L’Altrove e l’Altrui: il legame adottivo

Di Rosita Bormida *

Dove sono nato non lo so; non c’è da

queste parti una casa né un pezzo di

terra né delle ossa ch’io possa dire

“Ecco cos’ero prima di nascere”.

(Cesare Pavese, La luna e i falò)

Adottare deriva dal latino Ad-optare, composto da ad complemento di moto a luogo e optare scegliere, desiderare:

<<la spinta ad adottare indica una scelta come movimento appetitivo verso un bambino che ha una realtà psicofisica già costituita>> (Mastella, 2009).

La pratica dell’adozione ha origini che si perdono nella notte dei tempi; le prime tracce si ritrovano nel Codice di Hammurabi, una raccolta di sentenze del re, risalenti al XVIII sec. A.C., appartenente alla civiltà babilonese che, oltre a sancire quali fossero i diritti e i doveri degli adottanti, stabiliva anche che, ad un soggetto, era garantita la possibilità di estendere la propria eredità ad un altro soggetto, secondo determinate forme.

La predominanza dell’aspetto ereditario/patrimoniale, così come il concetto di un bambino ut-consolationem, cioè oggetto riparativo, restitutivo, consolatorio per una coppia impossibilitata a procreare, è perdurata a lungo, condizionando profondamente la giurisprudenza che negli anni è stato il quadro normativo di riferimento per l’iter adottivo. Basti pensare che, fino agli anni ’70, negli incartamenti processuali di quell’epoca si ritrovano:

<<[…] strane dichiarazioni di gradimento: i coniugi individuati per quel bambino, dopo averlo visitato (e quasi sempre fatto visitare da specialisti ad hoc!), ne dichiaravano il gradimento in questi termini “Dichiariamo che il minore BN, nato a… il…, da noi visitato presso l’istituto…, è di nostro gradimento”.

La lettura di questi documenti […] a me richiama alla mente l’art.1520 del codice civile, che prevede la vendita con riserva di gradimento: mi sembra cioè di poter affermare con sicurezza che questa dichiarazione di gradimento è rivelatrice di un’ottica radicata che poneva il bambino in funzione della coppia>> (Cavallo, 1995).

I mutamenti socio-culturali, i nuovi contesti del disagio e della fragilità familiare, inducono il legislatore, nel 1983, ad un mutamento di rotta e di ottica:

<<Cambia, quindi, radicalmente, nella legge 184/83, la filosofia di approccio rispetto alle leggi precedenti: l’interesse del bambino abbandonato a ricevere assistenza morale e materiale nell’ambito  di una  famiglia viene proclamato comunque preminente rispetto a quello dei genitori a “possedere” il figlio […] è anche indicativo della nuova filosofia di assoluto privilegio dell’interesse del bambino il fatto che, mentre la legge del ’67 palava di “assistenza materiale e morale”, la legge dell’83 parla di “assistenza morale e materiale”: l’inversione dei termini sta a significare il maggior valore che il legislatore ha voluto attribuire alla relazione affettiva genitori-figli rispetto ad un rapporto di mero sostentamento materiale>> (Cavallo,1995).

La condizione adottiva: Attaccamento Filiazione Affiliazione

L’adozione non finisce mai, si è figli adottivi e genitori adottivi per tutta la vita: è una condizione; l’esperienza dell’adozione può essere vista come un processo di adattamento al fatto di essere stati adottati (Brodzinsky; Schechter,1990), processo che si sviluppa lungo tutto il corso della vita, che ha come parte fondante la costituzione del patto adottivo, vale a dire l’incastro di bisogni di due generazioni che dà luogo a un progetto-impegno generativo (Scabini, Cigoli 2000).

Edipo stesso, mito centrale nella storia della Psicoanalisi, è un figlio adottivo.

Abbandonato dalla famiglia di Tebe, viene accolto da quella di Corinto, ben incarna i vari personaggi che contemporaneamente entrano in scena nella filiazione adottiva: il bambino deprivato, un giovane disorientato cresciuto senza sapere di sé ciò che gli altri sanno, oggetto quindi di segreti e portatore suo malgrado di una realtà sconosciuta. È il soggetto esploratore, spinto a trovare il filo della narrazione delle origini, che sente il bisogno di colmare il vuoto di sapere che coincide col suo inizio come persona (De Simone, 2008).

