di Noemi Angelini
La situazione clinica che andrò a presentare, “L’afghano”, è uno dei casi nei quali ho sentito maggiormente il bisogno di supervisione durante il mio percorso di specializzazione in psicoterapia.
Durante il Seminario annuale de “Il Ruolo Terapeutico di Genova” (2023), che si tiene ogni anno a Bonassola, ho quindi proposto in supervisione il caso clinico di questo paziente che ho seguito per pochi, intensi mesi, circa otto.
Data la mia difficoltà di comprensione, ho presentato la stessa situazione anche durante una supervisione on line con Psicoterapia Medica di Bologna, gruppo dedicato ai Migranti.
Javid è un ragazzo afghano di circa 31 anni e mi è stato inviato dal Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria) che lo accoglie per un percorso psicologico-psicoterapeutico; egli è nato e vissuto in Afghanistan, dove vivono ancora i genitori, la compagna e il figlio, di circa 12 anni e si trova in Italia da luglio 2021.
Dopo qualche periodo dall’inserimento nel Cas, il ragazzo inizia a rifiutare di osservare le regole e si ribella al modus vivendi del Centro, focalizzato sull’autonomia e sul rispetto dell’altro.
Il Cas è internamente organizzato attraverso la suddivisione dei compiti per aree specifiche (salute, igiene, ecc..) con figure professionali specializzate, con a capo un coordinamento presente ed efficiente.
Javid ha iniziato a manifestare il proprio disagio psicologico nel reagire ai dinieghi con modalità aggressive, talvolta agendo anche atti violenti nei confronti degli operatori. Concordiamo quindi in équipe che conoscerò il ragazzo, in modo da offrirgli uno spazio ed un tempo dedicato, per ascoltarlo in questo momento di difficoltà.
I nostri incontri si svolgeranno il Giovedì, alle ore 11.00, in una stanza accogliente all’interno dell’ufficio Cas, a partire dal mese di Aprile 2022.
Javid arriva alla prima seduta accompagnato dall’operatore, e si presenta porgendomi la mano: è un ragazzo alto, robusto e con un fisico prestante.
Mi dice subito che ha bisogno di parlare di ciò che ha vissuto in Afghanistan, perché non riesce più a contenere l’orrore che ha visto, sente la testa pesante, che scoppia.
Il suo sguardo è assente, gli occhi si spalancano spesso mentre narra di sé e l’espressione è molto corrucciata.
La modalità dell’eloquio è come un “fiume in piena”, con tanti e confusi stati d’animo da arginare: Javid riempie tutto lo spazio delle sedute con racconti tragici di guerra, narrando scene crudeli e raccapriccianti, centrando sempre il discorso sull’utilizzo delle armi e sul suo agire per dare aiuto ai moribondi o dignità ai cadaveri.
Per me è molto faticosa la seduta con lui, così come si presenta ricca di violenza e sensazioni di rabbia, intrisa di angoscia di morte; inoltre, non riesco a contenere il timing del setting, come se il tema della guerra e del dolore permeassero tutto, riempissero tutto. Diventassero completamente totalizzanti.
In questo primo periodo è sempre presente nei nostri colloqui il mediatore linguistico culturale, in quanto la lingua madre di Javid è il pasthu, egli parla anche inglese ma con questa si esprime in modo poco chiaro al punto che io non riesco a capire ciò che sta dicendo.
Mi spiega convulsamente in ogni seduta come si costruiscono le bombe, come si maneggia un fucile, le varie posture per sparare.
Mi racconta di come i talebani hanno ucciso un suo cuginetto, di soli 5 anni, facendo con lui e con i bambini del suo paese un gioco crudele, vale a dire domandare ai bambini che cosa volessero fare da grandi e, in caso di scelta diversa dal voler fare il talebano, avveniva l’immediata fucilazione davanti a tutti gli altri bambini.
Narra, in particolare, alcuni episodi cruenti di ciò che si sta verificando in Afghanistan, sottolineando che la violenza nel Paese non si è mai allentata.
