Riflettere su un tema come la conoscenza, da qualunque prospettiva lo si inquadri, presuppone a mio parere la necessità di identificarla. Che cosa è la conoscenza? Ne esiste un’unica tipologia?
Riconoscere, nella possibilità della sua acquisizione, un diritto fondamentale può, se lo definiamo in modo univoco, rischiare di occultare le sfumature che caratterizzano tale concetto (e gli ambiti a cui esso si applica)? E, soffermandoci sulle potenziali infinità di tali sfumature, ne può esistere una, specifica, a cui gli esseri umani accedono “in quanto esseri umani”, o per meglio dire, al fine di diventare tali? Un tipo di conoscenza “antropo-poietica”, “innata”, la cui possibilità di apprendimento, di fruizione, il diritto di poterne usufruire sembrano inscritti nell’essenza stessa dell’umanità?
“Fare Umanità”
Per decenni gli antropologi hanno viaggiato per il mondo con l’obiettivo di scoprire le innumerevoli modalità di “essere umani”. Lo hanno fatto per i motivi più svariati, dall’originaria scelta (più o meno connivente, più o meno “mascherata” per necessità) di affiancare il potere coloniale, a partire dal XIX secolo, nei suoi compiti amministrativi1, alla più “innocente” volontà di ricerca scientifica, o ancora al desiderio (scopo della partenza, o rivelatosi durante il periodo sul campo) di schierarsi accanto a chi, dal potere, veniva perseguitato, oppresso e discriminato.
Quale fosse l’obiettivo, entrare in contatto con altri mondi ha permesso di cogliere, tra le altre cose, quanto fosse diffusa (si potrebbe utilizzare in tal senso la nozione di “semi-universalità” elaborata da Maurice Bloch) la pratica del costruire, del creare, dell’inventare “umanità”, esperita di solito tramite rituali di iniziazione.
Trasmettere la conoscenza necessaria a diventare esseri umani è un atto che attraversa la storia, e per dirla con Francesco Remotti, <<attiene al senso più profondo dell’umanità>>2
Ne sintetizza mirabilmente il concetto Alan Badiou nel suo “La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani”, affermando che:<<(…) Un’iniziazione simile è esistita per secoli e ha costituito una parte molto importante della storia dell’umanità. Per tutte le decine di migliaia di anni in cui è vissuto il mammifero che è l’uomo, il bipede implume, sono sempre esistiti riti di iniziazione, passaggi specifici, socialmente organizzati, fra la giovinezza e il mondo adulto, che potevano essere marcature sul corpo, terribili prove fisiche e morali, o ancora esercizi prima proibiti e ora consentiti>> 3
Come possiamo definire questo tipo di conoscenza, tramandata di generazione in generazione non con lo scopo di determinare la formazione di un profilo statico, rigido, ma caratterizzata dal presupposto, sempre secondo Remotti, che <<l’umanità non è data, non è stata costruita una volta per tutte (quando mai ciò sarebbe avvenuto e grazie a chi o a che cosa?), ma di volta in volta essa va costruita e modellata?>> 4
La ricerca antropologica, insieme a quella di altre discipline che sono alternativamente sue estensioni, come l’antropologia medica, o che con essa dialogano e si compenetrano costantemente, come l’etnopsichiatria, ci dicono che questo tipo di conoscenza non è priva di ambiguità e si è spesso dimostrata interessata a voler assolvere scopi ben precisi nella sua messa in pratica.
Mentre l’etnopsichiatria ha posto l’accento sui progetti di “acculturamento” che le amministrazioni coloniali hanno elaborato e messo in atto, durante i decenni, nei confronti delle popolazioni assoggettate (trasmettendo l’ideale di umanità del bianco europeo cristiano al fine di cancellare le tracce di un’identità vista come abominevole e inaccettabile), la ricerca storica e antropologica ha evidenziato l’esercizio di pratiche, svolte durante l’atto iniziatico, che contemplavano la presenza del dolore, della sofferenza e della violenza (in certi casi motivate dal chiaro obiettivo di determinare o giustificare specifici rapporti di forza e definite gerarchie sociali). D’altronde, “fare” gli uomini va di pari passo con il costruire la società, queste due azioni si svolgono contemporaneamente, si influenzano vicendevolmente e ovviamente non sono disinteressate.