Lo sradicamento, anche molto precoce, di un bambino dal suo luogo di origine è di per sé un trauma grave, perché lo allontana da rumori, suoni, odori, dai sapori, dalle immagini, dai colori che appartengono a chi lo ha generato. Da quel mondo che non scompare, ma rimane depositato nella memoria implicita (Artoni Schlesinger, 2006).

Nel 1925 in “Inibizione, sintomo e angoscia” Freud così scrive:

<<Tra la vita uterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non lasci credere l’impressionante cesura della nascita>>.

Tuttavia, venire al mondo e nascere psicologicamente, sono due eventi che, nella dimensione temporale, non coincidono: il primo è un atto fisico, visibile e dai confini ben precisi, il secondo è un processo di costruzione interno, intrapsichico, dilatato nel tempo sia in termini di durata che di ritmo.

Fisicamente si nasce una volta sola, psichicamente si può nascere e ri-nascere più volte nel corso della propria esistenza.

Perché l’essere umano possa sperimentare il senso del proprio esistere e costruire una immagine di sé, è necessaria, fin dai primi attimi della vita, la presenza di una figura di attaccamento, nella quale potersi rispecchiare e dalla quale ricevere una restituzione di senso e di valore. La domanda cardine di ogni esistenza “Chi sono io?” presuppone un viaggio nel mondo interno e nel mondo esterno accompagnato e nutrito dalla presenza dell’altro, prima fa tutte la figura materna.

Scrive Winnicott (1971):

<<[…] non conosco una cosa che si chiami lattante […] se mi fate vedere un tale bambino mi mostrate anche qualcuno che si cura di lui, o per lo meno una culla con gli occhi e le orecchie di qualcuno incollati sopra[…]Ora, ad un certo punto, viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. Forse il bambino al seno non guarda il seno. È più probabile che una caratteristica sia quella di guardare la faccia […] che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge>>.

A sottolineare il fatto che un bambino esiste solo se contenuto in una relazione, nella quale i gesti della madre, la prosodia della sua voce, il suo volto, i suoi occhi, costituiscono il primo specchio tramite il quale egli inizia a costruire la propria identità, la propria immagine di sé e dell’altro. Un corredo emotivo e corporeo che consente di riparare la fisiologica cesura sancita dalla nascita, restituendo al bambino il senso di continuità della propria esistenza.

<<[…]occorre ricordare come il primo oggetto da ri-conoscere, verso cui dirigersi, nella realtà fattuale e fantasmatica, per un neonato è la madre naturale, quella che l’ha portato in grembo, permettendogli di costruire una memoria arcaica delle interazioni precoci, di quelle intrauterine in particolare. Il neonato naturalmente si orienta nel ritrovare e riconoscere dall’esterno ciò che prima, durante la vita intrauterina, ha conosciuto dall’interno. E ciò lo doterà del suo “centro di gravità permanente”, del suo punto di riferimento, nutrimento, orientamento, della sua “base sicura” da cui avviare le sue esplorazioni del mondo esterno>> (Mastella, 2009).

La cesura dell’abbandono, invece, irrompe in modo traumatico nel senso di continuità tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo: l’Io che è innanzitutto e soprattutto unIo corporeo (Freud, 1922), vive un senso di frammentazione, il senso di essere interrotto.

Sono le cesure primordiali di cui parlano Guasto e Lucini (2022):

<< […] stati di separazione precoce, non adeguatamente seguiti da un meccanismo riparativo in grado di conservare la continuità storica del senso del proprio esistere […] esse danno luogo a frammentazioni del Sé, stati dissociativi, amnesie autobiografiche e a quei fenomeni nei quali la persistenza di un immaginario gemello allo stato comatoso, mantiene in vita un Sé pre-adottivo che ha conservato un inconscio legame simbiotico con la madre biologica o persino con l’oggetto proto-relazionale materno- fetale>>.

Anche nel caso di adozioni precoci il corpo è l’unico luogo dove può ancora avvenire l’incontro con ciò che viene pensato e vissuto come biologico. In esso possono essere fantasticate tracce che toccano gli strati più profondi del Sé e che risalgono al periodo nel quale il contatto ha creato un rapporto fantasmatico tra il corpo della madre e quello del bambino (Gabbriellini e Nissim, 1989).

