Il consenso in bioetica giuridica: esercizio o abuso di un diritto?

di Giulia Chiappero

Il “consenso, uno dei tanti vocaboli della lingua italiana che si presta a molteplici interpretazioni a seconda del contesto, viene, il più delle volte, associato al concetto di “conformità di voleri” o, specifico del linguaggio giuridico, a quello di “manifestazione di volontà”, ed è su quest’ultimo che vorrei soffermarmi. Detto termine se precede l’attributo “informato” è in grado di precisare maggiormente l’ambito a cui si sta facendo riferimento, quello clinico. Come tutti sappiamo l’autorizzazione del paziente, a seguito di un’adeguata opera di informazione, a sottoporsi ad un determinato trattamento sanitario è quel lasciapassare necessario che rende legittima l’azione terapeutica, nel rispetto del fondamentale diritto all’autonomia e alla autodeterminazione dell’individuo sancito da innumerevoli fonti normative. 

Il consenso ad un trattamento sanitario per essere autentico deve essere provvisto, secondo il nostro ordinamento, di requisiti etici e giuridici che ne facciano espressione genuina della volontà del soggetto che lo presta: deve essere personale, libero, specifico e consapevole. Nel caso di paziente incapace di intendere e di volere, se non sussistono pericoli per la vita o rischi di danni gravi, occorre attendere che il paziente sia di nuovo in grado di esprimere la propria volontà. Qualora, invece, ricorressero i pericoli e i rischi suddetti il trattamento in questione dovrebbe essere effettuato. Dunque motore dell’azione è il consenso del diretto interessato controbilanciato dal suo diritto alla salute, che talvolta può prevalere in circostanze di particolare urgenza e qualora le intenzioni del paziente siano ignote. Eventuali “testamenti di vita” e “dichiarazioni anticipate di trattamento” non sono sempre ritenuti sufficienti a fugare ogni dubbio sulla reale volontà di colui che è temporaneamente incapace. In questi frangenti risulta preponderante il ruolo dei familiari ad interpretazione delle intenzioni del soggetto. Quanto ai minori, il nostro Comitato Nazionale di Bioetica raccomanda un coinvolgimento degli stessi proporzionato al grado di maturità e di comprensione che presentano, fatte salve le prerogative dei genitori e dei rappresentanti legali. [1]

La recente legge 219/2017, introdotta dal Governo Renzi “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”,da qui in avanti abbreviate in “DAT”, introduce l’istituto del “testamento biologico” a lungo atteso. Finalmente il Legislatore si occupa della questione riconoscendo in capo al paziente terminale il diritto a rifiutare accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari. Si tratta di una legge ben poco innovativa da un punto vista sociale dal momento che la moralità di una tale condotta da parte del personale sanitario era già ampiamente convalidata dall’opinione pubblica (per lo meno da quella laica) come valorizzazione di diritti fondamentali dell’uomo quali l’autodeterminazione e la dignità. Secondo tale previsione normativa hanno rilevanza le DAT di individui che siano maggiorenni e capaci di intendere e di volere con la possibilità di indicare un fiduciario, il quale possa fare di questi le veci. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, disattese solo qualora la situazione clinica muti o vengano a sussistere nuove terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione e capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.[2]

 Ma cosa spinge un uomo a preferire la morte alla vita? La decisione di morire è subordinata ad una situazione nefasta, dal soggetto, il quale non solo si preoccupa di fuggire ai dolori continui, ma altresì di mantenere la propria dignità negandosi a quelle terapie che lo condurrebbero in condizioni strazianti per lui e per i suoi cari con il solo “beneficio” di ampliarne l’agonia. Si tratterebbe, dunque, di una decisione contro questo tipo di morte e non contro la vita in sé, aspetto che renderebbe una tale scelta giustificabile sotto il profilo morale a differenza del vero e proprio suicidio. Tuttavia se anche possiamo trovare legittima, in estreme circostanze, la scelta di togliersi la vita, possiamo chiedere ad altre persone di prenderne parte? In particolare a coloro la cui funzione dovrebbe essere quella di preservare la vita e non negarla? E che fare nel caso di dissenso da parte dei professionisti, a compiere un tale atto ideologicamente contrario ai principi su cui si erge la deontologia medica?

