TIRESIA:
“Lascia perdere, vecchia, non preoccuparti di ciò che può essere stato diverso da come ce l’hanno raccontato e che non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare. […] La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta. […] Forse gli dei, ammesso che esistano, potrebbero godere dall’alto di una certa visione d’insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate. […] Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi” (Durenmatt, 1988).
Così il vecchio veggente risponde alla Pizia morente che cerca di rendersi conto di come i suoi oracoli inventati, capricciosi, arbitrari, abbiano potuto trovare riscontro nella realtà. Infatti Edipo ha veramente ucciso il padre e sposato la propria madre, come lei aveva predetto in un momento di noia e di esasperazione, così, tanto per rispondere qualcosa, quando il claudicante principe di Corinto era venuto presso l’oracolo di Delfi, a domandare notizie circa le proprie origini. Non è sufficiente per sfuggire il fato allontanarsi dalla città: Edipo precipita incontro al suo destino perseguendolo lui stesso con ostinazione. Invano, più tardi, la madre-sposa Giocasta lo scongiurerà di non voler conoscere la verità; invano Tiresia lo diffiderà dall’andare oltre nell’indagine sulla sua provenienza: il processo di conoscenza ormai avviato non potrà più essere arrestato. È curiosità, è arroganza, è disperazione, quella che lo spinge a voler sapere ad ogni costo? Forse anche per Edipo il problema è quello di dare ordine al caos dei suoi sentimenti e al caos riscontrabile nella realtà. Forse cerca di rintracciare un segno in un mare di avvenimenti indifferenti alla sua esistenza e alla sua pena.
La sua passione di conoscere non riguarda soltanto, come per tutti, la curiosità sulla propria origine, ma forse, come per tutti, ha a che fare con l’angoscia di trovare un senso alla propria esistenza, qualcosa che la motivi dandole un orientamento nel tempo, un passato e un futuro che da esso possa derivare. Si può pensare non ad un individuo agito dal fato, ma ad un eroe “moderno” in cerca di spiegazioni.
E la domanda si fa sempre più radicale.
Attualmente in un universo in cui l’uomo ha perso definitivamente la sua centralità; in un universo di cui non si conosce né l’origine né il destino futuro, governato da leggi che verifichiamo sempre più contraddittorie rispetto al senso comune. In un mondo in cui assistiamo alla contemporaneità pressoché totale degli eventi, per cui ci troviamo a vivere in una sorta di ubiquità sconcertante, una dislocazione spiazzante, come vivere questa espansione e dilatazione dei confini fisici e mentali senza cadere nel disorientamento? Sembra più che mai necessario recuperare l’interezza della propria esperienza, considerare l’attività del conoscere in tutta la sua complessità, come qualcosa che ci riguarda totalmente.
La conoscenza trae origine da stati profondi della mente e ogni volta che compiamo un’operazione conoscitiva non mettiamo solo in funzione un apparato tecnologico, le nostre tecniche di conoscenza, ma ci portiamo dietro tutto quanto, tutto quello che ci riguarda, tutto quello che noi siamo. Non possiamo prescindere dalle motivazioni profonde che ci inducono alla conoscenza, anzi è necessario “ancorarla” alle spinte, soprattutto inconsapevoli, che la determinano. La conoscenza è un fenomeno non solo di natura razionale, ma anche emotiva ed affettiva e quindi passionale.
Ma proprio per questa ragione la conoscenza è vissuta come un rischio, un’esperienza che può sconvolgere l’ordine precedente delle nostre idee su noi stessi e sul mondo, mettere in luce aspetti sconosciuti e portarci a prese di posizione diverse da prima, e non solo a livello individuale, ma anche collettivo. Si tratta ogni volta di “disordinare” l’assetto stabilito, anche se per ricostituire successivamente un nuovo “ordine”.