L’adozione stessa può configurarsi come un evento traumatico: un vero e proprio trapianto d’organo (Malacrea, 2014), perché nel bambino vengono trapiantati stili di attaccamento, modelli operativi, sistemi di accudimento che non gli appartengono. Certo la finalità è salvargli la vita, ma come tutti i trapianti richiede attenzione, preparazione, cura e, come tutti i trapianti, può andare incontro a rigetto.

La qualità del legame che si strutturerà tra i genitori adottivi e il bambino sarà determinante nella costruzione della sua identità fisica e psichica.

Quanto più i genitori avranno elaborato il lutto della non procreazione e quindi accettato un corpo individuale e di coppia non fertile, ma comunque integro e sessualmente vivo, tanto più saranno flessibili e restituiranno al figlio un’immagine di sé intera, non discontinua o estranea.

La genitorialità adottiva ha innanzitutto una funzione riparativa che deve tenere insieme tutta la storia del figlio, anche del periodo in cui temporalmente i genitori adottivi non erano presenti;

“Mamma, ma quando sono caduta dalle scale quando avevo 3 anni, tu cosa stavi facendo?” chiede Anoushka, adottata all’età di 7 anni, a significare come l’oggetto buono del presente possa restituire conforto e consolazione in una immagine condivisa, non reale, ma psichicamente bonificante.

La filiazione psichica procede con quella di diritto, si costituisce attraverso il desiderio e il bisogno reciproco dei genitori e del bambino, che alimentano il narcisismo di ciascuno: desiderio di avere un bambino, accettazione di avere questo bambino, desiderio di avere questi genitori qui (Levi-Saussant, 2002), ma richiede più tempo per costituirsi.

<<[…] ciò che i genitori adottivi sognano riguardo questo bambino, che è già stato portato nel  corpo e nel sogno della madre, già iscritto in un mito e, più spesso, in uno statuto civile, è il sogno per un bambino paradossale un bambino che verrà e che è già là. È anche un sogno di genitori paradossali, perché questo bambino è e non è di questi ultimi […] La specificità della situazione dell’adozione risiede forse nella possibilità dei neogenitori di immaginare una scena primitiva (quella del concepimento) dalla quale loro sono stati assenti e rispetto alla quale si sentono esclusi […] Questo spazio del sogno è uno spazio di sogni incrociati […] Questi incroci multipli assegnano come compito psichico alla famiglia adottiva di contenere questi sogni e questi miti incrociati, di elaborarli e trasformarli, al di là del “vero” e del “falso” genitore>> (Käes, 2002).

Winnicott (1971) sosteneva che se un’adozione va bene diventa una normale storia umana, con tutti gli sconvolgimenti e gli impedimenti delle storie umane nelle loro infinite varianti. Tuttavia anche quando un’adozione ha successo c’è qualcosa di differente dal solito, sia per i genitori che per il bambino (Mastella, 2009).

Il figlio biologico e il figlio adottivo si generano da portali diversi: il parto e l’adozione, ma tutti i figli hanno bisogno di “essere adottati”, nel senso di essere scelti e di partecipare ad un processo di affiliazione, di avere cioè uno spazio nel mondo interno, nella mente e nel cuore dei genitori:

<<[…]Possiamo dire che alcuni bambini nascono prima del concepimento nel pensiero, nel desiderio, altri durante la gravidanza, altri alla nascita, altri dopo molto tempo…La differenza tra  filiazione e affiliazione consiste proprio in questo processo di maturazione del sentimento di genitorialità da parte dei genitori adottivi e di affiliazione da parte dei figli. Un processo di reciprocità circolare che attraversa diverse fasi>> (Foti, 2007).

<<[…] il bambino contribuisce attivamente a “genitorializzare” i genitori (a farli diventare genitori; è alla ricerca di un ambiente (più che di persone) cui potersi affidare, seppure in modo ambivalente e oscillante, contraddittorio; porta con sé una “cesura”, una ferita mai del tutto rimarginabile>> (Mastella,2009).

