Il sasso

Federica Del Grosso

La mano è di donna. Volteggia in alto, rallenta, e si sofferma, sospesa, rassegnata: la milionesima zanzara è lì, ondivaga, vorace. Insignificante predatrice senza traiettoria, irridente e beffarda. Compie il suo volo imprevedibile contro un cielo pieno di nuvole che corrono veloci verso est. Ha appena piovuto: gocce calde, e grandi ognuna come una pozzanghera. Pelle umida, mano inerme, un bicchiere di Müller, un pezzetto di focaccia, musica che viene da dentro, cielo lattiginoso e cangiante, un vespro afoso. E chi se ne importa delle zanzare? Un cortile, un muretto a secco, due cani stravaccati ai suoi piedi, una casetta, una vista sul mare.

Un altro cielo, lo stesso. Lo stesso, ma un altro, quattro mesi prima. Lo stesso spicchio di cielo sulla città -inerte e inerme e sospesa come quella mano protesa contro un nemico invisibile e pugnace-, ma un altro cielo. Blu. Un cielo di quell’azzurro irreale della tempera stesa su un foglio ingenuo, quando si è bambini. E nitido, terso, teso, pulito, e beffardo, come quella zanzara, come i bambini. La fissità di quel cielo, giorno dopo giorno uguale a se stesso. Fulgido, inutilmente. Perché là fuori, all’alba, in una città addormentata, e spenta per narcosi, paralizzata dalla paura, a vedere quello spicchio di cielo lassù, così come il resto dell’azzurro del mare laggiù, e l’azzurro e i mille colori pastello delle case tutte intorno, a punteggiare il verde cangiante di olivi e querce, acacie e rovi, c’è solo lei. Cinquant’anni di capelli bianchi e neri. Libera e sola, di fare come crede. Stropicciata e sdrucita, di primo mattino, e ciancicata per vocazione, cuore polmoni e gambe e testa in funzione, nella luce primaverile. Funzionano. E questo è tantissimo, in questi tempi di miasmi appestanti, di morte che aleggia. Lei va: imprescindibile movimento, fuori, respirare aria e stagioni. E poi due cani ribaldi e incontenibili, loro bianchi in mezzo ai mille colori del mondo intatto di questi giorni violentati. Loro amatissimi e indispensabili, da sempre, e loro lasciapassare per la libertà, ora, nel mondo surreale di questo assurdo frammento di Storia del Mondo. A casa, non hanno un “fuori”, loro tre. Lo vorrebbero. E allora il Fuori se lo vanno a prendere, e non c’è regola che conta, se disattendere la regola non fa male a nessuno e fa bene a sé. Casette colorate e piccoli giardini a fasce. Lei osserva, oggi ancor di più: nel senso di prigionia che incombe ovunque, si guarda intorno con un sogno e con desiderio. È fuori.

Si guarda intorno, ed è stordita come tutti. Incerta, disorientata, impaurita, lucida, aggrappata a quello che sa, in protezione nei confronti del berciare infinito delle voci isteriche che i social media e la comunicazione ufficiale diffondono tambureggiando. In quel silenzio di primo mattino, lei pensa. Libera più che può.

Cielo di un azzurro perfetto, intatto. Sembra finto. Ma è vero. Come in quel film: “The Truman Show”. Un “The Truman Show”, vero, che sembra finto. O una realtà tanto contaminata dalla finzione da diventare un grottesco show. Iperreale. Assurdo. Vero. Un copione che confonde e amplifica e pilota una realtà inimmaginabile.

Lei cammina. È viva, è vera, è sana, crede. Spera. I cani tirano. Sono veri. Tutti e tre veri in una realtà che sembra normale, ma che è sprofondata in un incubo altrettanto vero, e narrato così male da sembrare di cartapesta. Anche il virus è vero. Lo sono i morti. E, nonostante ciò, non può che pensare a “The Truman Show”. Mentre ripensa al sibilo della voce di Lilli Gruber che ripete ossessiva, ogni sera -e intanto offre al pubblico opinioni sconcertanti, voci ogni giorno diverse, e ogni giorno più confuse- : “Re-state a ca-sa!”. Mentre fa appello alle tante cose di scienza che ha studiato in vita sua per darsi una chiave di lettura oggettiva di quel che succede e non restare in balia del flusso senza senso di informazioni vomitate a caso. Mentre non si capacita di quell’amica che ha sempre pensato intelligente, ed equilibrata, che di settimana in settimana si fa grancassa acefala della diffusione del messaggio virale del momento, violento, paralizzante e fuorviante, o infantilmente retorico, o biecamente manipolatorio: “Andrà tutto bene”, e “Dagli all’Untore Runner, e “Niente sarà mai più come prima”, e “State a casa state a casa state a casa”, e mascherina, alcol, amuchina, e tutto il repertorio che da settimane con cadenza precisissima prende a diffondersi fino ad arrivare sulle bacheche, e nelle orecchie, di tutti. Mentre si aggrappa ai dati, che oggettivamente DICONO che la curva NON è più esponenziale, e ai pochi esperti non “viziati” dalle loro personali psicopatologie che evidenziano che non esiste oggi una malattia che non si possa imparare a curare.

