La verità del silenzio

di Valentina Trinchero*

Rubano, massacrano, rapinano e, con
falso nome, lo chiamano impero. Infine,
dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace.
TACITO

Taci molto per avere qualcosa da dire
che valga la pena di essere sentita.
Ma ancora taci, per ascoltare te stesso.
LANZA DEL VASTO

Nella mitologia greca e romana, la metamorfosi di dèi o di uomini, cioè il completo mutamento della loro forma e della loro natura, è un tratto comune a molti miti: Narciso trasformato in fiore, Dafne in lauro, Atena in uccello, e così via. Ma è Zeus che appare come il dio dalle mille forme: il suo mito consiste quasi esclusivamente nella storia delle sue molteplici metamorfosi in animale, in elemento o in semplice mortale, segno della sua onnipresenza. Zeus, re degli dèi e degli uomini, è anche la sola potenza divina in grado di assicurare, contro ogni minaccia, l’equilibrio tra le forze molteplici presenti nell’universo. Dopo una lunga fase di conflitti, il mondo degli dèi, e con esso quello degli uomini, trova una sua stabilità. Sul Monte Olimpo Zeus governa seguendo il buon senso e cercando di gestire gli dèi, incarnazione di tutti i difetti degli uomini. Sembra che il bisogno di dare ordine ed equilibrio al mondo sia sempre esistito, fin dal mondo antico, e sia rimasto costante nel corso dei millenni, perpetuandosi fino ai giorni nostri. Al pari di un Dio, anche oggi utilizziamo gli stratagemmi più disparati e tutti i mezzi che possediamo, media compresi, per raggiungere il nostro intento: come Zeus, ci trasformiamo, deformiamo la realtà e cerchiamo di domarla per trovare forme di pace ed equilibrio, anche se solo apparenti ed artefatte.

Il mito della metamorfosi gode di grande fama nel mondo dell’antica Grecia, e diventa parte anche del patrimonio culturale latino. Per la sua carica fantastica e la sua capacità di affascinare il lettore, Ovidio produrrà la grande opera delle sue Metamorfosi. Le trasformazioni sono descritte in tutti i loro momenti, da quello iniziale, in cui l’uomo possiede interamente la propria natura, a quello finale, in cui l’ha perduta del tutto, passando per stadi intermedi, in cui umanità e animalità si confondono. Il tutto cela una riflessione psicologica, quelle sull’incomunicabilità e immobilità cui sono costretti i personaggi prima e dopo la metamorfosi.

Nonostante lo scorrere dei secoli, la metamorfosi ha continuato ad affascinare gli uomini, ricoprendosi di nuovi significati ed ispirando, nel mondo letterario del Novecento, Franz Kafka con la sua opera La metamorfosi. Se nel mondo antico il mito della trasformazione ha lo scopo di spiegare la realtà sia naturale che umana, lo scrittore praghese si concentra su quest’ultima, ne indaga gli abissi, le angosce, i dubbi, i meandri più oscuri e profondi. La vicenda di Gregor Samsa, il protagonista del libro che si trasforma in insetto, rappresenta una grandiosa ed assurda metafora dello stato di perenne disorientamento e inquietudine dell’uomo, tutto teso alla ricerca di un’identità, che però gli sfugge. L’opera kafkiana è un riflesso dei tormenti individuali di fronte ad un mondo, sull’orlo della Prima guerra mondiale, sempre più disumano e diventa un’esortazione a reagire all’ingiustizia, alla crudeltà e all’indifferenza della società, ma che è valida in tutti i tempi e, forse, ancora di più nella nostra epoca.

Volendo fare un parallelo, al pari di Gregor Samsa trasformatosi in un gigantesco insetto, la notizia, resoconto di un fatto, se ha vissuto per secoli pressioni, deformazioni e manipolazioni, oggi rischia di trasformarsi in altro, se non addirittura di scomparire. Infatti, da un lato, nonostante la sovrabbondanza di informazioni, è in corso una diminuzione dell’orizzonte tematico delle persone: grazie a internet si rischia di vedere solo quello che interessa, mentre, al contrario, l’informazione “old” poteva offrire, a chi aveva voglia, di approfondire e leggere un panorama vasto ed articolato. Dall’altro lato, con l’informazione in internet, si sono inseriti nel processo di “notiziabilità” elementi numerici che, elaborati da algoritmi, rischiano di imporre anche ai media un’offerta di informazioni sempre meno interessanti, sempre più fatue e stravaganti con l’unico scopo di cercare il successo e, quindi, possibili inserzionisti.[1] Un’estraneità dalla realtà che rischia di costruire un futuro di persone, al pari del personaggio kafkiano di Gregor Samsa, disorientate, ignoranti del mondo e della realtà, incapaci di costruirsi un pensiero critico, chiuse nella propria stanza e nelle proprie convinzioni, evitando, per contro, di affrontare la realtà e le sue contraddizioni, il presente e, ancora di più, un futuro incerto e angosciante.