Riflettiamo durante la supervisione, sull’ importanza del tenere a mente la visione del suo ruolo all’interno del gruppo familiare/sociale di appartenenza, per i quali, ad esempio, chi non spara, uccide o si commuove è poco “uomo”.
Un giorno suo figlio urla e corre dal padre perché pensa che nella sua cameretta ci sia una persona sotto al letto; si scoprirà solo in un secondo momento che si tratta di un piede di un bambino, sbalzato nella cameretta dal finestrone aperto e finito vicino ai bordi del letto del figlio, a causa dello smembramento di alcuni corpi provocato dallo scoppio di una bomba lanciata dai talebani in una piazza dove giocavano alcuni bambini; Javid restituirà l’arto ritrovato alla famiglia.
Un giorno vede trucidare intere famiglie che gioivano in una festa di nozze: dopo aver vissuto quella strage, Javid si preoccuperà di recuperare i corpi ed i loro resti, per dar loro dignità post mortem, ricomponendoli e restituendoli alle famiglie o seppellendoli.
In un colloquio, mi parla di un altro cugino smembrato da una ferita in mezzo al corpo a causa di una bomba: egli lo soccorre e lo porta in India per farlo curare, sfidando i “confini” e i “blocchi” dei talebani, utilizzando tutti i soldi risparmiati in molti anni lavorativi come pastore di bestiame (il cugino sopravviverà disabile, con la gioia di Javid e di tutta la sua famiglia).
Javid racconta di avere sofferto di sonnambulismo fin da bambino e di vivere in balia dei rumori degli spari che sente nella sua testa, il che produce uno stato di allerta costante, dato che percepisce di essere sempre controllato, “sempre sotto tiro” (ad es.:<<Chiudiamo tutte le finestre, perché ci tengono sotto tiro e potrebbero spararci da un momento all’altro… Mettiti al mio posto dottoressa, così non ti uccidono>>).
Durante la nostra relazione terapeutica, egli alterna momenti di protezione nei miei confronti e momenti di forte rabbia, adducendo che non lo comprendo, che non capisco nulla in generale, mentre alza i pugni al cielo. Poi si calma e al termine delle sedute, mi saluta gentile, ma senza guardarmi negli occhi.
Il mediatore linguistico culturale, dopo aver assistito ad una sua esplosione di rabbia, diretta all’équipe degli operatori, si spaventa e, in nome anche della sua etica religiosa, abbandona la mediazione.
Javid è musulmano, e spesso fa appello ad Allah nei suoi racconti, per giustificare un volere divino nell’affrontare le difficoltà della vita. Un dio verso il quale però molto spesso, impreca.
Le nostre sedute tuttavia procedono grazie all’arrivo di un altro mediatore linguistico culturale che pare aver compreso lo stato psicologico di Javid e che cerca di instaurare con il ragazzo una buona relazione.
Il paziente raramente accenna di avere ancora un padre, una madre, una moglie ed un figlio in Afghanistan e ancora più preziose sono le occasioni nelle quali mi racconta di se stesso: cresciuto in una famiglia allargata, ha sempre vissuto con lo zio, la zia acquisita e i cuginetti (che verranno uccisi dai talebani), non ha fratelli, è analfabeta (“ha impugnato la pistola, al posto della penna”), il padre lo definisce “pazzo” quando si preoccupa di ricomporre e di restituire alle famiglie i cadaveri, la moglie lo definisce “matto” quando insegna al figlio a costruire le bombe, fin dalla fanciullezza.
Mi assale tuttavia ridondante il pensiero che il paziente nel compiere quei gesti nei confronti dei cadaveri e dei familiari dei deceduti, è concentrato nel voler rendere dignità alle persone, così come farebbe una persona dal cuore generoso, non un “pazzo” o un “matto”.
Javid cerca di sanare i dolori di tutti, ricompone le salme, seppellisce i morti, come se egli stesso non riuscisse più a contenere questa atroce sofferenza.
Rimane comunque la domanda sul perché padre e moglie lo definissero tale e, soprattutto, quale sia stata la motivazione che ha spinto Javid a continuare questa attività, nonostante le critiche e i giudizi che riceveva.