Mentre tutto si ripete. Mentre il cielo è sempre inesorabilmente azzurro, senza una nuvola, senza movimento. Immobile. Mentre pensa, nella fissità silenziosa di quel cielo adamantino, ogni mattina il suo Truman Show personale è fatto della signora anziana che passa alle 6.50, sempre con la mascherina calzata anche nella desolazione, nell’impossibilità oggettiva di incontrare nessuno che possa contagiarla, con una cagnetta che abbaia e abbaia e abbia, tanto vanamente che i due Bianchi neanche si scompongono. Del signore bizzarro con il berretto e il k-way, che prende il bus per salire la collina e poi scende di corsa. Dei cinghiali nello slargo erboso che sgrugnufolano soddisfatti. Del vecchietto sullo scooter che la guarda sorridendo ogni mattina un po’ di più. Del ciclista scalcagnato con una bici che cigola e l’aria stralunata. Del gabbiano che strilla sul lampione nella curva dopo l’ultimo palazzone. Della elegante sottile signora che corre e corre e corre senza alzare gli occhi dall’asfalto. Sempre gli stessi. Alla stessa ora. Nello stesso punto ogni mattina. Una sceneggiatura. Figuranti. E lei lo sa, che è una figurante della sceneggiatura del Truman Show di ognuno degli altri. Stessa ora, stesso posto, tutti i giorni, cielo azzurro tempera senza una nuvola. Ma lei è vera, e lo sono anche gli altri anche se non ci si può credere. Sono tutti muti, senza espressione, nessun contatto. Nessuna relazione.

Non ci si può credere, a questo incubo, a questo film di serie Z, a questa sceneggiatura farlocca. Neanche si può sognare, in un mondo finto così. I sogni lo sono perché possono diventare reali. Perché ha la sostanza del futuro. Ma oggi è un oggi sempre uguale, senza domani.

Ma poi un giorno.

Il vecchietto sorridente fa una cosa. Vera. Sconvolge la sceneggiatura. Rompe il ritmo. Sono le 7, l’ora del vecchietto. E il vecchietto è un sasso nell’ingranaggio: si ferma, sorride, e parla: “Visto che ci vediamo tutte le mattine, potremmo anche darci il buongiorno!”. Quel giorno c’è una nuvola in cielo. E il vecchietto, contro un cielo finalmente vero, diventa Lino. Lino è un sasso nello stagno, e se ne sta lì -e anche lei se ne sta lì- a guardare i cerchi che si aprono nell’acqua, dove prima tutto era stasi. Un sasso. Una persona sorridente che vuole sorrisi. Entra in contatto nell’era del contagio. E lei anche diventa una persona sorridente, e i cani bianchi diventano cani bianchi che zompano, come han sempre fatto, in braccio a ogni persona sorridente e amichevole, Lino. Lino che è vedovo, che ha un orto e le galline, e lui mica può abbandonare orto e galline. Se lo fermano pazienza, non corre rischi e non mette in pericolo nessuno. È la sua vita, quell’orto. E poi, giorno dopo giorno, Lino che non vuole vivere da solo, Lino che da giovane ha fatto mille lavori, Lino che si sveglia senza sveglia ogni giorno alle 5.45, Lino la cui mamma è morta a 102 anni, Lino che fa il filibustiere, Lino che non ha solo un orto, là dove va. Là dove va ha una casetta colorata e un giardino e una vista. Anche se non se la sente di viverci. Si sente vecchio, Lino. Ma la casetta e il giardino, e uno sconfinato fuori è lì. Non è un film, è vero.

E lei con estatico stupore va a sbattere in un giorno con una nuvola, all’improvviso diverso dagli altri, contro il suo sogno e il suo desiderio, e rimane illesa. Anzi, più viva. Un fuori. Una casetta. Un dolce burbero amichevole anziano Lino cui piace la compagnia, e però non troppa. Che vuole curare l’orto ma non abitare la casetta. Che ha un figlio, ma è un figlio che quella casa non la vuole. Che un giorno diverso dagli altri, sconvolgendo il Truman Show, si è fermato e ha parlato.

Zanzare. Cielo d’agosto. La mano di donna vaga sospesa, ma non combatte davvero. Pace di cicale. Il virus da qualche parte è, ma non lassù, in quella casetta con il giardino, con la vista, con un vecchietto che ha rotto lo schema, e con un desiderio che è diventato vero davvero.


Federica Del Grosso: Nutrizionista- Genova