Dall’antichità ad oggi, per quanto concerne il tema centrale del nostro discorso, non si può non tenere conto di una data storica e rivoluzionaria: è il 1455, infatti, quando Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili, ritenuta una delle più potenti invenzioni del millennio scorso per l’enorme influenza che ha avuto nello sviluppo della società moderna, per il processo rivoluzionario che ha avviato nei campi dell’informazione e dell’educazione, della cultura e dell’industria. Trascorsi tre secoli, a partire dall’Ottocento, l’invenzione della stampa, insieme alla circolazione di beni e di idee, diventa il presupposto sul quale costruire un mercato dell’informazione e, così, la notizia si trasforma a tutti gli effetti in un bene di consumo. In Italia, il quotidiano moderno dell’Ottocento, è, perlopiù, un giornale risorgimentale, votato alla causa dell’Italia unita, figlio di un giornalismo politico, militante e pedagogico. L’obiettivo non è tanto informare, quanto formare gli italiani. La politica assume una centralità assoluta e in un Paese come l’Italia dell’epoca, con pochi lettori, i proprietari delle grandi testate sono prevalentemente editori “impuri”, che puntano a condizionare la politica attraverso i giornali, mettendo così in secondo piano il compito di raccontare i fatti; mentre diventano colonne portanti il commento, l’opinione, la cronaca piegata alle esigenze di schieramento.[2] Da un lato, nasce e si stabilizza il cosiddetto «quarto potere», la stampa appunto; dall’altro, invece, emerge la differenza netta e secondo molti invalicabile tra notizia e opinione. 

Per definizione, la notizia è da intendersi come un avvenimento raccontato da un giornalista ad un pubblico. Il lavoro del giornalista è una continua serie di scelte, determinate dalla concorrenza di molti elementi (i rapporti con le fonti, la cultura del reporter, il caso, le necessità grafiche e, qualche volta, gli interessi politici). Tra i milioni di eventi che accadono nel mondo, i media decidono di scegliere gli argomenti da raccontare al proprio pubblico. E la scelta è, per sua natura, altra cosa rispetto all’oggettività. Umberto Eco ha segnalato già molti anni or sono una verità molto ovvia: «per il semplice fatto che scelgo di dire una cosa, anziché un’altra, ho già interpretato».[3] Nessuno può essere obiettivo e non si può immaginare che un essere vivente non partecipi a un avvenimento con le sue passioni. Così, il bagaglio culturale del giornalista lo porterà ad attribuire maggiore importanza a questo o a quell’aspetto del fatto che sta raccontando, a notarne una sfaccettatura piuttosto che un’altra, a filtrare gli avvenimenti a seconda delle sue idee e, se si è in buona fede e non faziosi, non solo è normale che questo accada, ma è anche un bene. Infatti, la pluralità di visioni ed opinioni, riguardanti uno stesso avvenimento, aiuta il lettore a farsi un’idea il più possibile completa su un determinato fatto.

All’interno di questo panorama mediatico, diventato sempre più simultaneo e poco filtrato, soprattutto in seguito alla diffusione di internet e dei social media, è necessario oggi chiedersi e riflettere su quanto contino realmente i fatti. Ad oggi, di fronte alle innumerevoli notizie ed opinioni inviate attraverso i più svariati canali mediatici, è fondamentale e doveroso capire quanto il pubblico sia in grado di costruirsi un proprio pensiero critico. 