L’attività conoscitiva, in quanto esperienza trasformativa, ingenera angosce ed evoca terrori profondi. Si può andare incontro sia alla paura dell’annullamento nell’oggetto di conoscenza e alla confusione, che alle ansie persecutorie collegate all’incontro con qualcosa di estraneo, di sconosciuto. Conoscere infatti significa far evolvere aspetti non conosciuti di sé, attivare e spingere alla realizzazione stati germinali, ancora non espressi, e questo travaglio non può che generare delle “tempeste emotive”. Può accadere allora che la conoscenza stessa, invece di costituire uno strumento di sviluppo psichico, sia utilizzata come una difesa, un baluardo nei confronti dell’ignoto. Per questo risulta necessario un collegamento costante con le fantasie sottostanti ogni atto conoscitivo, che consenta di rimettere in moto il pensiero difensivamente sclerotizzato e fissato in preconcetti o in formule precostituite che in realtà servono ad evitare l’affrontare queste vicende.
Ma in opposizione alla paura dell’ignoto può sorgere anche una fantasia “megalomanica”. Descrivendola in termini mitici, potremmo chiamarla l’identificazione con una divinità onnisciente. Si tratta di una fantasia di onnipotenza, come quella prodotta, per esempio, per un certo periodo dal progresso scientifico-tecnologico, con la sua pretesa di dominio totale sulla natura. Strategie differenti per evitare una reale esperienza conoscitiva.
La conoscenza dunque si presenta come un fenomeno di natura drammatica e conflittuale. Le forze che l’agitano possono essere viste da vari vertici di osservazione. Freud, che più di tutti nell’ambito del pensiero moderno ha messo in luce le dinamiche nascoste, inconsce, del processo di conoscenza, collega fondamentalmente la sete di conoscenza alle spinte sessuali. Soltanto grazie a uno “spostamento”, queste verrebbero incanalate altrove rispetto alla meta originaria, andando a costituire la base di quel processo di “sublimazione” che sarebbe al fondamento della cultura e della civiltà. Da questo punto di vista Leonardo rappresenta l’esempio sommo di manifestazione delle “passioni pulsionali” convertite in sete di sapere. Freud annota una citazione di Leonardo che «costituisce la sua professione di fede e fornisce la chiave della sua natura»: «Nessuna cosa si può amare né odiare se prima non si ha cognizione di quella»; e in un punto del Trattato della pittura:
“ché questo è il modo di conoscere l’operatore di tante mirabili cose e questo è il modo di amare un tanto inventore, perché invero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama, e se tu non la conoscessi, poco o nulla la potrai amare”
Ma per Freud queste affermazioni contengono una palese menzogna: si ama secondo impulsi inconsapevoli e incontrollati che nulla, a suo parere, hanno a che fare con la conoscenza. Quella di Leonardo suona piuttosto come la necessità di sottomettere gli affetti al travaglio del pensiero, e solo successivamente dar loro libero sfogo. In questa conversione vi è una perdita, perché il differimento diventa una sostituzione: <>.
Questo darebbe anche conto delle molteplici opere incompiute di Leonardo, che a un certo punto vedeva inibita la propria possibilità di azione creativa, per “eccesso di consapevolezza”.
Il nodo centrale della teoria freudiana riguarda l’ipotesi che una pulsione particolarmente intensa sia stata già attivata nella primissima infanzia del soggetto e che si sia confermata e stabilizzata in seguito ad altre successive esperienze infantili. Per questo Freud si riferisce nel suo lavoro a un ricordo d’infanzia di Leonardo, analizzandolo come segnalatore della personalità dello scienziato e artista.
Non è qui il caso di richiamare per intero questo controverso, ma fondamentale saggio, e neanche la vastissima letteratura psicoanalitica che lo ha seguito. Invece vorrei riportare, per riprendere il discorso da un punto di vista più generale, un passo famoso e molto evocativo, in cui Leonardo stesso riferisce della sua esplorazione delle caverne di Mongibello:
“E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata di una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci ten(ebre) alle abbassate e chiuse ciglia, e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dietro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là dentro era. E’ stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spelonca, desiderio per vedere se là entro fosse alcuna miracolosa cosa”.