<<[…] si potrebbe definire la componente materna della genitorialità adottiva come la capacità di contenere un bambino già contenuto, senza annullare o distruggere niente di quanto nel fantasma e nella realtà, è già stato contenuto? Si potrebbe qualificare la dimensione paterna della genitorialità adottiva attraverso la funzione di separazione che essa opera tra la madre biologica, la madre adottiva e il bambino adottato, attraverso il riconoscimento che il bambino non è stato nel corpo della madre adottiva ma nel fantasma di desiderio dei genitori adottivi?>> (Käes, 2002).

Quando invece la ferita narcisistica della non procreazione è ancora aperta o non sufficientemente sanata, intensa l’invidia e la rabbia per il corpo fertile dei genitori di nascita, il bisogno di risarcimento e di riparazione divengono dominanti sulla scena psichica: lo specchio genitoriale restituirà allora al bambino un’immagine deformata, frammentata, un forte senso di estraneità e di espulsione anche fisica, come drammaticamente avviene nei fallimenti adottivi (veri e propri aborti psichici e fisici) e, altrettanto drammaticamente nelle “restituzioni”, soprattutto in adolescenza, peraltro in forte aumento (Bormida, 2016).

Certo è che la storia personale del bambino prima dell’adozione ha un’importanza cardinale: a volte i bambini hanno avuto con uno o entrambi i genitori di nascita rapporti significativi e positivi, interrotti drammaticamente per cause traumatiche e creare nuovi legami può richiedere molto più tempo per l’elaborazione del lutto per la perdita dei precedenti, che vanno salvaguardati ed integrati.

Molti di loro hanno vissuto precedenti esperienze di abbandono o maltrattamento, strutturando meccanismi difensivi dal contatto con la sofferenza. Ci sono bambini che hanno sviluppato comportamenti seduttivi o compiacenti, altri che hanno imparato a fronteggiare le loro ansie e loro angosce con distacco emotivo. Con alcuni comportamenti negativi il bambino può voler verificare se i genitori gli vogliono davvero bene, prima di assumersi il rischio di un nuovo legame affettivo. Così come può esser il portatore di ferite invisibili che i genitori hanno bisogno di imparare a riconoscere: il minimo sfioramento con la ferita potrà riattivare nel bambino il trauma e tale riattivazione potrà tradursi in reazioni spesso difficili da gestire, in comportamenti disfunzionali. Le reazioni possono essere le più svariate: un bambino può non tollerare l’eco di atteggiamenti che gli riattivano il vissuto del rifiuto o della minaccia dell’abbandono, un altro può chiedere o rifiutare in modo persistente ed estremo il contatto fisico (Foti, 2007).

Il genitore adottivo può non immaginare e non aspettarsi un bambino con uno stile di attaccamento disfunzionale, che il bambino tende a riprodurre avendolo sperimentato come stile relazionale.

Sia i genitori che il bambino possono trovarsi in una condizione di lutto: il genitore per la perdita del bambino idealizzato, il bambino per la perdita dei legami primari e per le esperienze traumatiche vissute.

Conoscendo la storia pregressa del bambino e il tipo di Esperienze Sfavorevoli Infantili (Felitti et al, 1998) da lui vissute:

<<[…]saremo in condizione di poter capire in anticipo fino a che punto ai genitori adottivi sarà richiesto di curare i loro bambini piuttosto che di accudirli>> (Winnicott, 1971).

In quanto l’adozione offre al bambino la possibilità di sperimentare un altro modo di stare e di essere in una relazione con nuove figure di attaccamento, un nuovo legame bonificante e riparativo, che in futuro lo possa porre nella condizione di “scegliere”, che interrompa il circuito della ripetizione del trauma e gli restituisca una visione del mondo in cui possa sentirsi “bene accolto”: una opportunità di revisione dei propri Modelli Operativi Interni proposti da J. Bowlby (1969) nella prospettiva della Teoria dell’Attaccamento.

I Modelli Operativi Interni (MOI) sono schemi rappresentativi mentali che costituiscono immagini, emozioni e comportamenti legati all’interazione tra il bambino e gli adulti significativi. Comprendono i Modelli Operativi di sé e delle figure di accudimento o, più precisamente, modelli di sé-con-l’altro (Liotti e Monticelli, 2008): “In principio è la relazione” (Buber, 1923).   