Ogni società ha la necessità (quella che ritiene più opportuna in un dato momento) di definire un tipo di umanità da identificare come ideale da trasmettere (in quanto valore verso cui tendere) ai suoi membri, e questi ultimi, non essendo automi o macchine in cui inserire informazioni o algoritmi che ne regolano in modo meccanico l’esistenza e l’agire, mantengono sempre in sé stessi un elemento variabile di capacità critica che, con il passare del tempo, concorre (insieme ad un innumerevole quantità di altri fattori) a modificare la società a cui appartengono.
I risultati derivanti da questo rapporto/scontro/confronto, spesso misconosciuto o non analizzato nelle sue manifestazioni da chi vi prende parte, sono influenzati dall’intensità con cui queste due tensioni, quella motivata ad elaborare un ideale di umanità da perseguire e la messa in critica di tale ideale, si esprimono ed esercitano il proprio potere d’azione.
In qualunque modo la si voglia affrontare, la questione della trasmissione della conoscenza utile a “divenire umani” risulta essere un argomento complesso e ricco di sfaccettature, e sembra impossibile darne una definizione inequivocabile; inoltre, la ricerca sulle modalità di “fare l’essere umano” si è spesso concentrata su società e gruppi “altri”, lontani dal luogo di origine della disciplina antropologica e, fino a poco tempo fa, anche di coloro che la esercitano.
Mentre, senza dubbio, non mancano gli studi su come la globalizzazione ha influenzato i mondi sociali e culturali in giro per il mondo (la corrente dei Cultural Studies, inaugurata da Stuart Hall, ne è l’esempio contemporaneo più esplicito), ciò che risulta deficitaria, su questo argomento, è la quantità di lavori mossi dal desiderio di fare “antropologia a casa propria”. Perciò, al fine di provare a muoversi su terreni poco frequentati come questo, è necessario chiedersi se esista un’ideale verso cui tendere nella società capitalistica attuale, in quali modalità la conoscenza utile a perseguire tale condizione venga trasmessa e se tale trasmissione avvenga in modo pianificato, elaborato e immaginato (come molte ricerche riportano in merito a riti di iniziazione studiati nel mondo), o se invece, nella sua formulazione, assume altre modalità di espressione.
L’egemonia dell’uniforme e il suo superamento
Alan Badiou, parlando del rapporto intercorrente tra momenti della vita (giovinezza ed età adulta) e riti di iniziazione, sostiene come le ritualità facenti parte dell’orizzonte sociale umano, <<(…) queste usanze simboliche siano sopravvissute fino a tempi non così lontani. (…) Ora, ancora nella mia giovinezza, è del tutto chiaro che esisteva ancora un’iniziazione maschile, nella figura del servizio militare. Ed esisteva anche un’iniziazione femminile, con il matrimonio. Il giovane era adulto quando aveva fatto il servizio militare, la donna quando si sposava. Oggi questi due ultimi brandelli di iniziazione non sono che ricordi dei nonni. Si può dunque dire che la gioventù è stata sottratta alla questione dell’iniziazione>> 5. Secondo il filosofo francese, dunque, risulta mancare un passaggio fondamentale nel processo di maturazione dell’essere umano all’interno del suo mondo sociale, quello occidentale, e ciò determina una perdita di valore del significato della vecchiaia, non più valorizzata in favore della giovinezza, che per Badiou è divenuta una vera e propria ideologia.
In effetti, se ci guardiamo attorno possiamo facilmente accorgerci di come il “giovanilismo”, in quanto tema della pubblicità mercantile, in quanto simboleggiato nell’esaltazione della chirurgia plastica, dell’attività fisica praticata al fine di mantenersi belli e in forma, dell’alimentazione salutare, saturi completamente la società. Questa tendenza, secondo l’autore de “La vera vita” porta ad aggrapparsi alla giovinezza del corpo negando l’importanza dell’idea di saggezza insita nella vecchiaia.