Desiderio, paura, meraviglia, sono gli ingredienti di questa evocazione e le componenti della esperienza conoscitiva dell’artista e scienziato. Con l’interpretazione psicoanalitica questa fitta rete di spinte, controspinte e fantasie acquista un rilievo e un significato particolari: la conoscenza assume il suo spessore emozionale e passionale. Non è più un processo impersonale, ma anzi raccoglie tutte le determinanti della storia più intima, originatasi nel passato del soggetto.
Negli sviluppi successivi al pensiero freudiano, la spinta alla conoscenza acquista un accento ancora più drammatico: Melanie Klein ipotizza un vero e proprio «impulso epistemofilico» presente già dai primi stadi dello sviluppo infantile e che riguarda la curiosità per l’interno del corpo della madre. Curiosità avida e invidiosa che tende al possesso degli oggetti che il corpo contiene.
Ma è con la teorizzazione di Wilfred R. Bion che il problema della conoscenza e della curiosità collegata ad essa assume un valore centrale.
La ricerca della “verità”’ è vista come un nutrimento indispensabile per la crescita della mente. Il processo di conoscenza è contrassegnato dalla capacità di pensare e di “apprendere dall’esperienza”. La vita psichica è dominata da sentimenti di odio e amore, che insieme alla conoscenza costituiscono una trama di “legami” fondativa di ogni esperienza: i legami L, H, K (Love , Hate, Knowledge), come li chiama Bion. Quando i legami tra gli oggetti sono caratterizzati dall’amore, dall’intensità e dalla passione, si ha la possibilità di una situazione di conoscenza, se al contrario le emozioni dominanti sono l’invidia o il sadismo, si instaura un rovesciamento della situazione in una non-conoscenza, in un legame «meno K». In questo caso gli elementi in relazione, i significati e le emozioni, sono svuotati e il panorama mentale è dominato dagli attacchi distruttivi che vengono inferti proprio ai legami, cioè alle relazioni tra gli oggetti e a tutto quello che di conseguenza esse possono generare.
Attacco quindi alla passione, in quanto la sua presenza, per Bion, è segno che ci sono almeno due menti “legate” tra loro e «che non possono esservi meno di due menti se la passione è presente». La passione presuppone quindi il legame e la presenza di più termini in relazione. Essi sono distinti tra loro e l’oggetto della passione non è riducibile all’universo del soggetto che lo persegue, non è una sua emanazione, anche se probabilmente viene riconosciuto in quanto oggetto autonomo solo per poter essere assoggettato. L’esperienza passionale si presenta come un ‘oscillazione tra l’illusione di ricreare ogni volta l’oggetto e la tensione verso il possesso che tende a stabilizzarlo. Anche in funzione di questo movimento, più che perseguire precisamente la realizzazione di un desiderio, la passione sembra rivolta proprio alla ricerca. Sembra prioritario lo svolgimento del processo in se stesso, piuttosto che il perseguimento di un oggetto definito. È l’attività di pensiero in se stessa che viene investita.
Per questo “passione del conoscere” più che della conoscenza. Fondamentale dunque è la forza attiva del soggetto in questa operazione. Quanto tutto questo possa essere “produttivo”, la psicoanalisi lo sa bene, avendo fatto di questo principio il cardine della sua tecnica terapeutica. Non è forse attraverso la messa in gioco delle passioni e la loro immissione in un campo interpersonale, il transfert coll’analista, che si ha la possibile risoluzione delle problematiche dovute appunto agli “’ingorghi” passionali e alla loro impossibilità a trasformarsi in esperienze cognitive?
La passione ha dunque una forza trasformatrice orientata a cambiare la realtà. In questo senso tra tutte le passioni, quella conoscitiva presenta al massimo questa caratteristica di attività. Il soggetto che compie un’operazione di conoscenza non è in “preda” a delle passioni, passivamente. La passione anzi, è utilizzabile per perseguire uno scopo come quello conoscitivo, che richiede un investimento costante e orientato .
