Introduzione
Il secondo dopoguerra e la ricostruzione morale e materiale investirono anche la scuola, la sua funzione, i suoi contenuti e il ruolo che ha (e deve avere) nella formazione del nuovo cittadino repubblicano. La scuola italiana del dopoguerra porta con sé la vecchia scuola albertina, rimodulata e organizzata gerarchicamente da Giovanni Gentile nel 1923, in cui il liceo classico e la cultura umanistica occupavano il posto d’onore e gli altri licei, gli istituti tecnici e la scuola magistrale una posizione subalterna.
E, da tale assetto, ancora oggi in parte presente, discende un progetto di scuola e di società diseguale che nel 1966 venne stigmatizzato nella Lettera a una professoressa degli allievi di Don Milani. Essa destò molto scalpore, come una accusa al sistema scolastico italiano che privilegiava i bambini provenienti dalle classi sociali agiate, i cosiddetti pierini, ossia i figli del dottore e, al contrario, bocciava i gianni, ossia i figli dei poveri. Essa svela, infatti, la selezione tra ricchi e poveri, perché “non c’è nulla di più ingiusto quanto far parti uguali tra diseguali”.
Ma, a distanza di più di 50 anni dalla pubblicazione di quella lettera, la scuola e l’università italiane, specchio dei grandi cambiamenti della società, sono riuscite a superare le diseguaglianze denunciate dalla Scuola di Barbiana? La contrapposizione di Barbiana tra i gianni e i pierini è ancora vera? Quali sono le caratteristiche sociodemografiche nel 2020 dei “nuovi” gianni, che chiamiamo studenti fragili? Chi stenta a concludere gli studi secondari? Chi (non) va all’università e, quando ci prova, abbandona dopo un anno?
Sono proprio queste le domande a cui vorremmo dare delle risposte, menzionando gli avvenimenti più importanti dal dopoguerra ad oggi: la scuola media unica nel 1962, il libero accesso all’università nel 1968, la (fallita) sperimentazione Brocca degli anni ’90, la riforma del 3+2 dell’università del 1999. E, oltre le diseguaglianze orizzontali denunciate dai Ragazzi di Barbiana, non possiamo non fare riferimento alle diseguaglianze geografiche italiane, già presenti al momento della creazione dello Stato unitario e, persistenti, nell’Italia di oggi dopo 75 anni di Repubblica.
In parallelo a questo excursus vengono discussi alcuni dati statistici essenziali, utili alla descrizione dei mutamenti della scuola italiana dal secondo dopoguerra ad oggi.
Principali riforme scolastiche in Italia dal 1962 ad oggi
La scuola media unica.
Alla fine del 1962 venne votata la riforma della scuola media unica: dopo quattordici anni si attuava la scuola dell’obbligo prevista dalla Costituzione estendendo, con grande ritardo rispetto agli paesi europei, l’obbligo al quattordicesimo anno di età e unificando tutte le scuole successive alle elementari introdotte nel 1940 da Bottai. In tal modo, si spostava in avanti il momento in cui gli alunni sono costretti a scegliere la loro carriera scolastica, si toglieva la distinzione di scuole secondo i ceti sociali favorendo la mobilità e l’interscambio fra le classi sociali, infatti, la legge istitutiva recita che la scuola media “concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino, secondo i principi sanciti dalla Costituzione, e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”. Tuttavia, la scuola media unica del 1962 comprendeva ancora un consistente gruppo di insegnamenti obbligatori e alcuni insegnamenti facoltativi nella seconda e nella terza classe, separando gli studenti in due gruppi: chi faceva il latino e chi faceva le “applicazioni tecniche”, la musica e il disegno (queste ultime discipline retaggio della scuola di avviamento professionale). Il latino, sempre al centro del dibattito sulla scuola, rimaneva obbligatorio per l’iscrizione al liceo; solo nel 1977, con la successiva riforma dei programmi della scuola media, il latino fu abolito nella scuola media e tutti gli insegnamenti furono obbligatori.
La liberalizzazione dell’accesso all’università.
Nel 1969, grazie alla spinta delle proteste studentesche, la «legge Codignola» elimina le barriere per l’ingresso agli studi universitari, consentendo l’accesso ai diplomati da ogni tipo di scuola secondaria a tutti i corsi di laurea. Questa apertura, dibattuta e controversa, scardina la struttura dei vari gradi dell’istruzione, su cui è fondata l’organizzazione (e i contenuti) dei corsi di laurea universitari, pensati ad accogliere solo studenti con determinate conoscenze e competenze. A distanza di anni, come vedremo in seguito, i dati dichiarano indiscutibilmente che la liberalizzazione dell’accesso è avvenuta solo in parte. Infatti, il tipo di diploma posseduto – indiscutibilmente legato alla classe sociale di appartenenza – è una delle determinanti più importanti per il conseguimento della laurea.
