Intimità rivoluzionarie e cura collettiva: oltre i binarismi e le normatività degli affetti

Credits: Emanuele Forzani

di Dania Piras *

Il cuore,
diceva la nonna,
ha più stanze
di un bordello,
ma è difficile
tenere in ordine
e pulito
per ogni ammmore
e ogni amicə,
forse dovrei lasciare
che ciascun nel mio cuore
abbia il suo spazio
autogestito

-anonimo nei bagni dell’Aut Aut, Genova-

Dove abbiamo imparato tutto quello che sappiamo sulle relazioni?

Questa è la domanda con la quale apro ogni discorso, lezione, conferenza, gruppo di scambio, supervisione. La ritengo una domanda di zooming out, che ci permette di intrecciare la disciplina della psicologia con le sue sorelle: sociologia, antropologia, filosofia.

Nel corso della mia formazione ho maturato sempre di più l’idea che qualsiasi nozione che ci venga insegnata deve innanzitutto essere passata al vaglio del dubbio. Comprendere le radici della teoria della mente che scegliamo per lavorare con i pazienti è fondamentale per riconoscere quanto rischiamo di partecipare inconsapevolmente alla loro sofferenza.

L’argomento delle relazioni è centrale nel nostro lavoro perché lavoriamo con la complessità umana. Una complessità che fatichiamo moltissimo a concepire nella sua varietà e fluidità, nonostante la parola ci inviti, con la sua etimologia (dal latino cum-plexus), ad abbracciare, tenere insieme, tessere insieme. E anche relazione ha un significato attiguo, perché relatus participio passivo di referre, significa proprio riferito, legato a. La relazione ci parla del legame e, per estensione, della complessità dei legami che le persone possono creare nell’arco delle loro vite, e dell’impatto che tale complessità ha sul loro benessere.

La creazione di nuovi paradigmi normativi

C’è stato un punto della storia Occidentale in cui siamo passati dall’attribuire le nostre emozioni e i nostri sentimenti a noi stess3 anziché a movimenti planetari e volere divino (Barbetta, 2012, AA.VV., 2004). Di fronte alla paura di perdersi dentro tutto questo caos di possibilità così particolari, le scienze hanno tentato di creare appigli, trovare pattern, respirare un po’ di certezza dentro l’individuazione di categorie ben definite. (Nota 1)

Proprio come Linneo ha fatto con le piante, anche i nascenti specialisti della mente umana hanno cercato di catalogare e semplificare l’anima e i suoi patimenti. Una buona causa dalle buone intenzioni, che però all’interno di rivoluzioni politiche, economiche, religiose, culturali è diventata un dispositivo di potere, contribuendo a creare nuovi paradigmi normativi che ancora imperano indisturbati.

Nota 1 Per approfondire la storia della nascita della terminologia della comunità LGBTQIA+ e della relativa patologizzazione vedasi: De Leo, M. (2021).

Il binarismo amore – amicizia

Un paradigma centrale sul quale è necessario soffermarsi è quello del binarismo amore romantico e amicizia, una costruzione storica e culturale che Foucault stesso riconosce come una delle dimensioni in cui si manifesta il biopotere, ovvero il modo in cui il potere si esercita sui corpi e sulle vite delle persone, specialmente attraverso il controllo della sessualità. Ne L’uso dei piaceri, secondo volume della Storia della sessualità, il filosofo discute di come la morale sessuale nelle società occidentali abbia promosso l’idea dell’amore romantico monogamico come superiore, relegando altre forme di affettività (come l’amicizia) a uno status minore (Nota 2).

Nota 2 La visione foucaultiana rimane comunque relativa ad un’esplorazione prettamente occidentale. Per una prospettiva più ampia vedasi: Ann Laura Stoler (1995).

L’istituzionalizzazione e la romanticizzazione dell’amore, ovvero l’intreccio di queste due dimensioni, sono state la miccia di una rivoluzione nella concezione di relazione, di coppia e di famiglia. Come ci racconta Stephanie Coontz nel libro Marriage, a history (2005),sposarsi per amore (romantico) non è mai stato il punto del matrimonio, né lo è tuttora in moltissime altre culture. Eppure negli ultimi duecento anni circa questa narrazione ha preso piede in Occidente a tal punto da sembrare qualcosa di incredibilmente naturale, innato, universale e auspicabile. A livello di pressione sociale, ancora oggi, legarsi giuridicamente è qualcosa di quasi obbligato (la parola single, che dovrebbe indicare lo status di singolo, viene significata come solo. La solitudine è, purtroppo, ancora uno stigma e un dolore profondamente contemporaneo).