Le passioni hanno addirittura una funzione logica, servono a scegliere i fatti, a metterli al centro dell’attenzione, a considerarli preziosi, importanti, essenziali anzi. In questo senso si può dire che la passione è una strategia ai fini della conoscenza.
Dunque “passione del conoscere” più che della conoscenza, perché un processo non può essere racchiuso solo in una disciplina, non può essere rappresentato solo all’interno dei confini che pure lo definiscono. Il sapere abita luoghi diversi; scienza, filosofia, arte, mito e religione sono state alcune delle forme storiche che l’attività del conoscere ha assunto, sono differenti risposte che l’uomo ha dato alla sua spinta. Per alcune di esse lunga è stata la polemica sulla loro legittimità a essere assunte come luoghi di produzione di conoscenza, per esempio l’arte e la mitologia. A volte il sapere nasce e si consolida in ambiti diversi da quelli istituzionalmente delegati, appartiene all’elaborazione di movimenti interi, come nella storia più recente è accaduto, in parte, per il pensiero femminile e per l’elaborazione delle problematiche multirazziali.
Infatti la passione del conoscere, vista dai vari vertici di osservazione proposti, sembra disegnare dei confini mobili, delle zone in corso di definizione. Legata a una forma di perenne incompiutezza, non indebolisce però la sua sostanza, non nullifica le sue matrici originarie ma, entrando in una tensione generativa col resto che serve a specificarla, esalta la variabilità delle scelte, la creatività delle soluzioni.
«Sognare alla luna»: trasformazioni e contingenza del senso
Sì, le coste turche sono ancora pulite. Mentre la barca è ancorata proprio al centro della baia, meglio godersi l’ultimo bagno prima del calare del sole. Raggiungere a nuoto l ‘isolotto poco distante e poi tornare. L ‘acqua è verde chiaro vicino alla riva. Qualcuno comincia a muoversi dalla spiaggia. Si fa buio. È un po’ doloroso mettere i piedi sui sassi acuminati, ma c’è qualche spazio di sabbia e un po’ di alghe. All’improvviso una pressione leggera sulla caviglia. Aiuto, un polipo! Lascia la presa ma insegue la gamba per un po’, poi scappa veloce verso la roccia.
Ha inizio il gioco delle interpretazioni di ognuno, secondo i propri modelli conoscitivi. Lo spirito scientifico: «È impossibile, un polipo così vicino alla riva!»; l’esperto di psicologia animale: «Non si sarebbe mai spinto a un contatto per poi mollare!»; il conoscitore della ricca fantasia della preda: «È solo una tua immaginazione!». Eppure l’ho visto, ne sono sicura … Giuliano e un altro stanno un po’ più avanti e cercano di scrutare sotto l’acqua, curiosi. Finalmente lo vedono anche loro: è molto grande, scappa veloce e s’infila tra due rocce lasciando fuori i tentacoli. Ma che strana storia! Dopo, sulla barca, il racconto colorito per gli altri. Risa, eccitazione e… «un bello spavento!». Ma la narrazione è finita e, anche se sarebbe bello ripetere ancora e poi ancora, non si può ricominciare di nuovo! Che strana storia! Più tardi sul tavolo, ancora turbata e perplessa, vedo un foglio lasciatomi da Giuliano: «Un polipo romantico sognava alla luna …».
I disegni schizzati sul foglio e le parole che li accompagnano si succedono a illustrare una storia fantastica e terribile: il polipo innamorato viene staccato dalla gamba di Margaretha, ma nell’urgenza dell’azione è tagliata insieme al tentacolo anche la gamba … Giorni tremendi… un medico turco compie il miracolo, ma commette un errore: al posto della gamba attacca il tentacolo … e così la bella, tutte le notti sulla sua barca, sogna nostalgicamente il polipo, che ormai in parte le appartiene … E la paura, l’eccitazione e la curiosità trovano una forma, una via di rappresentazione. E le emozioni sono restituite trasformate. E l’invenzione narra anche della realtà, e ridistribuisce i diversi elementi, e dà corpo alle fantasie, e le colloca in un campo più complesso e più ampio dove varie rielaborazioni dell’evento sono rese possibili. Una trasformazione poetica e cognitiva. D’altronde chi conosceva e voleva bene a Giuliano Briganti, il grande storico dell’arte sapeva della sua libertà immaginativa, della sua capacità di pensiero oniroide, sospeso tra la trascrizione attenta della realtà e la sua trasformazione sognante, della sua capacità di réverie.