Dopo circa un mese di sedute, in un giorno di inizio maggio, Javid arriva in ufficio e mi dice che non riesce più a sopportare la sua angoscia, che soffre troppo per ciò che ha visto e per le sue paure attuali e quindi è determinato a togliersi la vita: <<Perché la mia testa è talmente vuota da essere pesantissima>>.
<<Sento ora davvero la testa che esplode, ho bisogno di andare all’ospedale a curarmi, altrimenti mi ammazzo io prima che mi uccidano loro>>.
In supervisione, emerge anche l’importanza della terapia farmacologica, come punto fermo dal quale Javid ha voluto focalizzare la sua richiesta: <<Voglio andare al pronto soccorso per farmi curare dal dottore>>, il paziente ha saputo esprimere i bisogni subitanei legati al suo malessere psicologico che aumentava fino al disagio e all’angoscia di morte.
Concordiamo con la coordinatrice e gli operatori un accesso rapido al pronto soccorso, ove, durante l’attesa, egli minaccia più volte di voler agire il suicidio; nel fare il tampone per il Covid 19, si scompensa maggiormente, in quanto l’immobilizzazione lo riporta al ricordo delle torture viste e vissute da parte dei talebani.
L’SPDC decide di prendere in carico il paziente e avvisa gli operatori che per almeno una settimana Javid rimarrà ricoverato, data la sua grave condizione psichiatrica.
Il mattino dopo però, squilla il telefono del Cas e Javid viene dimesso, in quanto, dicono, in remissione dei sintomi.
Viene dimesso con una terapia farmacologica importante, al punto da non riuscire a stare in piedi ed essere trasportato a braccio all’interno dell’auto per il rientro a casa.
Nella casa ospitante, nel Cas, vengono attivate tutte le misure per aiutarlo in questo difficile momento di ripresa: accompagnamento nell’igiene, nei pasti e nel controllo dell’assunzione della terapia.
Javid fatica a parlare, sbanda se prova ad alzarsi in piedi e la notte urla, chiedendo di essere legato alle sbarre del letto perché teme di ferirsi cadendo durante gli episodi di sonnambulismo.
A questo punto, decido di andare a trovarlo a casa, proprio per evitare che si senta abbandonato anche da me, mi sento sostenuta dalla relazione terapeutica che si è instaurata tra noi e penso che questo incontro possa essergli utile per poter credere di essere una persona meritevole e dignitosa.
Questa mia decisione, pensata a lungo, mi è parsa la più corretta ed umanamente accettabile in quel momento. Il messaggio che voglio comunicare a Javid è di non solitudine, di coraggio, come a dirgli che sono dispiaciuta per la sua condizione di salute, ma che non ne sono spaventata. Anzi, io sono lì, come ogni martedì, pronta ad ascoltarlo senza minimizzare l’accaduto, di ciò che è successo si può e si deve parlare in modo sereno, con una persona di fiducia che sai non ti lascerà solo a elaborare il gesto che hai compiuto.
Quando la porta si apre, davanti ai miei occhi c’è una persona diversa, di fatto temporaneamente invalida, che si è rasata barba, baffi e capelli: Javid ha avuto bisogno di cancellare, annullare tutto di sé, la sua stessa identità, penso.
Nel gruppo di supervisione di Bonassola, però, riflettiamo anche sul fatto che forse eliminando tutto ciò che gli era richiesto dalla sua cultura, barba e baffi folti e un certo taglio di capelli, Javid è riuscito a sottrarsi temporaneamente alle imposizioni, alle regole della società afghana, la quale gli richiedeva di essere stabile, fermo, deciso, anche davanti alla crudeltà.
Javid è molto contento di vedermi, riesce a dirmi poche parole ma i suoi occhi esprimono la consapevolezza che siamo immersi in una alleanza terapeutica, che l’“esperienza” del SPDC non ci ha congelati, è una parte del nostro percorso, tema che riprenderemo successivamente in seduta.