L’amatonormatività

Quando parliamo di amore pensiamo immediatamente a quello romantico, e lo interpretiamo come esclusivo, eterno, pronto al sacrificio, imperturbabile ai mutamenti, come nel famoso sonetto 116 shakesperiano (Shakespeare, 1609).

Parliamo di esso come del Vero Amore ™, e condividiamo questo presupposto teorico a livello sistemico: dai discorsi con gli amici, ai dialoghi nelle serie tv, ai drammi nelle stanze di terapia. Per questa ragione abbiamo bisogno di riconoscerlo come paradigma normativo – o con il suo altro nome: amatonormatività (Brake, 2012).

Tale paradigma ha elevato l’amore a un’esperienza trascendentale e assoluta; solo notandone le principali caratteristiche possiamo riportarci all’interno di una concezione di autentica complessità della capacità di amare umana.

L’amore romantico porta dentro di sé l’idea di dover essere travolgente e totalizzante per essere autentico, creando aspettative irrealistiche e mettendo eccessiva pressione sulle relazioni, che spesso appaiono “fallimentari” se non raggiungono questi ideali.

Un esempio di questo fenomeno lo possiamo riscontrare nel linguaggio economico che utilizziamo per descrivere le relazioni che, come osservato da Eva Illouz (2013), riflette una mentalità di mercato. Frasi come “investire nella relazione” o “perdere tempo con la persona sbagliata” riducono l’amore a una transazione. Questo porta a scegliere i partner secondo una lista di requisiti da soddisfare, come se fossero prodotti da valutare. Secondo Illouz, ciò deriva dall’influenza del capitalismo, che razionalizza l’amore trasformandolo in un bene di consumo, dove relazioni che non soddisfano aspettative immediate vengono rapidamente scartate (e ciò accade prevalentemente nell’esperienza monogama, potendo scegliere una sola persona per la vita), creando un fenomeno che alcun3 autor3 definiscono “monogamia compulsiva” (Frye, 1992, Schippers, 2016, Kattari, 2023).

Tutto ciò si connette ad un’altra convinzione romantica, ovvero che l’amore debba durare per sempre, creando la percezione che le relazioni debbano essere permanenti per avere valore. Brigitte Vasallo critica questo modello nel suo “Per una rivoluzione degli affetti. Pensiero monogamo, terrore poliamoroso” (2022), sottolineando come l’ossessione per la durata e la stabilità delle relazioni sia parte di un sistema mononormativo (ovvero che valida il modello monogamo come unico modo sano e maturo di stare in relazione) che svaluta le esperienze affettive più fluide e temporanee.

Inoltre, l’enfasi sull’esclusività come suggello di autenticità del sentimento ha preso una deriva pericolosa coinvolgendo emozioni come la gelosia, fondendola con la cultura del possesso (eredità patriarcale) e promuovendo l’idea che una relazione amorosa significhi possedere e controllare l’altro. In questo modello, il successo e la felicità individuale sono spesso legati alla realizzazione di una grande storia d’amore, marginalizzando altre forme di affettività e connessioni, come l’amicizia o le relazioni familiari. Come nota Giddens (1992), l’enfasi eccessiva sull’amore romantico e sessuale ha portato a un sovraccarico di aspettative nelle relazioni, aumentando il rischio di frustrazione e delusione. Per non parlare, ovviamente, degli effetti tragici che questa nozione comporta dal punto di vista della violenza di genere, e di quante donne oggi sono polvere a causa del “troppo amore” (Vagnoli, 2022).

Oltre il binarismo di amore e amicizia

Le prescrizioni normative culturali dell’Occidente e le istituzioni hanno quindi tracciato un solco artificiale tra amore e amicizia, un solco asimmetrico che si presenta come una linea di confine, che si sposta di continuo durante una guerra di trincea. Questo confine, però, come abbiamo visto, non ha un fondamento naturale: non esiste nulla che possa decretare universalmente dove l’amore finisce e dove inizia l’amicizia (Barker, 2018). La nostra cultura ha prodotto tale separazione, creando aspettative rigide su come dovrebbero essere vissuti i legami affettivi.