E se tale fenomeno è riscontrabile in molti dettagli che ci circondano quotidianamente, ciò significa che impregnando il mondo sociale e culturale il sistema capitalistico esercita un’egemonia schietta e riconoscibile che, come evidenziò Antonio Gramsci, si esprime attraverso canali mediatici, istituzionali, culturali, legati al contesto dell’istruzione ecc..
Tutto ciò contiene in sé il pericolo della creazione di quello che François Jullien chiama “L’uniforme”, rappresentazione sterile dell’Universale, non più <<(…) L’Uno eminente, trascendente (plotiniano), al quale lo spirito si converte per sottrarsi al carattere dispersivo del diverso, bensì l’uno riduttivo, arido e completamente spento della regolarità conforme e della serie. (…) L’uniforme non rappresenta altro che l’infinita riproposizione dello stesso>> 6.
Siamo dunque tutti condannati ad omologarci indistintamente ad un’ideale che ci vuole eternamente giovani ed educati da un sistema che si è sostituito a quello in cui i vecchi erano i maestri, in quanto depositari di una saggezza figlia dell’esperienza di vita? Sappiamo benissimo che, nonostante questo fenomeno si esprima in tutti gli ambiti della nostra quotidianità e contenga in sé un potere egemonizzante non indifferente, non è così. Gli esseri umani non sono contenitori vuoti da riempire, e per quanto possano essere influenzabili vi sono sempre degli scarti, delle prese di posizione, delle capacità critiche (figlie di istinti, di esperienze di vita, di capacità intellettuali) che generalmente non saturano completamente le personalità e i percorsi di vita intrapresi.
Giunti a questo punto, come rispondere al quesito di partenza? Tolti i riti, negati in modo strutturale i maestri, cosa rimane per intraprendere quel cammino di acquisizione della conoscenza utile a “farci umanità”?
Può essere utile, a tal proposito, la nozione elaborata da Luc Boltanski e Ève Chiapello nel loro monumentale saggio, intitolato “Il nuovo spirito del capitalismo”; essi, all’interno del loro lavoro, identificano il nuovo ideale di uomo dell’epoca attuale, che chiamano “grande” contrapponendolo al “piccolo” che ne è la controparte negativa. La concretizzazione del concetto di “grande” nell’ideale di successo contemporaneo verso cui tendere è frutto degli eventi che hanno portato il sistema capitalistico in cui siamo immersi ad evolversi in seguito ai fatti del ‘68, e tale evoluzione ha per forza di cose modificato le qualità necessarie ad un essere umano per raggiungere questa condizione.
Il “grande” è caratterizzato dall’essere un’entità flessibile, costantemente riadattabile, capace nelle relazioni, mai statica e sempre dinamica, aperta al cambiamento. Egli esiste nel nome del continuo “aggiornamento”, della perenne “formazione” di sé stesso, è un leader naturale, ma esprime questa qualità con disponibilità, apertura e orizzontalità e non con autorità o tendenza a gerarchizzare i rapporti.
In pratica i due sociologi francesi ci invitano a riflettere su come qualità quali l’autonomia, il “potenziamento di sé” e l’auto-formazione siano elementi attualmente centrali nella nostra vita quotidiana e abbiano rilevanza non indifferente nel nostro modo di vedere il mondo e dargli valore. Se provassimo ad osservare noi stessi da una prospettiva esterna forse ci renderemmo conto di quanta verità vi sia in questa chiave di lettura, ma allo stesso tempo potrebbe essere riduttivo pensare che quelli scarti, quelle capacità critiche precedentemente citate che gli esseri umani dimostrano, chi più o chi meno, di saper mettere in campo vengano sottomessi completamente e incondizionatamente a questo ideale. Possiamo dunque sostenere come l’autoaffermazione di sé e il “diventare noi stessi” siano divenuti i nuovi riti (individuali e autonomi nello svolgimento, radicalmente personalizzati e personalizzabili nella loro pianificazione) in cui tendiamo sempre più a cimentarci al fine di “farci umani”.