Howe (2001) descrive tre possibili storie pre-adottive e le rispettive ripercussioni sugli Stili di Attaccamento:

1) good start/ late-placed: si tratta di bambini che nei primi due anni di vita hanno vissuto delle relazioni sufficientemente positive con le figure di attaccamento, ma che sono via via peggiorate facendogli sperimentare trascuratezza, non accettazione, abusi. Nell’esperienza adottiva, l’angoscia della possibile perdita delle nuove figure di attaccamento potrebbe comportare lo sviluppo di atteggiamenti di dipendenza o di adesione compiacente ai genitori adottivi.

2)  poorstart/ late-placed: si tratta di bambini che dal momento in cui sono venuti al mondo, sino all’adozione, sono stati esposti ad eventi avversi quali trascuratezza (incuria, discuria), abusi sessuali, maltrattamenti, abbandoni. In questo caso i pattern di attaccamento che più frequentemente possono instaurarsi sono di tipo insicuro, nelle declinazioni resistente, evitante, disorganizzato

I bambini resistenti hanno, nel loro mondo interno, una rappresentazione di Sé come non degno di affetto, attenzioni, cura e dell’altro da Sé come di un oggetto imprevedibile e incoerente. Hanno sperimentato nella loro infanzia soprattutto trascuratezza e abbandono, per cui esprimono una iperattivazione del sistema di attaccamento e, l’angoscia di nuovi abbandoni, li porta ad essere iper-richiedenti, possessivi, coercitivi e/o provocatori nei confronti dei nuovi caregiver.

I bambini evitanti, al contrario, evitano o si sottraggono letteralmente al contatto sia fisico che affettivo con il caregiver, mostrando forza ed invulnerabilità a difesa di una profonda fragilità emotiva. Sono bambini che nella loro infanzia hanno sperimentato con i genitori di nascita una relazione fredda e distanziante, nella quale le loro richieste di attenzione e cura sono state ignorate, svalutate, denigrate; una relazione che ha rimandato loro il senso di non essere degni di amore, non desiderati, rifiutati.

I bambini disorganizzati hanno nel proprio mondo interno un senso del Sé confuso e destrutturante: da un lato pericoloso per l’oggetto d’amore e al tempo stesso vittima impotente di fronte ad “un altro” minaccioso; una visione del genitore contemporaneamente minaccioso e minacciato dalle richieste di attenzione, protezione e cura del figlio.

Questi bambini sono stati esposti nella loro infanzia alla relazione con genitori a loro volta portatori di profondi lutti, abusi, di esperienze traumatiche mai elaborate, mai risolte.

I genitori irrisolti sovente possono diventare spaventanti e traumatizzanti per il bambino che, a sua volta, può mettere in atto meccanismi difensivi improntati ad un forte controllo emotivo, basato sulla negazione del bisogno di fiducia in un oggetto significativo o, nel caso in cui egli abbia introiettato il senso di colpa dei genitori (Ferenczi, 1932) può rivolgere su se stesso comportamenti intensamente punitivi.

<<[…]Tali meccanismi, potrebbero portare all’utilizzo di strategie controlling di sopravvivenza di tipo accudente oppure di tipo punitivo>> (Pace, et al., 2009).

3) institutional care: si tratta di bambini abbandonati e istituzionalizzati fin dalla nascita, che non hanno avuto la possibilità di sperimentare una relazione affettiva elettiva con un caregiver significativo; essi, analogamente ai bambini che hanno vissuto esperienze profondamente deprivanti, si possono polarizzare su due dimensioni: assenza di un legame di attaccamento o ricerca spasmodica e indiscriminata di attenzione, conforto, cura.

Esperienze di sofferenza così primarie, rappresentano elementi che producono una sorta di “vulnerabilità”, una tendenza cioè a produrre di fronte a situazioni stressanti risposte inadeguate e disfunzionali.