Il progetto Brocca.
Nel 1997, viene approvata la «riforma Berlinguer» che innalza l’obbligo scolastico da 8 a 10 anni modificando radicalmente la struttura dei cicli scolastici puntando a un “numero di anni uguali per tutti” prima della scelta per la secondaria di secondo grado. La ministra Moratti nel 2003 annulla l’innalzamento dell’obbligo scolastico mantenendo l’obbligo formativo. In seguito con la «riforma Fioroni» del 2007 l’obbligo scolastico è stato riportato a 10 anni e, in ogni caso, fino al compimento dei 16 anni di età.
Durante questa stagione di riforme, legate all’alternanza dei vari governi, c’è stata anche una riforma mancata, nota come «Progetto Brocca» (l’allora sottosegretario all’Istruzione). Il progetto fu discusso dal 1988 al 1992 da una commissione ministeriale incaricata di revisionare i programmi dei primi due anni delle superiori con l’obiettivo di superare le barriere tra gli indirizzi di studio liceale, tecnico e professionale. Tale disegno prevedeva il prolungamento dell’istruzione obbligatoria fino al sedicesimo anno d’età con l’obiettivo primario di istituire un biennio unificato per tutti i tipi di scuola (con alcune discipline comuni, 22 ore complessive alla settimana, e altre di indirizzo, 12 ore a settimana) che avrebbe dovuto servire alla scelta del proseguimento degli studi. Un elemento innovativo era l’introduzione di attività laboratoriali per le materie scientifiche e un gran numero (forse troppi) di nuovi indirizzi di studio. Tra questi quello del liceo scientifico tecnologico che, in un momento di grande ascesa del liceo scientifico, rompe un mito: propone l’abolizione del latino e destina nel quinquennio 88 ore settimanali alle materie scientifiche e solo 63 alle materie umanistiche, mentre nell’indirizzo tradizionale le materie umanistiche avevano 78 ore e le materie scientifiche erano tra 36 e 50 ore, in base alla tipologia della sperimentazione.
Negli anni ’90 e 2000 il progetto Brocca, nonostante fosse adottato largamente in via sperimentale e fosse sostenuto da vari governi, non riuscì a tradursi in riforma, lasciando immutata l’età di 13/14 anni per la scelta degli studi futuri. Per l’Italia repubblicana fu un’occasione mancata non aver esteso di altri due anni l’esperienza della scuola media unica di trent’anni prima.
Negli anni successivi, la ministra Moratti non darà seguito alle sperimentazioni Brocca e attua una vera e propria restaurazione, a cui si allinea nel 2008 la ministra Gelmini, che decurta il monte ore settimanali da 33 a 30 nella secondaria di primo grado e introduce anche in quella di secondo grado una drastica riduzione di ore, decimando quelle di laboratorio dei tecnici e dei professionali.
La riforma del 3+2 dell’università.
A partire dal 2001 entra in vigore la riforma universitaria del 3+2, che rivoluziona i percorsi accademici in laurea triennale e laurea specialistica (quest’ultima, dal 2008, denominata laurea magistrale). La riforma è scaturita per due forti istanze: il superamento dell’elevato numero di abbandoni universitari e l’adeguamento dell’ordinamento universitario italiano allo spazio europeo delineato dal Processo di Bologna, che prevedeva anche l’introduzione dei crediti universitari. Inizialmente, il sistema 3+2 è stato accolto di malavoglia dal mondo universitario, in particolare la lobby dei giuristi ha ottenuto, negli anni a venire, una deroga, riproponendo il vecchio sistema di laurea a ciclo unico per giurisprudenza. In generale i primi insuccessi possono essere attribuiti al conservatorismo della classe docente che, nella maggior parte dei casi, aveva trasferito la medesima struttura delle vecchie lauree quadriennali alle triennali.
Alcuni autori sostengono che l’introduzione del 3+2, accorciando il tempo di conseguimento di un titolo di studio terziario, ha ridotto le diseguaglianze di opportunità educative, incentivando l’iscrizione all’università dei diplomati provenienti da classi sociali basse ma con buone carriere scolastiche (Cappellari e Nucifora, 2009).