Nei giorni seguenti, Javid decide di dimezzare la terapia e riprende la routine della sua vita.
Dopo circa due settimane dal nostro incontro presso la sua dimora, Javid si presenta nell’ufficio del Cas per la nostra seduta: mi dice che ora si sente una persona diversa, non sa perché si è rasato, ma scorgo il tentativo di rassicurarmi mentre mi dice che non succederà più.
E’ ancora confuso, ma la sua postura è molto più rilassata, i tratti del viso meno aguzzi, meno contratti, gli occhi non si spalancano più durante i racconti.
Non appena inizia a parlare, con grande stupore, mi accorgo che riusciamo a parlare in inglese senza l’aiuto del mediatore linguistico culturale: come se ad una nuova consapevolezza psicologica, corrispondesse a specchio un linguaggio nuovo.
Il colloquio si arricchisce di riflessioni e non più solo di narrazioni fattuali, e, anche se sempre focalizzato sugli episodi di guerra, noto che ora per lui esiste anche una dimensione emotiva che riesce ad esprimere. Rispetto alla frase che ripeteva spesso prima del ricovero: <<Ho il cuore duro, come una pietra>>, si sostituisce ora una frase dalle connotazioni emotivo-psicologiche diverse: <<Ho il cuore rotto, che sanguina>>.
Il mio intento terapeutico è di contenere Javid nel tempo del setting della seduta, cerco di integrare le varie parti che percepisco tuttavia disgregate e lavoro marcatamente nel “qui ed ora”, per discostarlo da quella realtà dissociativa nel quale tende a scivolare.
Ora Javid mi ascolta e, al posto dei momenti di rabbia, inizia a sorridere e a fare battute ilari raccontandomi la sua quotidianità.
Nelle settimane a seguire, Javid chiederà di poter andare da uno psichiatra per diminuire la terapia in modo ufficiale, dato che si sente meglio e vorrebbe impegnarsi in qualche progetto lavorativo.
Durante il successivo colloquio con la psichiatra, egli chiede di poter sostituire il farmaco che gli è stato prescritto in SPDC in quanto il sapore e l’odore delle gocce, percepiti come molto sgradevoli, rendono inaccessibile la terapia; la psichiatra senza chiederne il motivo minimizza questa richiesta: <<Certo, ora facciamo anche le gocce a seconda i gusti degli stranieri…>> guadagnandosi qualche insulto dal ragazzo.
Anche questa esperienza, quindi, si rivela deludente per il paziente.
Nelle sedute successive affronteremo spesso il tema della percezione sensoriale, dato che il motivo della richiesta di sostituzione del formato del farmaco si rivela essere una associazione traumatica all’odore e al sapore del sangue.
All’interno dell’équipe, personalmente monitorata e supervisionata in tutto questo periodo di tempo, si affaccia un quesito: ci domandiamo se comunicare a Javid che è arrivata la data dell’appuntamento per presentarsi di fronte alla Commissione per la richiesta d’asilo, che si trova a Genova. L’interrogativo è intriso di paure perché si teme di provocare in lui un nuovo disequilibrio/scompenso psichico generato da una possibile ansia da prestazione e da un sentimento di inadeguatezza, se non addirittura incapacità, a parlare di sé.
Fidandomi della relazione terapeutica instaurata con il ragazzo, decidiamo insieme all’équipe di dirgli la data. Sono presente mentre gli viene comunicata: Javid reagisce in modo gioioso soprattutto perché coglie l’occasione per essere finalmente ascoltato, ma esprime anche forti timori, in quanto percepisce che la sua memoria non è sequenziale ed è a tratti frammentata, deteriorata dalla continua esposizione al trauma.
Seguiranno settimane di racconti, di storie, di episodi persi nella sua storia di vita che verranno ricostruiti insieme all’operatrice del Cas e supportati dalla mia presenza, ove il paziente si sente libero di narrare e risignificare la sua vita.
Arriva il giorno della Commissione: dopo sei ore di un lungo racconto, Javid è stato in grado di affrontare altre persone, fuori dall’ambiente e dalle relazioni con gli operatori del Cas, che hanno ascoltato le sue testimonianze di vita.