In qualità di terapeut3, spesso ci troviamo a confrontarci con pazienti che cercano di orientarsi in questo paesaggio fratturato. Il sesso e l’amore diventano i monarchi indiscussi dei discorsi, adornati di credenze ereditate e perpetuate senza una reale consapevolezza critica. Il linguaggio terapeutico rischia di rinforzare queste norme, quando ci dimentichiamo di mettere in discussione i nostri stessi presupposti teorici, figli anch’essi di una cultura bianca e borghese.

Molte persone arrivano in terapia con l’ansia di dover collocare i propri sentimenti e relazioni  all’interno di  categorie prestabilite.  Si  chiedono:

“È giusto amare più persone?”,

“Quanto affetto è troppo prima che diventi amore?”

“Il sesso cambierà tutto?”.

Queste domande rivelano un bisogno di collocarsi al di qua o al di là di un confine rassicurante, che spesso rischiamo anche di patologizzare.

Prima ci siamo chiest3:

Dove abbiamo imparato tutto quello che sappiamo sulle relazioni?

Dunque ora possiamo chiederci:

Chi stabilisce questo confine?

Le relazioni queerplatoniche: dissipamento del confine

Come spesso accade, i paradigmi vengono messi in discussione dal basso, dalle singolarità dissidenti che in certe regole non trovano posto. Può succedere pertanto che si radunino in comunità, sottoculture, gruppi sociali e che provino a dare un nome a ciò che vivono.

Nel caso del binarismo amore/amicizia, la comunità asessuale e la comunità aromantica hanno coniato un termine ancora poco conosciuto che prova a descrivere tutte quelle sfumature che dissolvono il confine, mischiando gli ingredienti a piacere e provando ad autodeterminare la forma delle proprie relazioni. Le relazioni queerplatoniche (Simula, Sumerau, & Miller, (Eds.), 2024, Birdsong, 2024)sono proprio questo: relazioni profondamente intime, nei quali i ruoli e le aspettative sono discussi e definiti insieme. Le relazioni queerplatoniche sono relazioni della possibilità.

Il termine “queer” contenuto all’interno è da intendere secondo la definizione di bell hooks (2014), ovvero: <<Essere in contrasto con tutto ciò che ti circonda e che deve inventare, creare, e trovare un luogo in cui parlare, prosperare e vivere>> e quella di Michela Murgia: <<[…] La queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale. […] La queerness è una scelta radicale di transizione permanente>> (2023, pg. 28-29)

Il termine platonico invece si rifà a quel qualcosa che culturalmente scolleghiamo dal sesso e dall’amore romantico: è un punto di ri-partenza.

Nella relazione queerplatonica l’incontro sessuale è una possibilità, non un bollino di garanzia della validità della relazione. Anche il cosiddetto amore romantico può trovar posto, una volta decostruito dalle sue aspettative ereditate dal modello amatonormato. In particolare, proprio per andare oltre il binarismo dei concetti e la limitatezza delle parole, le persone aromantiche hanno coniato il termine “squish”, che serve per descrivere un forte attaccamento emotivo e un’intensa connessione affettiva tra due persone, una forma di amore o affetto, ma senza connotazioni romantiche o sessuali.

Probabilmente ci sono moltissime persone che vivono relazioni queerplatoniche senza saperlo. Così come ce ne sono molte che in questa definizione trovano sollievo, riconoscimento, una sensazione familiare, e magari riescono ad avere un’immagine di sé meno deviante.

Questo spunto di decostruzione ci porta inevitabilmente verso altri posizionamenti non convenzionali che ci parlano di complessità, che necessitavano di questo excursus, al fine di far comprendere che come terapeut3 abbiamo il dovere deontologico di incorniciare il fenomeno all’interno di un quadro molto più ampio e profondo di alcune letture parziali, moraleggianti e giudicanti che purtroppo dilagano su questi temi.

Le non monogamie

Infatti, date tali premesse, le non monogamie emergono non solo come una pratica relazionale, ma come una sfida attiva alle norme affettive predominanti.