Le veline, foglio di carta velina utilizzato dal Ministero della cultura popolare del regime fascista, dicevano ai giornali su cosa bisognava tacere e su cosa bisognava invece parlare. Quindi la velina è diventata in gergo giornalistico il simbolo della censura, dell’invito a coprire, a far scomparire. Le veline che invece conosciamo oggi sono esattamente il contrario: sono la celebrazione dell’apparenza, della visibilità, anzi della fama raggiunta attraverso la pura visibilità, dove il semplice apparire qualifica come eccellente. Siamo dunque di fronte a due forme della “velinità”, che Umberto Eco fa corrispondere a due forme di censura. «La prima era la censura attraverso il silenzio, la seconda è la censura attraverso il rumore; assumo, cioè, la velina come simbolo dell’evento televisivo, della manifestazione, dello spettacolo, della propagazione della notizia».[4] Successivamente, nella sua opera Costruire il nemico (2011), Eco aggiunge: «Se la velina in passato diceva: “per non creare comportamenti considerati devianti, non bisogna parlarne”, la velina del presente dice: “affinché non si parli di comportamenti devianti, si deve parlare moltissimo di altre cose”».[5]

Un grande rumore che riduce a silenzio tutto il resto. Il rumore come copertura, un caos che permette di non guardare da vicino le proprie paure e i propri problemi e di incolpare uno pseudo nemico esterno. Processi di trasformazione e metamorfosi della realtà che si sono susseguiti nel corso dei millenni, dapprima nel mondo divino, poi in quello umano.

Per fare rumore, del resto, non è necessario inventare notizie. Basta diffondere una notizia vera ma irrilevante, che però crea un’ombra di sospetto per il semplice fatto che viene data. Il rumore non ha neanche bisogno di trasmettere messaggi interessanti, anche perché un messaggio si sovrappone all’altro e tutti, appunto, fanno rumore. Talora il rumore assume le forme della ridondanza eccessiva. Internet, naturalmente, rappresenta il massimo del rumore mediante il quale non si riceve nessuna informazione. Notizie di piccola cronaca, alle quali i giornalisti dedicavano in passato uno spazio solo marginale, oggigiorno vengono appositamente enfatizzate ed amplificate, evitando invece la narrazione di fatti che meriterebbero, forse, più rilevanza. Umberto Eco scrive: «gli pseudo-scandali diventano così rumorosi che non si fa più caso a quel caso di cui si deve tacere. E, si noti, la bellezza del rumore, è che più fa rumore, meno si fa caso a quello che dice».[6] Sempre Eco mette in evidenza come questo si sia tradotto anche in una psicologia e in un’etica del rumore all’interno delle nostre comunità e, per questo stesso motivo, nella sua ultima opera sopra citata, pone uno dei problemi etici più rilevanti del nostro tempo, ovvero se e in quale misura sia possibile un ritorno al silenzio.

Del resto, si può anche ragionevolmente affermare e considerare come, nello svolgimento del loro lavoro, ai giornalisti capiti di sbagliare. Soprattutto nei quotidiani, quando si devono scrivere più articoli al giorno, si incappa spesso in errori ed errare, quando in buona fede, è fisiologico. Ma negli ultimi anni si è fatto strada un altro tipo di errore: quello in malafede. Complice l’esplosione dei social media e del cosiddetto citizen journalism (chiunque, qualsiasi cittadino, può essere testimone di un fatto e pubblicare in modo virale la “notizia”), oggi sono sempre più diffusi falsi d’autore che fanno una vera e propria attività di propaganda attraverso fake news. Una fabbrica di bufale a getto continuo, un caos e un rumore che non incontrano ostacoli degni di nota e che hanno finito per assuefare il pubblico, privandoli di anticorpi e trascinandoli su un terreno dove la verità e la menzogna non si distinguono più.

Se si tiene conto delle conseguenze anche gravi che ne possono derivare, ancora più preoccupante è la manipolazione mediatica che trasforma l’altro, il diverso da noi, in nemico. «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo».[7] Dunque, si può forse affermare che, dall’antichità ad oggi, l’uomo ha avuto il costante bisogno di affrontare la sua incapacità di capire fino in fondo se stesso e il mondo circostante, di colmare le sue angosce, le sue paure e i suoi vuoti esistenziali, trasformando la realtà, manipolandola e, infine, costruendo un nemico.

Pare che di quest’ultimo non si possa fare a meno. La figura del nemico non può nemmeno essere abolita dai processi di civilizzazione. Il bisogno è connaturato anche all’uomo mite e amico della pace. Semplicemente, in questi casi, si sposta l’immagine del nemico da un oggetto umano ad una forza naturale o sociale che in qualche modo ci minaccia e che deve essere vinta, sia essa lo sfruttamento capitalistico, l’inquinamento ambientale, la fame del Terzo Mondo.[8]

Un diverso per eccellenza è lo straniero e, con lo svilupparsi dei contatti tra i popoli, non solo quello che sta fuori e che esibisce la sua stranezza da lontano, ma quello che sta dentro, tra noi, e che oggi diremmo l’immigrato extracomunitario, che in qualche modo si comporta in modo diverso o parla male la nostra lingua.