A distanza di venti anni, il sistema sembra aver trovato una sua identità organizzativa grazie anche a diverse modifiche apportate nel tempo. Nondimeno, è di grande importanza la possibilità di cambiare indirizzo per lo studente alla laurea magistrale, pur mantenendo alcuni vincoli all’interno di ampi ambiti disciplinari. Questo accorgimento normativo è in linea con una idea di scuola e di università, in cui le scelte disciplinari non siano vincolanti ma sia possibile modificare il proprio percorso di studio, in itinere, nel passaggio dalla triennale alla magistrale.
I numeri dell’istruzione dal 1945 ad oggi
L’istruzione secondaria dal dopoguerra ad oggi
Dal 1945, insieme alla ricostruzione materiale del dopoguerra, inizia lentamente e con grandi divisioni il dibattito sulla scuola (l’università invece non ne viene scalfita), che culmina nella controversa riforma della scuola media unica del 1962.
Il censimento sulla popolazione del 1951 registra ancora un 13% di analfabeti, con un enorme divario territoriale a favore delle regioni del Nord, male endemico dell’Italia unitaria e repubblicana, che manifesta nella scuola e nell’università uno dei suoi sintomi più evidenti di diseguaglianza sociale e culturale anche nell’Italia repubblicana.
La crescente disponibilità economica, dovuta al boom economico degli anni Sessanta e Settanta, insieme alla scuola media unica e all’apertura dell’università, ha finalmente modificato il tasso di istruzione secondaria di secondo grado nella popolazione generale: nel 1951 il tasso era al 4,3% e quasi il 50% del 2019 (da poco meno di 2 milioni a oltre 27,5 milioni in valori assoluti).
Nel 1987, 20 anni dopo Barbiana, Bernardi scrive La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde, citando testualmente Don Milani. In questo lavoro, l’autore mette a punto delle tabelle statistiche sulle speranze di regolarità (trasferendo a scuola il concetto di speranza di vita), che denunciano che i progressi da fare sono ancora tanti.
Da un lato, nel 2019 le persone di 25-64 anni che hanno conseguito almeno il diploma secondario superiore sono il 61,7%. Le differenze geografiche e regionali sono significative. Nel Mezzogiorno, infatti, ha ottenuto almeno il diploma soltanto una persona di 25-64 anni ogni due; al Nord il 65,5% e al Centro il 67,7%. Mentre il divario tra Centro e Nord si riduce, quello tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno continua ad aumentare. Da un altro lato, nel 2019, è un dato preoccupante quello relativo ai giovani tra 18 e 24 anni: il tasso di abbandonano precoce del percorso di istruzione e formazione è ancora oggi al 14,5%, con significative differenze regionali, 12,2% al Nord e intorno al 20% nel Mezzogiorno, tranne in Basilicata, Abruzzo e Molise, e per genere, 12,3% le femmine contro il 16,5% dei maschi (Istat, 2020).
In sintesi, dal secondo dopoguerra a oggi, a scuola cresce la componente femminile e i figli delle classi sociali meno abbienti accedono, anche prima dell’estensione dell’obbligo, alle “superiori” mantenendo la stratificazione orizzontale della scuola (licei classici e scientifici, altri licei, istituti tecnici, istituti professionali) rispetto alle origini familiari (Panichella e Ballarino, 2014). A questi, negli ultimi venti anni, si aggiungono i figli degli immigrati, che preferiscono prevalentemente gli istituti tecnici e professionali, abbandonando precocemente il sistema scolastico e della formazione nel 35% dei casi rispetto all’11% degli italiani (Istat, 2020). Gli stranieri di seconda generazione, ormai numerosi nei primi anni 2000, affollano la schiera degli studenti fragili.
Il passaggio dalla scuola all’università
Nel 2019 tra i giovani di 30-34 anni, la percentuale di coloro che hanno raggiunto un titolo di studio terziario è pari al 27,8%. Anche in questo caso, il divario tra Nord e Mezzogiorno è ampio: detiene un titolo di studio terziario il 32,5% dei giovani del Nord, il 30% al Centro e il 21,2% nel Mezzogiorno. Panichella e Ballarino (2014) analizzano un campione di 111.002 diplomati dell’Indagine sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati, condotta dall’ISTAT con cadenza triennale dal 1995 al 2011. Gli autori ottengono delle stime sulla probabilità di proseguire gli studi dopo il diploma di maturità e, come era atteso, i giovani con una buona origine sociale sono più inclini a frequentare un liceo e hanno una probabilità maggiore di proseguire all’università.
Negli anni la percentuale dei diplomati che prosegue all’università è cresciuta molto: gli iscritti all’università erano solo 146.000 nel 1951 e 1.200.000 circa alla fine del secolo, con una battuta d’arresto dopo il 2008 in seguito alla crisi economica. Nel 2017 il tasso di proseguimento è intorno al 50% con un massimo nel Nord-Ovest (53,9%) e un minimo nelle Isole (44,7%).
