di Santa Bellomìa
“Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”
Tolstoj
Io ricerco il consenso. Non è una domanda. Io ricerco approvazione, applausi, appoggio. Io ricerco riconoscimento. Io desidero, con un ardore bruciante, di essere vista, notata e apprezzata. Con un solo feroce participio, amata. Per queste ragioni non mi importa dell’universo virtuale. Non utilizzo i social perché lì l’amore e la devozione sono fugaci, rapidi e passeggeri. Si esauriscono. Sono senza memoria e interscambiabili. Non di rado guidati da mani altrui, da complottistici algoritmi di potere. Non voglio un segno di approvazione che rappresenta emozione, no. IO bramo l’emozione. La voglio cogliere nello sguardo di chi ho di fronte. Voglio bere, assetata e morente, lo scintillio di occhi consacrati. Voglio il sigillo del gradimento e lo voglio toccare. Voglio esserci. Voglio essere al centro, citata, abbracciata dall’adesione, toccata dal gradimento. Io ho bisogno di questo mantello. Ne ho un bisogno fisico. Non si tratta di numeri, non si tratta di accoliti distanti. Si tratta di amore. In caso contrario: non esisto. Ciò avviene da sempre, da quando ho memoria. Il costo è ed è stato elevato. Una contrattazione all’ultimo rilancio nel tentativo ossessivo di essere la primeggiante stella nel cielo di chi si affaccia al mio orizzonte. È cominciata all’esordio, lo so. È cominciata per l’esigenza di distinguersi ed essere unica, per ottenere il punteggio più alto nella scala di approvazione di chi mi ha messo al mondo. Poi è stato inevitabile. Poi è stato ripetere un copione che, in fondo, pur essendo uguale a sé stesso giorno dopo giorno, riusciva con guizzi improvvisi anche a stupirmi. Perché è certo doveva in qualche modo sorprendere anche me, in un effetto che mi consentisse di non comprendere fulmineamente l’esistenza di un mio piano prestabilito. Ma quanto a lungo è consentito ingannare sé stessi?
Il prezzo del consenso è una rappresentazione infinita nel mio caso. Una recita può apparire eccessivo, ma è di questo che parlo. Una richiesta sempre più alta alla mia intima natura per sentire di essere amata. Amata ed allo stesso tempo irraggiungibile. Amata e perfetta. Senza sbavature, senza crolli. Il prezzo del consenso è la perfezione: la più dura delle sentenze pronunciate dal segreto tribunale che ognuno ha dentro. È un fine pena mai da cui è impossibile evadere. È la scientifica costruzione di un’esistenza di detenzione.
La prigione ha pareti invalicabili, costruite con pietre di paure segrete. Le sbarre odorano di seduttivi pensieri e piani per raggiungere i sensi degli altri, conquistarli, finirli. Una ad una le ho costruite. Con la perizia e l’attenzione del giusto sorriso, della corretta parola al momento opportuno, dell’abbraccio, del cenno distribuito con scientifica accortezza. L’interno della cella è così minuscolo da soffocare e ad ogni espugnazione, vera o presunta, si restringe fino a che puoi toccare le pareti. Ordinati e fissi osservano i secondini ogni movimento. E sono soldatini di latta, inermi e ridicoli a cui do vita, di volta in volta. Sono le ennesime rappresentazioni vigili, abili a mistificare. Sono i guardiani della libertà di essere. Sono gli osservatori silenziosi, la minaccia più ardita. Sono coloro che garantiscono il perpetuarsi della ricerca di consenso. Sono me e sono minacciosi. Ed i suoni stridono di tanto in tanto. Ma non si comprende subito che, mescolato alle esclamazioni di accettazione e favore, rimbomba l’eco flebilissimo di un disaccordo.
Eccomi. Sono quell’ inavvertibile suono. Quasi non mi trovo più. E cerco me stessa. MA come posso riconoscermi? Il mio senso sembra essersi smarrito, nella moltitudine festante delle maschere nel carnevale del consenso. Sarò come tu mi vuoi e mi amerai per sempre. Sarò come tu mi vuoi e non mi troverò più.
In effetti, se provo ad osservare la scena, le mie spalle cominciano a curvarsi. Ed ho pure un piccolo neo nell’anima che, più scorre inesorabile il rintocco del tempo, più mi duole. È dentro, in una profondità appena percettibile ma esiste. È uno spasmo sordo, come il suono di campane in lontananza nelle domeniche in cui la pigrizia rallenta il risveglio. Provo ad uscire dal palcoscenico, boicottare anche le parole che riportano alla drammaturgia di una messinscena. Provo a scivolare, lentamente. Come fosse un canale obbligato ma morbido. Senza strappi violenti, senza colpi repentini. Rompo le catene che mi legano al vortice potente della ricerca appassionata di gradimento. Perché abilmente, le ho erette anche a mia insaputa ed ora la soluzione non verrà come un magico insight, non avverrà con la forza prorompente di una nudità estrema. Cercherò sempre come tutti noi di essere amata. Cercherò sempre nello sguardo degli altri un cenno di approvazione. Non potrò che accettare questa eterna doppiezza, questa ambiguità duplice e appiccicosa.
Il solco che conduce ad una libertà mia e segreta non è una linea retta anche se per anni ho inquadrato il cammino dell’esistenza con questa lente. Era distorta la luce che intravedevo. Distorta e fredda, come la noia infinita di un passo senza inciampi.
Era una finzione di scena: nessuno è amato all’infinito. Nessuno, neppure Dio.
Sono viva e svincolata dall’ adorante approvazione degli occhi del mondo. Scorgo la luce attraverso le crepe del disappunto e ciò mi incanta. Sono dentro un’esistenza reticolata di rughe asimmetriche, di segni disordinati e tragici, in una dissonanza armonica che conquista. Sono io, disapprovata e screditata. Infine assolta.
Il prezzo del consenso è la rinuncia allo splendore e alla bellezza imperfetta, mobile e viva dell’universo. Universo di dentro, Universo di fuori.