Forse, quello che ha vissuto, si può ascoltare… Si può raccontare.
Anche i rapporti con gli operatori dell’équipe si rinnovano: in una seduta, Javid mi comunica di essere arrabbiato, ma di aver capito di non dover ricorrere all’aggressività per esprimere la sua rabbia, ma di poter parlare e di spiegarsi con me e gli operatori, che prontamente lo assecondano e proteggono dalla situazione di frustrazione.
Durante la supervisione, le domande che spesso si ripetono sono: Javid è un folle perché nelle atrocità della guerra civile ha ancora una sensibilità, e quindi ha manifestato i sintomi di una patologia psichiatrica come difesa psichica alla mera crudeltà delle situazioni violente a cui ha assistito, oppure è un paziente psichiatrico adeguatamente seguito in remissione dei sintomi?
E’ “malato” in Afghanistan o è “malato qui”, in Europa?
Sicuramente questi aspetti si sono rivelati una volta raggiunta l’Italia e in particolare quando egli ha capito che avrebbe potuto vivere in modo stabile in una casa di accoglienza, aiutato dalla struttura, dagli operatori, da me.
Ciò che ha “messo in scena” rappresenta una sana reazione che trova uno spazio di espressione non appena depositate e fisicamente allontanate le esperienze traumatiche?
E ancora: quale sistema teorico seguire nel caso Javid e come sviluppare al meglio le sue risorse psichiche?
Io credo che Javid abbia trovato l’unica soluzione possibile: dissociarsi e poi annientarsi, vivere la morte psichica totalmente schiacciato dal dolore più profondo che l’essere umano possa sopportare, ovvero la crudeltà, la violenza gratuita e la morte indotta.
Il paziente soffre di un disturbo da Stress Post Traumatico, con deliri e allucinazioni persecutorie per le vicende belliche terrorizzanti che ha vissuto, o ha adattato l’unica risposta sana possibile in un modo così cruento e “bestiale”, indi la sua dissociazione è qualcosa per difendersi dalla follia che aveva intorno?
Proprio laddove pare essersi deposta la sofferenza, ecco comparire la bouffée delirante.
Kernberg (2005) spiegherebbe che Javid ha una organizzazione di personalità spiccatamente borderline, terreno fertile, aggiungerebbe Collomb (1965), per l’attecchirsi dell’episodio della bouffée delirante.
Egli, semplicemente, in Afghanistan sopravviveva psicologicamente mantenendo alte le sue difese, rifugiando la mente talvolta in stati dissociativi e mantenendo un funzionamento di tipo borderline.
Una volta giunto in Italia, complici anche lo shock culturale (disattese le sue aspettative, le sue speranze migratorie e la mancanza di relazioni sociali significative) e il poco tempo trascorso dai grandi traumi vissuti, egli si può inconsciamente permettere che il suo nucleo emotivo possa esplodere in maniera impulsiva, contro sé o contro gli altri. Tale nucleo emotivo non ha mai avuto la possibilità di evolversi e di crescere insieme a tutti gli altri tratti/aspetti di personalità.
La bouffée delirante infatti si risolve in poco tempo ed è questo l’indicatore di maggiore rilevanza: Javid si trova di fronte al vuoto, all’instabilità emotiva, con immagini altalenanti tra l’idealizzazione e la svalutazione di sé (caratteri tipici della patologia borderline), non riesce più a contenere inconsciamente il nucleo emotivo, che “esplode”; egli lo comunica con naturalezza e prontezza a tutte le persone che sente presenti e vicine.
E, sempre velocemente, questa situazione si ri-compensa, complici i farmaci e la psicoterapia.
Sono presenti elementi psicotici tali da far pensare ad un chiaro disturbo da Stress Post Traumatico, ma pare non essere così: nel suo definire la bouffée delirante, Collomb (cit.) la distingue nettamente dallo scompenso psicotico, perché questa è una dinamica che sconvolge la superficie della personalità, mentre lo scompenso psicotico tocca la profondità della personalità.