Questo tipo di trasformazioni non sono per far luce sulle problematiche personali, anzi altre ne introducono, diverse. A volte quelle dell’altro, o quelle esprimenti la dinamica di un gruppo intero; neppure riguardano la risposta sul “senso”, ma sono delle modalità operative, che nascono direttamente dal contesto e prendono forma come risultato di un incrocio di eventi, di incontri tra diverse individualità, di trasformazioni del campo. Per questo costituiscono un salto immaginativo, ma ancorato al materiale che effettivamente è a disposizione.
L’incertezza sul significato degli accadimenti, se sganciata dalla sua esigenza metafisica, rende le domande “pertinenti” e le risposte “possibili” e “contingenti”. Il senso stesso diventa contingente. E può assumere finalmente una forma, calarsi in un’immagine, determinare uno stato emotivo, suscitare un pensiero, diventare in sostanza “operativo” rispetto alla situazione. Come nel corso evolutivo delle specie, dove a un certo punto l’immensa pluralità delle forme solo per motivi contingenti si fissa in un carattere particolare che diventa dominante. E da quel momento in poi la neo-formazione ha la possibilità di entrare nella storia.
Anche se la domanda su noi stessi e sul mondo rimane radicale, è possibile che Edipo, nel suo interrogare, possa evitare di andare necessariamente incontro alla distruzione e alla morte? è possibile una domanda che non si rivolga solo alle cause nel passato, ma che sia costruttiva del presente? In questo forse è essenziale la funzione di una scienza “riflessiva” che possa liberarci dalla predeterminazione contenuta nell’idea di un destino già segnato e immutabile, e ci aiuti a trovare sempre nuovi modi per rinnovare l’interrogazione, ma con la consapevolezza e l’accettazione che il nutrimento del pensiero deriva proprio da quella parte dell’esperienza che rimane meno esprimibile e su cui possiamo solo operare delle trasformazioni, servendoci di quella funzione mitopoietica su cui si fonda ogni esperienza creativa.
Un polipo sognava alla luna…
Pensieri “insepolti”
Ho riportato in questo articolo quasi per intero la mia introduzione al libro La passione del conoscere nato dagli incontri di Spoletoscienza avvenuti ormai molti anni fa, non solo perchè la trovo in tutto corrispondente al mio pensiero attuale, ma perchè penso che il tema della conoscenza rivesta oggi più che mai una straordinaria importanza.
In molti modi si sono analizzate le conseguenze della pandemia che ci affligge da oltre un anno, ma sarebbe necessario esplorare anche quello che è accaduto in questa situazione alla capacità di conoscenza o ai vari procedimenti del conoscere.
La sorpresa, lo sconcerto, l’inadeguatezza pratico-organizzativa ma soprattutto psicologica, hanno generato dei fenomeni di ottundimento della capacità di comprensione e parallelamente dei fenomeni di negazione che abbiamo visto messi in atto in vario modo da chi sottovalutava l’evento o addirittura ne ascriveva le cause a dei complotti internazionali. Atteggiamenti ascrivibili alla paura e al drammatico tentativo di controllarla, che hanno come esito quello di ricacciare la realtà di quello che stava e sta avvenendo nell’orbita delle fantasie persecutorie soggette all’invenzione di un nemico o comunque un responsabile assoluto quando invece le concause sono molteplici e complesse.
