Il consenso nel linguaggio giuridico: alcuni esempi di questioni sollevate da altre culture

di Umberto De Magistris*

Il termine “consenso”, nel linguaggio giuridico, può avere svariati significati; si parla, ad esempio, di vizi del consenso come cause di invalidità di un contratto, di consenso dell’avente diritto come scriminante in diritto penale o di consenso unanime in un’assemblea. Quando ci si muove in sistemi e tradizioni giuridiche diverse da quella occidentale, il termine “consenso” si arricchisce di nuovi significati e sfumature o viene legato a questioni e problematiche diverse. Spostandoci verso sud, la prima realtà giuridica aliena alla tradizione occidentale che incontriamo è quella del dritto islamico.

Nella Sharia, il consenso, o Ijma’ (إجماع), costituisce una delle quattro fonti del diritto. Quando, nella tradizione giuridica sunnita, esaminando un caso ci si ritrova davanti al silenzio di Corano e Sunna (le due prime fonti del diritto), si andrà a vedere se vi è un consenso costante ed ininterrotto sulla questione. L’Ijma’, non riconosciuta dagli sciiti, crea numerose questioni interpretative in seno alla comunità sunnita: si discute, infatti, se come “consenso” debba intendersi il consenso dei giurisperiti (e, in caso, quali), della prima generazione di musulmani, delle prime tre generazioni di musulmani oppure della comunità dei credenti.

Per fare un altro esempio di questioni legate al termine “consenso” nel contesto del diritto islamico, si può notare come la prassi del consenso informato in ambito medico venga trattata in maniera diversa rispetto all’Occidente. Mentre in Italia, ad esempio, è stata ratificata la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, la quale stabilisce che “un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato…”, in Paesi di diritto islamico la questione deontologica può essere ben differente. Il medico musulmano assume infatti una responsabilità non solo nei confronti del malato, ma anche della società e di Dio, così come stabilito nella Conferenza internazionale della medicina islamica tenutasi in Kuwait nel 1981. Inoltre, in alcuni casi la malattia può essere considerata inficiante la capacità di intendere e di volere del paziente, ed altre limitazioni sono collegate a sesso ed età. In alcuni casi (come incoscienza, ritardo mentale, minore età) il paziente viene rappresentato da un tutore o dai parenti più stretti (o, in loro mancanza, dalla pubblica autorità), i quali decidono se prestare il consenso alle terapie necessarie. Per quanto, poi, venga in linea di massima riconosciuto il principio di potenziale autonomia della donna, nella pratica l’atteggiamento protettivo dei membri maschi della famiglia fa venire meno il diritto al consenso informato. Dariusch Atighetchi (professore di Bioetica Islamica ed autore, tra l’altro, di “Islam e bioetica”) cita un esempio in cui una paziente saudita, che doveva essere sottoposta a parto cesareo, morì insieme al feto in quanto il marito non concesse il consenso all’intervento, senza che lei fosse stata interpellata.

Essendo stato esportato e trapiantato il diritto occidentale in Paesi dove vigevano originariamente culture giuridiche “altre” (si pensi, ad esempio, all’America Latina o all’Africa), si può assistere a conflitti tra filosofie e visioni del diritto diverse sopra argomenti riguardanti il “consenso”. Un buon esempio, continuando a spostarci verso il Sud del mondo, è quello dell’età del consenso nei sistemi giuridici degli Stati africani post-coloniali. Per età del consenso si intende, in linguaggio giuridico, l’età in cui una persona è considerata capace di fornire un consenso informato ai rapporti sessuali. In Italia, è fissata di norma a 14 anni, pur con alcune eccezioni.