Non può che puzzare lo zingaro, visto che si nutre di carogne, come insegna Lombroso. […] Mostruoso e puzzolente sarà, almeno dalle origini del cristianesimo, l’ebreo, visto che il suo modello è l’Anticristo, l’arcinemico, il nemico non solo nostro ma di Dio. L’Anticristo nascerà dal popolo dei giudei, dall’unione di un padre e una madre come tutti gli uomini, e non, come si dice, da una vergine.

Se l’Anticristo viene dal popolo dei giudei, il suo modello non potrà che riverberarsi sull’immagine dell’ebreo, sia che si tratti di antisemitismo popolare, di antisemitismo teologico o di antisemitismo borghese otto-novecentesco. […] Più tardi, Wagner complicherà il ritratto con aspetti fonetici e mimici: «nell’aspetto esterno dell’ebreo si trova qualcosa di straniero che ripugna sopra ogni altra cosa a questa nazionalità. […] Ma la cosa che più ci ripugna è il particolare accento che caratterizza il parlare degli ebrei. Le nostre orecchie sono particolarmente urtate dai suoni acuti, sibilanti, stridenti di questo idioma».

Dal volto ai costumi, ed ecco il nemico ebreo che ammazza i bambini e si abbevera del loro sangue.[9]

Gli allarmismi verso un nemico esterno e da combattere, nel corso dei secoli, si sono susseguiti periodicamente, e questo perché la paura rende, è di effetto, fa rumore, cattura, plasma, indirizza l’attenzione del pubblico e lo distoglie da altro. Si ribalta così il meccanismo perverso descritto dal Manzoni a proposito della peste di Milano: allora, l’informazione, affidata in esclusiva al potere costituito e autoritario, minimizzava un pericolo concreto, visibile ma indicibile. La gente vedeva la peste e i morti accatastati sui carri, ma la versione ufficiale seguitava a negarla. Don Ferrante alla fine muore di peste negando la peste. E, con lui, migliaia di milanesi del Seicento.[10] Oggi, di fronte ad allarmismi, paure, epidemie, tutti vedono il nemico di turno, tutti si comportano come se ci fosse, ma poi non accade quasi nulla. Eppure, ci si premunisce. 

Se le notizie fanno paura, in alcuni casi le parole che le raccontano ne fanno ancora di più. In fondo, è la parola che si conficca nella memoria e aiuta a ricordare questo o quel fatto. Le parole diventano più importanti dei fatti; giocando con le parole, si possono manipolare i fatti e, alla fine della catena, tutta la memoria collettiva.[11]

Interrogarsi sui singoli termini non significa porsi domande da annoiati lessicografi, ma rendersi conto dell’importanza di contesti, tensioni, implicazioni. A tal proposito, si pensi a quanto sia fondamentale la scelta delle parole nell’ambito della terminologia razziale: «non riguarda solo la superficie del lessico, ma le implicazioni cognitive di interi campi semantici e, più generalmente, la percezione, l’accettazione o la stigmatizzazione, dei fenomeni sociali correlati al loro uso».[12] È da sottolineare, peraltro, come un “problema” di linguaggio e di parole utilizzati da parte di alcuni giornalisti, non riguarda solo notizie che si occupano del tema dell’immigrazione e dello straniero, ma, ad oggi, si registra una vera e propria carenza e confusione di vocabolario, diffusa a più livelli. Si tratta di una discussione sempre più ampia e sempre più pubblica su lingua, rappresentazioni e stereotipi. La verifica di lessico, terminologie, definizioni e l’aggiornamento di dizionari e testi di consultazione, attraverso un’attenta opera di schedatura delle fonti, è quindi doverosa.