Non si tratta semplicemente di amare e/o fare sesso con più persone, ma di ridefinire il valore della connessione al di fuori dei paradigmi gerarchici e monogamici. Parliamo del come, prima che del quanti e del cosa.

La dicitura non monogamie è un termine ombrello che contiene molte sfumature e tipologie relazionali. In questa sede, oltre al più conosciuto poliamore, ritengo sia fondamentale mantenere lo sguardo sul concetto di anarchia relazionale, così come teorizzata da Andie Nordgren nel Relationship Anarchy Manifesto (2006).

L’anarchia relazionale e la cura collettiva

L’anarchia relazionale è la filosofia dell’orizzontale relazionale. Potenzialmente, anche una persona che vive relazioni esclusive dal punto di vista sentimentale e sessuale potrebbe essere anarchica relazionale: il focus di questo pensiero è la decostruzione del binarismo amore/amicizia e la messa in discussione di una gerarchia del primo sulla seconda. Invita le persone a considerare la cerchia affettiva nella sua singolarità, valorizzando il contributo specifico di ogni persona nella propria vita e prendendo accordi su misura, non prefabbricati dal ruolo assegnato socialmente. L’anarchia relazionale è la queerness applicata alle norme relazionali, come un enzima che scompone e digerisce, tenendo ciò che della norma ha senso e funziona per il benessere, e lasciando andare ciò che di prescrittivo portava con sé.

Possiamo pensare alle relazioni come composte da diverse dimensioni, non solo quella romantica/sessuale. Tali dimensioni possono includere: domestica, longlife, romantica, amicale, sociale, caregiver, co-caregiver, sessuale, con contatto fisico, business, kinky, collaborativa, finanziaria, supporto emotivo, intimità emotiva, e così via.

L’anarchia relazionale ci ricorda che non è necessario trovare tutte queste dimensioni in un’unica relazione. Al contrario, esse possono essere combinate e distribuite in base alle risorse e alle caratteristiche uniche di ogni legame. Non a caso un collettivo di persone anarchiche relazionali ha creato la Smorgasbord Relationship Anarchist. La Smorgasbord è un concetto che nasce dall’idea svedese di un buffet (smörgåsbord), dove le persone possono scegliere ciò che preferiscono tra una varietà di opzioni, evitando di seguire un percorso prestabilito. Applicata all’anarchia relazionale questa metafora aiuta a visualizzare le diverse componenti delle relazioni, in modo che le persone possano decidere se basarsi su modelli tradizionali come quello della relazione monogama o gerarchica.

Una metafora efficace per spiegare l’anarchia relazionale che amo utilizzare è quella del giardino: ogni pianta ha le sue caratteristiche, richiede manutenzione e attenzione in modo specifico, e dona gioia, conforto, fatica con modalità differenti.

La fioritura di un giovane ciliegio darà qualcosa di diverso dall’ombra fresca e accogliente della grande vecchia quercia, così come la cura che richiede il basilico sarà diversa da quella richiesta da un cactus; ma in ogni giardino che si rispetti, ogni pianta avrà il suo posto e un confortevole terreno per fare spazio alle radici.

L’amore per ogni pianta è abbondante e unico.

“Perchè se siamo bosco è inutile che una pianta faccia primavera se il resto muore lungo il cammino. Il bosco è un’altra cosa.” Vasallo (2022, p. 254)

In questa citazione, Vasallo porta il focus su ciò che ha senso che caratterizzi una relazione: non l’eternità, non l’esclusività, non il possesso, non l’immutabilità, ma la cura. La cura oltre il ritorno personale dell’individuo, la cura collettiva, del sistema in cui siamo immersi e interconnessi. In questa concezione, la cultura del consenso alla base del modello relazionale del poliamore si rifà proprio a questo: il mio sentire non è più il centro di tutto, perché al centro si colloca il come ognunə di noi potrebbe sentirsi in conseguenza a come ci relazioniamo. (Nota 3)

È il senso-con, l’avere senso in questo mondo non pensandoci secondo il pensiero dell’homo homini lupus, ma assicurandoci che nessunə resti indietro.