Quanto più è precoce l’esperienza dell’istituzionalizzazione tanto più l’esperienza traumatica può risultare grave; gli studi hanno dimostrato come proprio l’istituzionalizzazione rappresenti il principale fattore eziologico nello sviluppo del RAD (Reactive Attachment Disorder), un disturbo internalizzante con sintomatologia depressiva e comportamento ritirato, che si esprime in primis nell’evitamento del caregiver: il bambino cerca raramente il suo sostegno e conforto quando prova disagio e ne risponde in misura minima quando viene offerto (APA, 2013). Sono bambini non interessati ai giochi tipici della loro età, tendono ad isolarsi e, quando sono frustrati, spesso mettono in atto comportamenti aggressivi verso chi li circonda. Sono mesti, sorridono molto poco perché le uniche emozioni che sperimentano sono negative e oscillano tra tristezza, ansia, timore e irritabilità (Sperry et al., 2015).

“E’ per me un grande dolore non essere riuscita a fargli nascere il sorriso… Sasha mi fa sentire inutile” (Antonia, mamma adottiva di Sasha, giunto in Italia tramite Adozione Internazionale all’età di 7 anni, interamente trascorsi in un Istituto del Nord-Est Europeo).

La tipologia dei pattern di attaccamento con i genitori adottivi, è determinante per la qualità dell’approccio autobiografico che il bambino, compirà una volta diventato adolescente e giovane adulto.

I modelli di approccio autobiografico possono declinarsi in quattro modalità (Bramanti e Rosnati, 2001):

1) Accettazione: è correlata ad un pattern di attaccamento di tipo sicuro; è caratterizzata da un senso di ricomposizione della propria storia personale in cui è possibile integrare tutte le esperienze, anche quelle dolorose, con una congruenza tra la memoria semantica e quella episodica. I quesiti adottivo-specifici sono affrontati e trattati, così come vi è riconoscimento e accettazione dei propri sentimenti.

2) Scarsa accettazione: è correlata ad un pattern di attaccamento ansioso-ambivalente; è caratterizzata da una ricerca molto attiva di informazioni, ma con una modalità critica e di contestazione delle risposte ricevute. I sentimenti non sono accolti ed elaborati, ma “agiti” e  rispetto alla propria storia è presente una buona quota di rabbia per le esperienze del passato, che zavorra la possibilità di integrazione con quelle attuali.

3) Rifiuto passivo: è correlato ad un pattern di attaccamento evitante; è caratterizzato da una strategia non attiva, che consente di prendere le distanze dalla propria storia pregressa: la narrazione della adozione avviene in modo formale, priva di particolari e di dettagli, spesso il “non ricordo” accompagna la narrazione stessa. È un modello di approccio autobiografico che si riscontra frequentemente nelle adozioni precoci e in quelle in cui la differenza somatica tra il figlio e i genitori adottivi è minima.

4) Rifiuto attivo: è anch’esso correlato ad un pattern di attaccamento evitante, ma si differenzia dal rifiuto passivo in quanto vi è negazione dell’importanza e della peculiarità di essere “un figlio adottivo” ed un evitamento attivo del proprio passato, delle esperienze pre-adottive. È presente una tendenza a negare od omettere qualsiasi vissuto ed espressione emotiva, i quesiti adottivo-specifici non sono stati posti o, se lo sono stati, ciò è avvenuto in modo puramente formale. È una tipologia di approccio autobiografico che è particolarmente diffusa nelle adozioni avvenute entro il primo anno di vita del bambino e in quelle in cui la differenza somatica con i nuovi caregiver è minima.

L’Altrove e l’Altrui

<<[..] L’adozione non è un’azione di costruzione, ma un’opera di ristrutturazione […] un bambino adottato porta con sé una valigia da aprire, un libro già iniziato, un edificio con le fondamenta […] ha bisogno di essere accolto e legittimato nel progetto iniziale e nelle origini di cui è portatore.[…] Ristrutturare vuol dire valorizzare l’antico […], vuol dire salvare e recuperare immagini, documenti, relazioni, legami per dare un senso al presente, per mantenere una linea di continuità, per armonizzare e integrare tutte le fasi di un’esistenza>> (Foti, 2007).

Si tratta di co-costruire una nuova storia, con rispetto dell’originalità e della doppia appartenenza: di stirpe e di etnia.

<<[…] da un certo punto in poi si tratta di una storia in comune, ma che non pretende di eliminare il passato remoto, e quel tratto di vita che ciascuno ha percorso altrove, le cui tracce mnestiche sono spesso gelosamente custodite in una sorta di doppio fondo della mente. Ciò richiede di sopportare anche l’inevitabile sentimento di una doppia appartenenza, a un “prima” e a un “ora”, con i relativi, inevitabili, conflitti di fedeltà>> (Mastella, 2007).