Senza dubbio, se restiamo fedeli alla prospettiva acquisita a questo punto del nostro discorso ci accorgeremmo però che, alla fine dei conti, un’assenza si evoca di fronte a noi. Secondo Edgar Morin la conoscenza viene insegnata, nelle scuole e nelle università, non nella sua propria natura (che porta in sé il rischio dell’errore e dell’illusione), e con ciò <<siamo condannati all’interpretazione, e abbiamo bisogno di metodi affinché le nostre percezioni, idee, visioni del mondo siano il più possibile affidabili>> 7. Insegnare a conoscere la conoscenza è per il filosofo e sociologo francese l’imperativo da seguire e l’attuale mancanza dell’istituzione educativa, la quale è sempre meno aiutata, se non contrastata dall’altra fondamentale realtà educativa, la famiglia, sempre più in difficoltà nell’orientarsi in un’epoca come quella attuale. Questa assenza generalizzata, questa mancanza di un appoggio e di un riferimento a cui sostenerci nel nostro cammino ci lascia nudi e senza strumenti, se non quelli che siamo in grado di acquisire quasi soltanto con le nostre sole forze, e spesso potrebbero non bastare per affrontare la vita.
Si potrebbe dibattere a lungo sull’urgenza di regolare la conoscenza (e si potrebbe pensare che il tipo di conoscenza che è stato trattato in questo articolo possa averne prioritario bisogno) dal punto di vista del diritto, e senza dubbio una presenza normativa potrebbe essere un buon primo passo per colmare quel vuoto “rituale” che, come abbiamo visto, caratterizza la società occidentale; ma giunti fino a qui, tale urgenza dovrebbe, forse, essere direzionata diversamente. Probabilmente, più che definire la conoscenza in modo specifico, servirebbe comprendere cosa sia la conoscenza per noi, che valore abbia in tutte le sue sfaccettature, in che campi si applica e quali sfumature esprime, e fatto ciò solo in un secondo momento potremo provare a elaborare una sintesi che assurga allo stato di diritto universale, sempre adattabile, senza snaturare ciò che accomuna le visioni che lo hanno generato.
Forse solo così la possibilità di acquisire una conoscenza utile a divenire esseri umani, figlia del pensiero e della saggezza comuni e ritualizzata in quanto norma potrebbe favorire l’acquisizione di una vera libertà di coscienza; una coscienza che abbia ancora più mezzi per porre in critica quei processi egemonici che hanno molta voce nell’epoca contemporanea, e che impari sempre meglio a considerare l’ideale a cui tendere non come l’unica via da percorrere, ma come una tra le tante possibilità.
NOTE
1 «Che l’antropologia sia nata come ancella del colonialismo è cosa nota», scriveva Vittorio Lanternari nel 1974 riprendendo le critiche che denunciavano la compromissione degli scienziati sociali con le amministrazioni coloniali e gli apparati militari almeno fino alla guerra del Vietnam (Dario Inglese, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/carla-pasquinelli-lantropologia-tra-cultura-e-potere/)
2 Remotti F. (a cura di), “Forme di Umanità”, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002.
3 Badiou A., “La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani”, Ponte alle grazie, Milano, 2016.
4 Remotti F. (a cura di), “Forme di Umanità”, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002.
5 Badiou A., “La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani”, Ponte alle grazie, Milano, 2016.
6 Jullien F., “L’universale e il comune. Dialogo tra culture”, Editori Laterza, Bari, 2010.
7 Morin E., “Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
BIBLIOGRAFIA
Allovio S., “Riti di iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
Augè M., “Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione”, Irruzioni, Roma, 2016.
Badiou A., “La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani”, Ponte alle grazie, Milano, 2016.
Beneduce R., “Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura”, Carocci Editore, Roma, 2007.
Boltanski L., Chiappello È., “Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2014.
Jullien F., “L’universale e il comune. Dialogo tra culture”, Editori Laterza, Bari, 2010.
Morin E., “Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
Quaranta I. (a cura di), “Antropologia medica. I testi fondamentali”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.
Remotti F. (a cura di), “Forme di Umanità”, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002.
*Agostino Tolu, antropologo, ha utilizzato la metodologia propria dell’antropologia applicata trattando temi inerenti all’antropologia della violenza, all’antropologia medica critica e all’antropologia politica al fine di produrre due album musicali sotto pseudonimo