Ma più preoccupante ancora appare l’aspetto della perdita dei valori di riferimento usuali che sarebbero invece gli unici capaci di aiutare a tenersi collegati agli altri ed arginare lo sperdimento e il senso doloroso di perdita. Esempio esplicativo al massimo è quello dei funerali che abbiamo visto essere stati, anche se ora meno in verità, sottovalutati in tutta la loro importanza e significato sia per le persone care dei defunti che per loro stessi che, quando erano ancora in grado di raffigurarsi la propria morte, sapevano che sarebbe stata un trapasso in solitudine.
Eppure sappiamo come i rituali definiscano da sempre nelle varie società le caratteristiche proprie di ogni specifica cultura e come i funerali rivestano un’importanza capitale per il tessuto collettivo e prima ancora per quello psichico individuale.
Sembra quindi incredibile che non si sia riusciti fino a poco tempo fa ad organizzare in qualsiasi modo partecipativo la sepoltura delle centinaia di persone che sono morte per il Covid. Come se l’urgenza della limitazione del contagio, anche se assolutamente necessaria, potesse far perdere di vista la necessità di dare modo ai famigliari di accompagnare i propri defunti in un gesto estremo e praticato dagli albori della cultura umana, anzi fondamento di questa.
Prendo questo che è uno dei tanti esempi che in questa contingenza pandemica sono venuti alla luce, per dire che è come se in alcuni casi, specialmente quando estremi, ci sia stato un crollo della capacità di pensare. Che significa anche poter immaginare e inventare soluzioni.
Bisognava e bisogna “conoscere” il virus per prima cosa, conoscere i modi per annullarne le conseguenze, conoscere le cure e prevedere i meccanismi che possono diffondere la pandemia, ma al di là di queste necessarie operazioni sembra che si sia creato uno scollamento tra le fantasie profonde e la realtà. Queste sono soprattutto angoscianti ma possono essere anche “curative”, se riescono a produrre rielaborazioni simboliche dei vissuti catastrofici.
La conoscenza, invece, sembra essere diventata principalmente di natura descrittiva, o volta all’azione. Ma come lasciare scollegati tra loro gli innumerevoli piani che abbiamo visto, nel processo conoscitivo, essere assolutamente interdipendenti?
Al momento anche nelle esperienze analitiche sembra che quello che è successo non abbia ancora trovato un posto nell’inconscio, i pazienti continuano a parlare delle loro vicende lavorative o sentimentali o famigliari dando l’impressione di occupare sempre lo stesso scenario interno, senza aver incluso le realtà pandemica se non su un piano in qualche modo più cosciente caratterizzato dall’angoscia e soprattutto dalla depressione.
Sembra che ci sia difficoltà a trasferire questa esperienza nell’inconscio. Come se la membrana di contatto che separa il conscio dall’inconscio e che, almeno secondo la visione di Wilfred Bion, servirebbe ad assicurare il passaggio costante e reversibile tra l’uno e l’altro dominio, fosse diventata opaca e impenetrabile e le esperienze fossero costrette a rimanere anche loro in qualche modo “insepolte”, sostando in attesa in una zona di mezzo, un limbo in cui non è possibile avviare azioni trasformative.
Quando non siamo troppo depressi o svuotati o preoccupati, parliamo, ci colleghiamo, ci informiamo, siamo sempre presenti sulla scena, ma non si capisce se è ancora attiva quella funzione che, sempre nell’ottica bioniana, prevede di poter sognare i pensieri perchè possano diventare inconsci. Altrimenti questi ci ingombrano e ci isolano e non rendono possibile “apprendere dall’esperienza” e pensare.
L’inconscio trabocca sulla scena ma non è pensato e il pensiero non è sognato. Ci si chiede come sarà possibile entrare di nuovo in contatto con quella “passione del conoscere”, che ci possa garantire una strategia conoscitiva complessiva e plurifocale, sostenuta dall’Eros e capace di rielaborazione onirica.
Forse è presto per dirlo ma non è impossibile sperarlo.
*Lorena Preta è psicoanalista, Full Member della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association, direttrice della rivista Psiche (dal 2001 al 2009), ideatrice e curatrice di Spoletoscienza (Incontri di scienza e cultura all’interno del Festival dei Due Mondi di Spoleto).