I genitori adottivi hanno il compito di creare uno spazio per la formazione del luogo mentale delle origini (Mastella, 2007), non si tratta semplicemente di un fatto biologico o geografico, o storico e culturale, ma riguarda la necessità, soprattutto per i genitori adottivi, di sviluppare un luogo nella propria mente (Artoni Schlesinger, 2006) che permetta di tollerare il paradosso della coesistenza dell’appartenenza/non appartenenza, della somiglianza/differenza, della familiarità/estraneità.

<<[…] se è vero che il figlio naturale è l’altro, l’estraneo più familiare che possiamo avere, per il figlio adottivo resta vero che è l’altro più familiare e più estraneo, più estraneo e familiare al tempo stesso che possiamo avere o sperare di avere e di contribuire a crescere>> (Mastella, 2007).

L’Altrove e l’Altrui, due paradigmi presenti nel mondo interno del bambino adottato, che lo accompagneranno possiamo dire per tutta la vita, in modo latente per la maggior parte del tempo, ma che ritornano prepotentemente alla ribalta nei momenti di rinegoziazione del patto adottivo come ad esempio in adolescenza, o quando il figlio adottivo diviene genitore naturale, o nel percorso di ricerca delle proprie origini.

Altrove e Altrui, che trovano viva rappresentazione nelle modalità espressive con cui i bambini adottati si riferiscono ai genitori di nascita in rapporto ai genitori adottivi:

“La mamma e il papà di prima, la mamma e il papà di adesso” (Andrea)

“La mamma e il papà di lassù, la mamma e il papà di qui” (Julia)

“La mamma e il papà lontani, la mamma e il papà vicini” (Eliot)

“La mia ex-mamma, il mio ex-papà, la mamma e il papà nuovi” (Enea)

“Prima ero con la mamma nera, adesso sono con la mamma rosa” (Naima)

I genitori di là, i genitori di qua, i genitori di prima e quelli di adesso, un succedersi spazio- temporale che porta con sé la mente, ma anche il corpo: c’è un corpo di là e uno di qua, uno di prima e uno di ora, una serie di altrove e di altrui che richiedono un lungo e complesso lavoro di integrazione e di elaborazione (Bormida, 2016), per il quale una buona Funzione Riflessiva (Fonagy e Target, 2001) e modelli operativi sufficientemente sicuri della coppia genitoriale adottiva, ne rappresentano un  viatico essenziale.

Da “Gli Inadottabili” di Hana Tooke 

ORFANOTROFIO DEL PICCOLO TULIPANO,

AMSTERDAM, 1880

REGOLE PER L’ABBANDONO DEI NEONATI

REGOLA NUMERO 1:

Il neonato dev’essere avvolto in un lenzuolino di cotone.

REGOLA NUMERO 2:

Il neonato dev’essere sistemato dentro un cesto di vimini.

REGOLA NUMERO 3:

Il neonato dev’essere lasciato sul gradino più alto.

La Teoria dei cacciatori di licantropi

I miei genitori sono cacciatori di licantropi (Senso speciale, unghiata, luna piena): Quella notte erano inseguiti da licantropi e si erano arrampicati su per gli edifici della città per mettersi in salvo (tetto). Preoccupati che potesse succedermi qualcosa (i neonati non se la cavano bene coi lupi mannari), hanno deciso di lasciarmi da qualche parte finché non fosse passato il pericolo (orfanotrofio). Per farmi capire che mi volevano bene, hanno fatto in modo che potessi risalire sia alla mia identità che alla loro: hanno cucito in fretta il mio nome sul lenzuolo, pungendosi un dito (pezzetto di filo e gocce di sangue); e mio padre mi ha lasciato una prova del fatto che lui è Bram Poppenmaker (marionetta a forma di gatto). Torneranno a prendermi di sicuro, quando sarò abbastanza grande per cominciare il mio addestramento di cacciatrice di licantropi.

BIBLIOGRAFIA

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* Rosita Bormida: Psicologo clinico e psicoterapeuta infantile; Incarico di Alta Professionalità Servizio Adozioni Affidi Asl2 Savonese