La bouffée delirante nel migrante si esprime con sintomi sintomatici e con elementi anche di tipo psicotico, ma si esaurisce in tempi molto brevi.
Un’altra importante considerazione riguarda l’aver osservato che il paziente pare non avere un mandato “famigliare” da dover rispettare, quindi ha la possibilità di concedersi un percorso di “ri-sanamento”, così come, dall’altra parte, anche il Cas e la sottoscritta hanno vissuto e supportato questo percorso.
La tenuta della psicoterapia ha permesso a Javid di sentire che esisteva qualcosa che reggeva e che continuava ad esserci, al di là dei suoi dolorosi spostamenti nel qui e ora e nell’allora.
Anche dopo il ricovero in SPDC, si è costruito per il paziente uno spazio altro, dove tutto ha preso una forma diversa e dove lui ha recuperato il desiderio e la capacitò di costruire e mettere a posto, “ricomporre” i frammenti della sua vita.
Come è cambiato il setting e come si pone Javid ora rispetto a prima?
Prima, Javid era un ragazzo logorroico, dallo sguardo assente, duro, arrabbiato; oggi il suo modo di esprimere la relazione terapeutica è cambiato anche nel desiderio di occupare lo spazio in modo meno teso, più disinvolto, il viso è meno aguzzo, più rilassato, esiste il contatto oculare, sorride.
Il paziente ora racconta anche le sue progettualità, nonostante siano sempre presenti alcuni importanti digressioni traumatiche, ma ha recuperato la facoltà di sognare in modo positivo.
Javid è anche un mero testimone dell’esperienza traumatica bellica della quale si fa portatore, di una memoria collettiva che vorrebbe depositare nella storia, anche attraverso il terapeuta, che diventa oggetto di ascolto e di amplificazione dell’esperienza.
Il lavoro terapeutico non ha trascurato l’importanza della temporalità: Javid si è affidato, la terapia ha dato un ritmo alle sue settimane attraverso le sedute, e nelle sedute abbiamo ricostruito la sua storia, all’inizio disorganizzata e man mano sempre più organizzata. Il successivo evento catalizzatore della Commissione lo ha spinto a concentrarsi e a raccontarsi in una forma narrativa ordinata e ordinante.
Javid ora ha maggiore consapevolezza di cosa significhi la dimensione del “là ed allora” contrapposta alla dimensione “del qui ed ora”, elementi che prima risultavano confusi e fortemente invasivi.
Sono passati 8 mesi dal nostro incontro e a novembre il paziente ha trovato lavoro come muratore, insieme a persone di diversi Paesi e sta imparando a posare i pavimenti a mosaico. Ѐ apparentemente in equilibrio, invia denaro a casa e chiede di poter vivere con serenità, continuando ad incastrare frammenti della sua vita, con fatica e speranza, tessera dopo tessera.
Ringrazio sentitamente per il prezioso contributo professionale nella comprensione del caso: Dott.ssa Sciorato, Dott. Calderaro, Dott.ssa Lattanzi, Dott.ssa Magnoni, Dott. Guerci, Dott. Carosio, Dott. Chiappero; Gruppo “migranti” di Psicoterapia Medica sezione di Bologna: Dott. Rigon, Dott.ssa Gentili, Prof. Merini, Dott. Braca, Dott. Costa, Dott.ssa Castellani, Dott. Manduri, Dott.ssa Casali.
Ringrazio, in particolare, Cooperativa “Anteo”, Dott.ssa Contorbia e tutta la preziosa équipe degli Operatori.
BIBLIOGRAFIA
Bergeret, J. (2002), La personalità normale e patologica. Le strutture mentali, il carattere, i sintomi. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Collomb, H. (1965),Les Bouffées délirantes en psychiatrie Africaine. Psychopathologie Africaine, 1(2):167-239.
Dwairy, M.A. (2006), Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Franco Angeli, Milano.
Kernberg, O.F. (2005), Narcisismo, aggressività e autodistruttività nella relazione psicoterapeutica, Raffaello Cortina Editore, Milano.