Altra cosa è invece l’improvvisata foga di nozioni a cui spinge talvolta la cronaca, l’urgenza, la moda del momento. Un ruolo determinante l’hanno avuto i giornali online, i quali utilizzano un linguaggio immediato e quanto più comprensibile, rispetto a quello complesso, ricco di metafore e citazioni, tipico invece della carta stampata. La rete non presenta vincoli di spazio, ma dimostra di averne altri: l’utente è una persona che non intende perdere tempo per informarsi su ciò che gli interessa e gli articoli lunghi ed elaborati vengono quasi del tutto ignorati. Nel giornalismo online il fattore tempo è prioritario su tutto il resto, così da poter pubblicare più velocemente rispetto ai concorrenti e, allo stesso modo, così da avere il maggior numero di consensi, cioè di click e di condivisioni. Proprio su questo tema è anche intervenuta Katherine Viner, direttrice del «Guardian», in un articolo intitolato, non a caso, La fine della verità:

per salire nel gradimento dei motori di ricerca e degli algoritmi che misurano il successo dei siti è necessario raccogliere molti “click”. Ma, purtroppo, non è la qualità e non è neppure la verità a richiamare la frettolosa attenzione degli utenti di internet; più spesso lo è l’eccezionalità, l’assurdità: cose magari divertenti, strampalate, basate su prove inconsistenti […], con l’indebolimento dell’importanza sociale della verità. […] Per troppi giornali la misura del valore di una notizia è la viralità, anziché la veridicità o la qualità. Il modello utilizzato dagli algoritmi in rete è il gran numero di condivisioni e non la distinzione tra vero e falso, tra scadente e di qualità.[13]

La difficoltà di distinguere, all’interno della rete e dei social media, tra le notizie vere e quelle false è diventato un reale problema a livello mondiale, tanto da prevedere differenti interventi di governo nei singoli Stati. Nel nostro Paese, ad esempio, da tempo ci si interroga su come porre un freno alle notizie manipolate e, data anche l’ultima emergenza Coronavirus, è stata rimessa al centro del dibattito la questione delle fake news. Risale ad agosto 2018 la proposta di legge per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla disinformazione online, che si dovrebbe porre come obiettivo quello di affrontare un tema di straordinaria attualità. Infatti, in base a quanto risulta dai dati riportati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, quasi il 55 per cento degli italiani accedono all’informazione online prevalentemente attraverso fonti cosiddette “algoritmiche”, in particolare social network. In tal modo, si finisce per essere inondati da notizie non veritiere, da problemi amplificati e da percezioni che possono diventare strutturali. Dunque, la commissione proposta dal testo di legge avrebbe come obiettivo quello di indagare sulla diffusione intenzionale e massiva di informazioni false o fuorvianti attraverso internet, mediante la creazione in rete di false identità digitali; oppure, verificare se la disinformazione online possa essere attribuita a gruppi organizzati che se ne servono allo scopo di manipolare l’informazione e di condizionare l’opinione pubblica. La medesima commissione dovrebbe avere come intento anche quello di verificare se esistono correlazioni tra la disinformazione online e i cosiddetti discorsi dell’odio o hate speech, ossia discorsi di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e, ancora, se e in quali casi la disinformazione online possa aver destato allarme presso la popolazione, condizionato la libertà dell’opinione pubblica o istigato campagne d’odio.[14] Peraltro, la sfida riguarda in primo luogo gli stessi operatori della rete: capire se e come regolare contenuti offensivi o pericolosi, e in generale se e come mettere un argine alla presenza crescente di hate speech. In quest’ultimo caso, un esempio fra tutti è Google: se nella sua ricerca l’utente digita parole chiaramente appartenenti al lessico dello hate speech Google disattiva la funzione di autocompletamento, ma il compito risulta tutt’altro che semplice e il riconoscimento non sempre immediato.

Se dai social network si passa ai mezzi di informazione quali i giornali online, non si tratta più soltanto di operazioni meccaniche regolate da algoritmi, di sensibilità individuali o di interventi discrezionali per ciascuna piattaforma, ma di deontologia e responsabilità professionale, entrando nel vivo della battaglia del linguaggio.[15]

È un tema assai ampio e complesso, che coinvolge molti aspetti della sfera intima e sociale di ognuno, oggetto di interesse sempre maggiore da parte di studiosi e di istituzioni appartenenti agli ambiti più disparati. All’interno di un mondo informativo, ad oggi potenzialmente infinito, avere le possibilità e gli strumenti adeguati per riconoscere la realtà dalla finzione, per discernere il vero dal falso, per distinguere il momento in cui è giusto esporsi, dal tempo in cui, invece, sarebbe più apprezzabile tacere: queste sono le sfide del presente e del futuro più prossimo.