In una società capitalista, che mette la performance come misura del valore personale, che ci ricorda ogni giorno che il tempo e il denaro sono risorse costantemente minacciate e che ci vuole rivali e divis3 per essere più controllabili, scegliere di orientarsi ad un paradigma della cura è difficile e rivoluzionario. Anche per noi terapeut3 a volte è faticoso lavorare tenendo in mente tutti questi fili che si intrecciano e tutto l’impatto che ne deriva sul mondo del futuro: siamo umani, semplifichiamo per rendere più gestibile una mole di fluidità che ci sfugge in continuazione e che cambia con una velocità inconcepibile, a cui è normale fare resistenza.

Nota 3 Per approfondimenti sulla visione dell’autrice vedasi: Piras, D. (2023).

La famiglia Queer

Abbiamo detto che l’istituzionalizzazione del legame romantico è considerabile una parte fondamentale della nascita del sistema monogamo, il quale è stato esportato presso altre culture insieme al binarismo di genere e altre credenze sulla sessualità (Lugones, M. (2007a) Lugones, M. (2007b). Proprio attraverso questa istituzionalizzazione ancora oggi vengono riconosciuti dei diritti solo ad una parte della popolazione: diritti che, non essendo per tutt3, sono in realtà privilegi.

Affinchè un legame sia riconoscibile dalla comunità di riferimento e dallo Stato, ad oggi esiste un contratto prefabbricato che dona diritti e doveri e che applicando il biopotere decide i termini nei quali due persone possono disporre dei sentimenti, dei corpi e dei beni l’uno dell’altro (salute e morte comprese). Tale contratto è il matrimonio, e serve a creare un legame al pari di quello di sangue (Nota 4).

Quando sussiste tale accordo tra i nuclei affettivi e lo Stato, si arriva a parlare di famiglia in senso giuridico.

Ma che ne è delle persone che non possono rientrare in questa istituzionalizzazione, per genere, per numero, o per incompatibilità con il pacchetto standard? Da un lato, l’assenza di una giurisdizione che riconosca legalmente queste relazioni non convenzionali ha un impatto profondo sulla salute mentale, spesso alimentando forme di minority stress (Nota 5).

Per le persone poliamorose, ad esempio, la non riconoscenza giuridica delle loro relazioni può portare a sentimenti di invisibilità, marginalizzazione e vulnerabilità economica e sociale. In aggiunta, dal punto di vista pratico, l’assenza di uno status legale per le relazioni poliamorose significa che i partner possono avere difficoltà a prendere decisioni mediche per lǝ loro carǝ, a condividere benefici o eredità, e a proteggere i figli da situazioni legali complicate. Questo contribuisce a una forma di stress cronico che può tradursi in ansia, depressione e una diminuzione del benessere complessivo. Come rileva Weitzman (2006), molte persone poliamorose vivono in un costante stato di allerta, consapevoli che il loro modo di amare non solo è stigmatizzato, ma anche vulnerabile dal punto di vista legale.

Nota 4 Sui legami di sangue, si consiglia la lettura del capitolo “Fecondità” del libro Dare la Vita di Michela Murgia (2023, cit.).

Nota 5 Questo concetto, elaborato da Meyer (2003), si riferisce allo stress cronico sperimentato da individui appartenenti a minoranze stigmatizzate, che deriva dal continuo confronto con pregiudizi, discriminazioni e una mancanza di protezione legale. Vedasi ad es.: Bertone, C., & Federica, D. C. (2022).

Allo stesso tempo, però, un riconoscimento giuridico applicato senza una riflessione critica si limiterebbe semplicemente ad ampliare dei diritti ad una popolazione minoritaria che forse non ne avrebbe bisogno nella stessa modalità della maggioranza. Come possiamo pensare di applicare un modello così rigido a qualcosa di fluido e complesso? (Nota 6)

Nota 6 Per  approfondimenti  e  riflessioni  giuridiche  nel panorama  italiano vedasi:

Pes L., Grande E. (2018). Di Masi, M. (2019). Vercellone, A., Pecile, V. (2023). Roseneil, Sasha & Budgeon, Shelley. (2004). Cultures of Intimacy and Care Beyond “the Family”: Personal Life and Social Change in the Early 21st Century. Current Sociology – CURR SOCIOL. 52. 135-159.

