilmente visto come lo specialista che si occupa del morire. Anche per questo già oggi – come testimoniano non pochi operatori dell’ambito palliativo – è diffusa l’abitudine di non menzionare neppure il palliativista e la sua specialità; ai malati vien detto che sono ora affidati al “medico che si occuperà di loro a casa”, quando non addirittura che passano in mano al “riabilitatore”.

Intimamente connesso con il tema della cura in due tempi, ovvero la palliazione che subentra quando gli interventi curativi si arrestano, è quello della preparazione necessaria per gli operatori sanitari. Se si mantiene il modello residuale, la competenza palliativa potrebbe essere richiesta solamente a coloro che intervengono nella fase finale. A questo proposito cade opportuno citare l’argomentazione retorica utilizzata da Gian Domenico Borasio nel contesto di una commissione legislativa del Parlamento tedesco incaricata di redigere una legge sul testamento biologico. Come riporta lo stesso illustre palliativista nel libro Saper morire (2015), l’esperto iniziò il suo intervento, con cui perorava la necessità di garantire la formazione nelle cure palliative a tutto il personale sanitario, evocando uno scenario inquietante:

<<Onorevoli membri della Commissione! Sono anni che permettete che il 90% degli studenti di medicina tedeschi conseguano il loro titolo senza ricevere la benché minima nozione di medicina palliativa e di accompagnamento al fine vita. Così facendo accettate in piena consapevolezza che al termine della vostra vita avrete il 90% di possibilità di finire esattamente nelle mani di uno di quei medici. Un comportamento che definirei quantomeno autolesionistico>>.

Ci sono naturalmente delle competenze specifiche che sono richieste agli specialisti di cure palliative: pensiamo ad esempio alla sedazione profonda e al trattamento di sintomi refrattari. Ma la conoscenza in generale della palliazione come modalità della cura, la sua appropriatezza e la competenza comunicativa per presentarla al malato non possono mancare a tutti i professionisti della cura. A meno che non vogliamo correre il rischio di finire nelle loro mani incompetenti quando fossimo invitati a entrare nel territorio di cura dal quale non possiamo aspettarci la guarigione, ma solo l’accompagnamento nel percorso che ci toccherà fare.

Conclusioni

Quali cure palliative, in sintesi, ci aspettano dietro l’angolo? Non siamo in grado di fare previsioni, ma quanto meno possiamo evocare due scenari. Uno è quello secondo cui la palliazione continui a modellarsi sullo schema bipolare che ha caratterizzato le sue origini: da una parte gli interventi che traggono ispirazione da Marte – ostinatamente determinati a non desistere da ogni forma possibile di interventismo, sordi a ogni attenzione alla qualità della vita e senza alcun tratto di quella competenza comunicativa necessaria per esercitare una cura con la persona malata e non sul malato – dall’altra una palliazione sempre più tardiva, a compensare con tratti attribuiti alla femminilità ciò che la medicina interventistica si ostina a ignorare. L’altro scenario è che la bipolarità possa essere rimessa in discussione e che le cure palliative si inoltrino nel terreno nuovo della queerness, che si mette di traverso sia a Marte sia a Venere. Non ci resta che auspicare: God save the queer. Anche nella cura.

BIBLIOGRAFIA

Gray J., (1992), Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere. Tr. it. Rizzoli, Milano.

Benedetti F., (2013), Il caso di G.L. La medicina narrativa e le dinamiche nascoste della mente. Carocci, Roma.

Barbagli M., (2018), Alla fine della vita. Morire in Italia. Il Mulino, Bologna.

Rugarli C., (2017), Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura. Feltrinelli, Milano.

Kay A., (2018), Le farò un po’ male. Diario tragicomico di un medico alle prime armi. Tr. it. Lastarìa ed., Roma.

Murgia M., (2022), God save the qeer. Catechismo femminista. Einaudi, Torino.

Borasio G.D., (2015), Saper morire. Cosa possiamo fare, come possiamo prepararci. Bollati Boringhieri, Torino.

* Sandro Spinsanti è laureato in teologia e psicologia, esperto in bioetica, ha insegnato Etica medica presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma e bioetica all’Università di Firenze. Ha fondato e diretto le riviste l’Arco di Giano e Janus