di Margherita Dolcino
Grande è lo stupore nello scoprire che la parola “manipolo”, da cui il termine “manipolazione”, ha un’origine alchemica. Il manipolo era nel medioevo “una manciata esatta di erbe officinali” preparate ed utilizzate dallo speziale con proprietà quindi terapeutiche. Un significato curativo, lenitivo, ben lontano dall’accezione negativa che ne contraddistingue l’uso attuale.
Manus plena, una mano piena, così precisa da diventare quasi una unità di misura. E che avesse un significato assoluto è dedotto anche dal manipolo della legione romana, rappresentato da due centurie, ossia 120 uomini, che, come insegna, presentavano l’effige di un pugno chiuso che racchiudeva del fieno: in generale un drappello di uomini non numeroso ma preciso e inquadrato. La suggestione si alimenta ulteriormente quando si scopre che “manipolatore” è, nel campo dell’elettronica, lo strumento grazie al quale si possono introdurre delle modifiche nei circuiti. E’ anche l’organo attraverso il quale vengono trasmesse le informazioni sotto forma di impulsi: uno su tutti il manipolatore Morse.
Come spesso accade nell’uso comune del linguaggio, della manipolazione è rimasto il senso centrale della radice etimologica “manus” divenendo quindi “maneggiare”, “plasmare”, esattamente come fa l’alchimista nella lavorazione di un composto che ha lo scopo di modificare un nostro stato che si presuppone poco sano.
Alterazione e comunicazione sono dunque le due parole chiave che sottendono la manipolazione. Ma ogni atto comunicativo comporta sempre una manipolazione perché, forti dell’enunciato che “non si può non comunicare” (Watzlavick 1971), ogni volta che un “trasmittente” veicola un messaggio ad un ricevente, avrà sempre modificato il messaggio anche se involontariamente, trasformandolo in qualche cosa di diverso: ciò che parte non è mai ciò che arriva. Eppure la manipolazione ha un valore per lo più negativo e la si considera solamente come una modificazione volontaria nella elaborazione di qualunque comunicazione volta a influenzare in modo moralmente scorretto i destinatari.
E’ inoltre indubbio il legame esistente tra manipolazione e potere, intesa come capacità di condizionare opinioni ed abitudini altrui. “Il sogno di essere padroni assoluti delle nostre esistenze, ha avuto fine quando abbiamo cominciato ad aprire gli occhi, e a renderci conto che siamo tutti divenuti ingranaggi della macchina burocratica e che i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri gusti sono manipolati dai governi, dall’industria e dai mezzi di comunicazione di massa controllati dagli uni e dall’altra”.
(Fromm 1977).
Altrettanto evidente è il collegamento tra l’alterazione del messaggio e le forme di persuasione spesso volte a raggiungere consenso. Il consenso diventa quindi la pietra fondante delle norme che regolano qualunque assetto politico per garantire il quale diventa necessario ricorre anche a manovre di controllo e di condizionamento. Si arriva fino a dire che “la manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica; coloro i quali padroneggiano questo tipo di dispositivo sociale costruiscono un potere invisibile che dirige veramente il Paese” (Bifarini 2019).
Verrebbe da dire maneggiare con cura. La manipolazione, per altro, ha pesantemente condizionato il corso della storia: un personaggio su tutti, Ulisse che manipola la verità allo scopo di ottenere un vantaggio personale ma anche “per il continuo voler avere di più che, tuttavia, nessuna necessità è in grado di mascherare” (Tagliapietra 2008).
Ed è proprio la figura di Ulisse con le sue capacità “ingannatorie” che induce ad una riflessione più profonda: per poter manipolare bisogna conoscere la verità, saperla trattare, avere “una intenzione strategica e quindi una intelligenza pratica e relazionale. Non si mente mai in astratto ma sempre in un contesto, in una situazione specifica” (Dolcino 2018). Ma manipolare, oltre a richiedere un’analisi profonda delle circostanze in cui si esprime, pretende sempre la presenza di un altro: la manipolazione non è nulla se non si esercita relazionalmente.
Mentire, manipolare è una raffinata operazione di immedesimazione nell’altro quasi a leggerne le aspettative: “creare dal nulla e iniziare qualche cosa che non c’era” (Arendt 2013).
Il manipolatore come un potente individuo capace di penetrare l’animo umano, riuscendo quasi a leggere e interpretare bisogni e desideri. “Fondamentalmente egli è un creativo che mette in opera tutto per edificare e fare esistere il contesto, la situazione dalla quale conta di trarre vantaggio” (Eiguer 2006).
La radice “manus” assume quindi una forza ed un significato differente: colui che manipola è in grado di toccare l’altro, di sentire con “manus plena” emozioni e sentimenti. Questo è forse quello che ci fa arretrare, ciò che fa sì che l’affermazione “è un manipolatore” diventi una sentenza senza possibilità di appello, una condanna definitiva a respingere ed allontanare chi riesce, con astuzia e creatività, a leggerci dentro.
La manipolazione può spingersi però fino alle estreme conseguenze: sempre più diffuso è il fenomeno conosciuto come “gaslighting” dal nome di un film del 1938, sorta di vera e propria violenza psicologica che l’abusatore perpetra ai danni della propria vittima portandola a dubitare dei propri pensieri e comportamenti fino a ridurla ad uno stato di completa dipendenza (Gass, Nichols,1988). Gli autori di tale fenomeno sottolineano come “la proiezione cosi come l’introiezione dei conflitti psichici dal molestatore alla vittima” (Gass, Nichols 1988) costituiscano il motore essenziale di tale sindrome. Chi manipola sembra sempre di più essere mosso dal desiderio di appropriarsi dell’altro, di renderlo complice inconsapevole della propria potenza, nel tentativo di annullare il sentimento di inadeguatezza che spesso lo pervade. “Sa meglio di chiunque altro quando occorre modificare la sua posizione e la sua strategia…facilitato dalla grande mobilità psichica di cui dispone” (Eiguer 2006).
Manipolare è dunque un atto profondamente empatico perché prevede il riconoscimento dell’altro da sé, quel mettersi in connessione con il “corpo vivo”, con il modo in cui la persona non solamente pensa od agisce ma come “si sente viva, cogliendo il senso stesso della sua esistenza” (Stein 1985).
Bibliografia
Arendt, H., La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2013
Bifarini I., Inganni economici falsi miti di una scienza sociale, Youcanprint 2019
Dolcino M., “La bugia è una menzogna. Intervista ad Andrea Tagliapietra” in Varchi 2 (2018)
Eiguer, A., Nuove figure del perverso morale, Borla, Roma 2006
Fromm E., Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977
Gass, G.- Nichols, W., “Gaslighting:a mental syndrome”, in Journal of contemporary family therapy 10/1 (1988)
Stein E., Il problema dell’empatia, Studium, Roma 1985
Tagliapietra A., Filosofia della bugia, Mondadori, Milano 2008
Watzlavick P., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971