In Africa subsahariana, la questione viene trattata in maniera assai differente da un Paese all’altro: si passa dall’età del consenso fissata a undici anni in Nigeria, ai quattordici anni in Madagascar, Repubblica Democratica del Congo e Namibia, ai sedici anni di Mauritius, Malawi, Botswana e Zimbabwe fino ai diciotto anni previsti in Uganda, Tanzania, Mozambico e Seychelles. Per quanto il panorama possa essere dunque molto variegato, spesso si ritrova un approccio punitivo nei confronti dei rapporti sessuali tra persone al di sotto dell’età del consenso, a discapito di un approccio non punitivo. L’approccio punitivo viene additato da alcuni come un retaggio della legislazione coloniale e considerato inutile e dannoso, oltre che non rispettoso della tradizione locale. La questione si arricchisce, infatti, di un problema legato al relativismo culturale: se si parte dal presupposto che non esistano culture “migliori” o “peggiori” e che esse debbano essere approcciate con termini a loro propri, non si può non prendere in considerazione gli spunti offerti da Godfrey Dalitso Kangaude, della University of Pretoria. Egli sottolinea, infatti, come nell’Africa subsahariana i concetti di “infanzia” ed “età adulta” siano differenti dai nostri e non determinati dal semplice raggiungimento di un’età anagrafica, mentre manchi del tutto quello di “adolescenza”. Il passaggio avviene direttamente dall’infanzia all’età adulta, venendo scandito dalla pubertà e da una serie di riti; l’attività sessuale veniva gestita in maniera diversa nelle varie culture e società, ma la criminalizzazione arriva con il trapianto del diritto europeo da parte dei colonizzatori prima, e con l’imposizione del modello di diritto occidentale da parte dei neonati Stati africani poi.

Per quanto il suo fine ultimo sia quello di combattere gravidanze dannose o indesiderate, diffusione di malattie sessualmente trasmissibili ed altri problemi, la criminalizzazione del sesso in età adolescenziale non appare di certo come una soluzione a tali questioni. Si possono osservare, sull’argomento, tre diverse sentenze: in CKW v. Attorney General & Director of Public Prosecutions, la High Court of Kenya, analizzando un caso di rapporti sessuali consenzienti tra due sedicenni, decise che la criminalizzazione dei rapporti sotto ai 18 anni era nel miglior interesse dei minori. Ad una decisione diametralmente opposta giunse invece la Corte Costituzionale del Sud Africa con la sentenza Teddy Bear Clinic v. Minister of Justice and Constitutional Development, nella quale dichiarò incostituzionali le disposizioni che criminalizzavano il sesso in età adolescenziale in quanto andavano a danneggiare i minori che dichiaravano di voler proteggere. Una decisione molto interessante sull’argomento è certamente quella del giudice Amy Tsanga della High Court of Zimbabwe che, in State v. Masuku (rapporti sessuali consenzienti tra un diciassettenne e la sua fidanzata quindicenne), riconosce da una parte l’utilità delle disposizioni penali per scoraggiare gravidanze in età adolescenziale e combattere le infezioni sessualmente trasmissibili, mentre dall’altra ammette che non possa andare a discapito di relazioni romantiche consenzienti: “Ignoring the reality of consensual sex among teenagers and adopting an overly formalistic approach to the crime can result not only in an unnecessarily punitive sentence, but also a criminal record and stigmatisation as a sex offender”.

Le questioni affrontate restano tutt’ora aperte e sono solo una piccola dimostrazione di quanto, nelle diverse culture giuridiche del mondo, vi possano essere vicende relative al termine “consenso” e quanto profonde siano le implicazioni che possono avere.


BIBLIOGRAFIA:

D. Atighetchi, Islam e Bioetica, Armando Editore, Roma, 2009

G. Dalitso Kangaude, (De)Criminalizing Adolescent Sex: A Rights-Based Assessment of Age of Consent Laws in Eastern and Southern Africa, SAGE open, 2018

SITOGRAFIA:

https://www.up.ac.za/media/shared/10/ZP_Files/harmonizationoflegalenvironment-digital-2-2.zp104320.pdf


*Umberto De Magistris: Cultore della materia in Diritto Privato Comparato presso l’Università di Genova