E a questo punto non mi riferisco solo alle persone LGBTQIA+ (tra cui comprendo anche quelle poliamorose). Mi riferisco a tutte quelle famiglie “non tradizionali”, anche eterosessuali e con accordi di esclusività, che però sono allargate, ricomposte, o formate da un solo genitore, o da nonni e nipoti, amici che crescono figli3 insieme, e tutte le variegate forme di stare insieme e sentirsi in un legame affettivo significativo (Roseneil, Sasha & Budgeon, Shelley (2004).

Potremmo pensare a queste famiglie come queer, se le pensiamo nella definizione data precedentemente: nuclei d’amore a buffet che rompono lo schema, che non trovano posto, che stanno sempre sulla soglia e che arrivano nelle nostre stanze di terapia a chiederci chi sono, dove si possono collocare, dove diavolo è il confine. Ancora una volta, anche qui, la ricerca del confine per trovare spazio, pace, per appartenere e avere riconoscimento. Noi non abbiamo il potere giuridico di annullare i confini, ma abbiamo il potere terapeutico di insegnare a stare sulla soglia. A volte noi figure di cura siamo coloro che possono aiutare ad accettare l’esistenza sulla soglia assottigliando il bisogno del confine.

La nostra parte come terapeut3

Per questa ragione è fondamentale andare oltre i nostri bias e riconoscere, come terapeuti, che la relazione queer è un atto politico. Per questa ragione è necessario muoversi in direzione di tali identità e tali scelte con un approccio culturalmente umile (Yeager, Katherine A., and Susan Bauer-Wu. 2013). Quando ci permettiamo di porci una domanda in più sulle teorie psicologiche nate in seno all’occidente bianco, quando riconosciamo l’inapplicabilità universale delle nostre categorie diagnostiche (e non) e la non neutralità della scienza, stiamo creando uno spazio terapeutico di queerness, uno spazio consapevole. (Nota 7)

Nota 7 La quale, scienza, come ama ricordare la mia collega Eleonora Marocchini (@narraction) nella sua newsletter Scienzolitica, è legata a chi può accedervi, a chi la paga, a chi la fa, su chi o cosa la fa e su chi o cosa ha conseguenze.

Nella pratica clinica, questo ci richiede di abbandonare le prescrizioni normative e di esplorare nuove modalità di supporto, in cui le persone possano esprimere la propria affettività senza sentirsi costrette a conformarsi ad un modello relazionale prestabilito. Del resto questa è anche l’essenza della nostra professione, che non nasce dalle tassonomie diagnostiche di Charcot e Krafft Von-Ebing, ma dalla curiosità per l’animo umano nella sua ineffabilità, da infinite storie scritte e orali di cui siamo eredi e, a volte, rapsodi (Nota 8).

Il nostro paradosso professionale a volte risiede nello studiare e scrivere fiumi di inchiostro sulla complessità, salvo poi attribuire la maturità emotiva dei soggetti al desiderio di “mettere testa a posto”, stabilizzarsi, fare famiglia, desiderare un solo corpo e una sola anima prima di ogni altra per il resto dei suoi giorni. Questo non è un desiderio universale, e non è una chiave di lettura universale per il benessere dei miliardi di individui che calcano questo pianeta. É una delle tante possibilità, ma non l’unica possibilità. Senza rendercene conto, rischiamo di attribuire un valore morale alle esistenze che camminano fuori dai bordi.

Nota 8 Durante una delle sue lezioni ai tempi dell’università, il Prof. Barbetta disse a noi studenti: “É più probabile che troviate un vostro paziente nell’Amleto di Shakespeare che tra i criteri del DSM”.

Therapèia significa cura. Noi riconosciamo ferite, e le curiamo prendendocene cura. Molte delle ferite relazionali delle persone che si rivolgono a noi vanno oltre il palcoscenico del triangolo edipico, come già notarono Félix Guattari e Gilles Deleuze (1977), perché sono ferite collettive, sociali, culturali, continentali, globali. Se è vero che la rigidità dei tratti di personalità fa il disturbo, cosa possiamo dire della rigidità delle teorie in cui ci areniamo, se mentre un paziente ci parla dei suoi affetti a noi ronza in testa che il poliamore sia in realtà un “tradimento legalizzato” o che la sua libertà sessuale (che ci piace a volte definire promiscuità) sia da inserire tra i criteri diagnostici? Siamo in grado di riconoscere il doppio standard che applichiamo agli orientamenti relazionali non monogami?