Rimane cruciale il tasso di proseguimento all’università a seconda del tipo di diploma. Nel 2017, infatti, 75 su 100 diplomati liceali continuano all’università (qui ovviamente i numeri sono molto più alti per i licei classici e scientifici), 33,1 su 100 dagli istituti tecnici e solo 11,3 su 100 dagli istituti professionali (Miur, 2017). E, se questi diplomati sono stranieri, i numeri si abbassano al 3,1% (Aiello et al., 2020)!
La geografia, il tipo di diploma e la cittadinanza sono deterrenti all’accesso agli studi terziari e rappresentano i tasselli più importanti della figura dello studente fragile. Visti i tassi di proseguimento all’università, la legge Codignola di 50 anni fa non sembra aver raggiunto i suoi obiettivi in quanto alla legge non è corrisposta fino agli anni 2000 una revisione della scuola e, ancor di più, dell’università. Quest’ultima, solo negli ultimi anni, ha messo in atto politiche di “accoglienza” come attività di orientamento e tutorato che risultano ancora frammentarie e disorganiche. In realtà, ancora alcuni diplomi di maturità – come risulta dai dati – sono “scoraggianti” rispetto all’accesso all’università.
La scelta operata a 14 anni condiziona non solo la decisione di proseguire all’università ma, come vedremo, è un peccato originale che sarà permanente anche nella carriera universitaria.
L’università
La legge Codignola del 1969 e l’allineamento del 3+2 al Processo di Bologna hanno aumentato moltissimo il numero degli immatricolati, che variano da 15 anni tra 270.000 e 300.000 circa. Nel 1989, il numero delle matricole femmine ha sorpassato le matricole maschi: da quel momento è rimasto netto lo scarto tra maschi e femmine (su 100, 45 sono maschi e 55 femmine). Questa differenza è presente, da qualche anno, anche nel corso di laurea di medicina e, da più tempo, a giurisprudenza. Negli ultimi dieci anni, in generale, i tassi di abbandono precoce sono fortunatamente diminuiti grazie anche a una maggiore consapevolezza delle università e degli organi di governo centrale; tuttavia, le diseguaglianze geografiche, di genere e rispetto al tipo di diploma rimangono un problema evidente, come dimostrano i dati.
La tabella 1 riporta i tassi di laurea nei corsi di laurea triennali per gli immatricolati nell’anno accademico 2014/15 in Italia (escludendo i corsi di laurea telematici e le seconde lauree): è l’esito delle loro carriere dopo cinque anni di università, visto che i laureati dopo cinque anni sono molto pochi. I numeri parlano chiaro: la differenza territoriale, il tipo di diploma posseduto evidenziano le diseguaglianze, descrivendo le uscite dal sistema scolastico come una corsa a ostacoli. Gli studenti stranieri, infine, hanno tassi di laurea molto bassi: sono, purtroppo, i più fragili.
La componente femminile, come abbiamo visto, sceglie gli studi terziari più dei maschi e si laurea prima e con una probabilità maggiore, come emerge dalla tabella 1, tuttavia presente delle peculiarità e altre fragilità che ragioni di spazio ci impediscono di approfondire.
In conclusione, ancora oggi, nonostante i grandi progressi dell’istruzione scolastica e universitaria, i percorsi scolastici e universitari sono ancora impervi, diseguali e selettivi: solo 24 studenti su 100 iscritti alla scuola secondaria di secondo grado conseguono una laurea triennale e solo 16 su 100 una laurea magistrale o una laurea a ciclo unico (v. schema proposto per gli anni 2005-2010 da Checchi, 2014).
E gli altri, chi sono? Sono simili ai gianni di Barbiana, i nostri studenti fragili: non hanno frequentato il liceo classico o scientifico, non hanno la cittadinanza italiana, non hanno un computer a casa e non vivono al Nord.
Bibliografia
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Bernardi L., La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde, in Scuola e professione, n° 4, pp. 14-20, 1987.
Cappellari, L. e Lucifora, C., «The ‘Bologna Process’ and College Enrollment Decisions », Labour Economics, 16, 638-47, 2009.
Checchi D. , Tante scuole diverse: troppo diverse?, Il Mulino, 6/2014, pp. 955-962, 2014.
Istat, Rapporto BES 2020: il benessere equo e sostenibile in Italia, ISBN 978-88-458-2039-7, 2021.
Miur, Focus “Gli immatricolati nell’a.a. 2016/2017 il passaggio dalla scuola all’università dei diplomati nel 2016”, Servizio statistico, Miur, 2017
Nella foto di copertina: Don Milani