In origine fu il Caos, l’abisso e il buco nero dell’universo, dove si sono sviluppati gli esseri divini e in cui Zeus, diventato padre dell’Olimpo, sarebbe stato in grado di dare stabilità e ordine. Nei millenni successivi i sovrani avrebbero mantenuto l’equilibrio con tutti i mezzi e, nel mondo moderno, la stampa e la conseguente censura sarebbero divenute le nuove armi di controllo delle masse. In seguito, in un passato più recente, le veline fasciste avrebbero determinato chi fossero i nemici della patria e quali fossero i fatti su cui tacere. E oggi? Nessuno di noi è Zeus, nessun dio ci salverà e verrà a porre un ordine al nuovo caos in cui oggi ci troviamo a vivere, quello mediatico, privo di confini e di limiti. Il caos è stato affrontato e continua, tutti i giorni, ad essere combattuto generando altro caos ed altro rumore. In contemporanea, divampano notizie false che “aiutano” a generare altre paure e a creare nemici esterni, fuori da noi, nascondendo angosce e timori che ci riguardano invece più da vicino, ma che, proprio per questo, forse, sono anche molto più difficili da riconoscere e da affrontare.

Il ritorno al silenzio potrebbe essere, dunque, un’altra grande sfida che riguarda dapprima il singolo e che potrebbe avere le sue migliori ripercussioni a livello civile e globale. Se da sempre ne è stata riconosciuta l’importanza, a maggior ragione oggi il silenzio è lo strumento fondamentale che può essere utilizzato per contrastare la banalità della chiacchiera e del rumore costante. Si tratta di quel silenzio oggetto anche della filosofia di Martin Heidegger (1927): «il silenzio è la possibilità di avere qualcosa da esprimere, ma scegliere anche di non farlo, per attribuire un giusto ed autentico valore alle parole a volte logore e superficiali. […] Il silenzio come orizzonte di senso esprime la capacità dell’uomo di cogliere il fondamento della realtà, che non si ferma a quel che appare, ma in quel che appare coglie ciò che è invisibile agli occhi».[16] E ancora: «È il comunicare non arrogante che crea comunione, che getta continuamente ponti. […] Il silenzio eloquente è la misura perché l’uomo riconquisti sempre più se stesso: la sua dignità e la dignità di ogni uomo».[17]


Bibliografia

Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003.

Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, Il Saggiatore, Milano 2006.

Umberto Eco, Costruire il nemico, Bompiani, Milano 2011.

Marco Pratellesi, New journalism. Dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti, Mondadori, Milano 2013.

Anna Guido, Stefania Motta, Fenomenologia del silenzio lungo il “confine di contatto”, Unisalento 2015, pp. 41-43.

Marco Aime, Contro il razzismo, Einaudi Editore, Torino 2016.

Mario Bottaro, Metamorfosi della realtà. Le notizie negli old e nei new media, Edizioni Culturali Internazionali Genova, Genova 2016.

Alessandra Chini, Commissione di inchiesta sulle fake news. Che fine ha fatto?, Ansa, 2 marzo 2020.


*Valentina Trinchero è laureata in Società e Sviluppo Locale presso l’Università di Alessandria e in Informazione ed Editoria presso l’Università di Genova.


[1] Mario Bottaro, Metamorfosi della realtà. Le notizie negli old e nei new media, Edizioni Culturali Internazionali Genova, Genova 2016, p. 8.

[2] Marco Pratellesi, New journalism. Dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti, Mondadori, Milano 2013, pp. 14-15.

[3] Mario Bottaro, Metamorfosi della realtà. Le notizie negli old e nei new media, p. 27.

[4] Umberto Eco, Costruire il nemico, Bompiani, Milano 2011, p. 208.

[5] Ivi, p. 209.

[6] Ivi, p. 210.

[7] Umberto Eco, Costruire il nemico, p. 10.

[8] Ivi, p. 31.

[9] Ivi, pp. 12-20.

[10] Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 149-151.

[11] Ivi, p. 229.

[12] Marco Aime, Contro il razzismo, Einaudi Editore, Torino 2016, p. 95.

[13] Mario Bottaro, Metamorfosi della realtà. Le notizie negli old e nei new media, p. 153.

[14] Alessandra Chini, Commissione di inchiesta sulle fake news. Che fine ha fatto?, Ansa, 2 marzo 2020.

[15] Marco Aime, Contro il razzismo, p. 86.

      [16] Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2003.

[17] Anna Guido, Stefania Motta, Fenomenologia del silenzio lungo il “confine di contatto”, Unisalento 2015, pp. 41-43.