Spesso mi chiedono cosa penso di una eventuale correlazione tra stile di attaccamento evitante e poliamore. In tutta risposta, chiedo cosa pensano di un’eventuale correlazione tra attaccamento ansioso e monogamia. Il bias è palese, è tutto qui.

Decostruirci per l’alleanza terapeutica

Siamo chiamat3 ad essere consapevoli dei nostri pregiudizi. La mononormatività è insidiosa e si annida anche nel linguaggio che utilizziamo in seduta: il modo in cui chiediamo ai pazienti di descrivere le loro relazioni, le cose che diamo per scontate, l’importanza che attribuiamo al partner romantico-sessuale rispetto ad altri legami, il sopracciglio della coerenza che scatta quando ci comunica che nonostante le sue scelte si sente divorare dalla gelosia. Spesso non ci accorgiamo che, così facendo, perpetuiamo lo stesso sistema che produce la sofferenza che cerchiamo di curare (Nota 9).

Nota 9 Per  approfondimenti  sul  lavoro  con  pazienti  non  monogam3  vedasi:

Barker, M., & Berry, M. D. (2014), Blumer, M. L. C. (2014), Blumer, M. L. C., Haym, C., Zimmerman, K., & Prouty, A. (2014), Brownlee, A., & Girard, A. (2015), Cassidy, T., & Wong, G. (2018). Conley, T. D., Ziegler, A., Moors, A. C., Matsick, J. L., & Valentine, B. A. (2013), Davison, J. (2002), Schechinger, A. H., & Sakaluk, K. J. (2018), Zimmerman, K. J. (2012).

A questo proposito, è necessario ricordare che le ricerche nel campo della psicologia relazionale e della sessuologia hanno messo in evidenza quanto la mancanza di consapevolezza sulla diversità delle strutture relazionali possa portare a microaggressioni, anche involontarie, specialmente verso chi si identifica come persona non monogama. Queste microaggressioni possono manifestarsi in diverse forme, spesso sottili, e possono danneggiare l’alleanza terapeutica e la buona riuscita del percorso psicologico.

Tali microaggressioni includono l’invalidazione delle relazioni secondarie, con l3 terapeut3 che danno più importanza alla relazione primaria o percepita come monogama, e la patologizzazione del desiderio di più relazioni, interpretato come “immaturità” o “incapacità di impegnarsi”. Inoltre, la gelosia viene spesso vista come segno dell’inefficacia del poliamore, ignorando che è presente in tutti i tipi di relazioni. L’uso di un linguaggio che presuppone la monogamia, come chiedere “Hai una relazione seria?”, invisibilizza le relazioni multiple o queerplatoniche. Lo scetticismo verso la stabilità delle relazioni non monogame è un’altra microaggressione che sminuisce la loro validità, e a volte si declina anche nell’insistenza a voler esplorare conflitti interni tra partner, come segno che le relazioni poliamorose non siano sostenibili.

Per questo lavori e produzioni cliniche come quelle di Fern (2020) – che pubblicò il libro Polysecure nel 2020 a proposito di teoria dell’attaccamento e non monogamie – sono riferimenti preziosi per cominciare a mettere in discussione gli assunti psicologici sui quali basiamo tutti i nostri interventi clinici.

Conclusioni

È fondamentale per noi, come terapeuti, riconoscere che molte delle sofferenze individuali non nascono da problematiche individuali isolate, bensì sono profondamente radicate in norme e valori sociali restrittivi, in binarismi totalizzanti. Ognunə di noi si colloca in una cornice intersezionale di privilegi ed oppressioni, inserendosi in una storia collettiva più ampia (Crenshaw, (1989).  Riconoscere la matrice sistemica che sottende a molte manifestazioni di dolore è il primo passo per la decolonizzazione degli spazi terapeutici, per abbracciare una pratica clinica di autentica cura, non neutra (nulla è neutro) ma consapevole, che valorizzi e rispetti la diversità delle esperienze umane.

“The revolution is here and it is us.” – Paul B. Preciado.

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* Dania Piras è psicologa, consulente sessuale e docente presso vari Master di sessuologia, dove conduce moduli formative sulla consulenza con le persone non monogame