Nulla di nuovo per noi, effettivamente, se pensiamo all’alto numero di obiettori di coscienza i quali rifiutano di procedere alle interruzioni di gravidanza volontarie. Tuttavia le due questioni non potrebbero essere più diverse sul piano, appunto, del consenso. Se, invero, è lo stesso consenso a legittimare una condotta omissiva di trattamenti terapeutici volti soltanto al mantenimento in vita del paziente in fase terminale, questi viene a mancare nell’interruzione di gravidanza, ove il diretto interessato è privo della facoltà di esprimerlo. Certo il feto non è una persona, almeno giuridicamente parlando, dunque se l’eutanasia volontaria può essere considerata omicidio dai suoi oppositori, in questo caso al massimo potremo parlare di “feticidio”,tuttavia non trattandosi di persona non può nemmeno venir in aiuto la disciplina prevista per i minori, ossia che incomba sui genitori il dovere di decidere per loro e nel loro interesse: non abbiamo un minore, né tanto meno un genitore  e di certo la scelta a favore di un aborto non può essere considerata nell’interesse del feto.  Si potrebbe obiettare, inoltre, che vi è anche un altro consenso la cui rilevanza è stata deliberatamente esclusa: quello del padre, rendendo l’interruzione di gravidanza una faccenda tutta femminile e deresponsabilizzando la figura paterna, sebbene indispensabile al pari di quella materna. 

Non molto diversi gli interrogativi bioetici che coinvolgono realtà non molto lontane nelle quali sono divenuti ricorrenti i fenomeni di commercializzazione di liquidi organici e cellule umane quali sperma e ovuli, fino a comportare giri d’affari che divengono talvolta la principale fonte di reddito per il venditore e ciò vale soprattutto per la maternità surrogata. Considerati prodotti del corpo rigenerabili e nella completa disponibilità dei titolari, sono diventati, oggi, merce di scambio legalizzata sulla base del consenso libero del soggetto “produttore”. Marcando inoltre, quelle asimmetrie radicate che dividono il tessuto sociale in persone ricche che acquistano e persone povere che vendono. Assuefatti all’idea che il corpo umano non sia un tutto unitario bensì un insieme di parti scomponibili, il consenso ha invaso l’ambito dei diritti indisponibili, che per loro natura andrebbero sottratti, anche, alla libertà del singolo di disporne. A differenza del trapianto di organi, giustificabile sul piano etico in quanto scelta derivante da sentimenti di affetto se inter vivos e di solidarietà se da cadavere, non è difficile smontare la validità morale della compravendita di organi, la quale stravolge completamente quell’idea di uomo come “fine in sé” in base alla quale egli avrebbe un valore intrinseco superiore a qualsiasi prezzo o valore di scambio, facendo della dignità umana un diritto inalienabile. [3]

Questione delicata anche se di più semplice trattazione quella relativa al prelievo di organi da cadavere, che deve necessariamente corrispondere alle intenzioni previamente espresse dal defunto, il quale, sebbene non più persona, rimane la proiezione oltre la vita di quella persona. La recente legge sui trapianti per quanto concerne l’accertamento della volontà del donatore introduce il c.d. “silenzio assenso informato”. Se nella nostra tradizione ogni atto ammissibile di disposizione del corpo è sempre stato subordinato al consenso esplicito dell’interessato, con la Legge 91/1999 il vaglia diviene non più l’essersi pronunciato favorevolmente bensì il non aver espresso diniego, fino ad ignorare, anche nella totale assenza di indicazioni del de cuius, l’opinione dei congiunti.[4] Il Legislatore del 1999  alle prese con la libertà di scelta da una parte e il diritto alla salute  dall’altra, consapevole di introdurre con il silenzio assenso un criterio molto discutibile, tentava di compensare la rigidità di tale sistema riconoscendo in capo al Centro Nazionale per i Trapianti, in collaborazione con gli enti locali, le scuole, le associazioni di volontariato  e  le società scientifiche, l’onere di promuovere iniziative di divulgazione ai cittadini di tutte quelle informazioni necessarie per prendere una decisione pienamente consapevole. Pertanto le aziende sanitarie locali sono, oggi, tenute a notificare ai propri assistiti la richiesta di dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo a scopo di trapianto. Nel caso di minori e inabilitati il genitore o tutore ha la facoltà di scegliere per lui e laddove non si raggiunga un accordo, tra i due esercenti la potestà, non è possibile procedere all’espianto; tuttavia è giudizio di molti che anche al minore a partire da una certa età andrebbe riconosciuto tale diritto di autodeterminarsi in relazione a scelte personalissime.

Forse persistendo in opere di informazione e di sensibilizzazione circa argomenti di fine vita, procreazione e trapianti si potrà arrivare a gestire questioni così spinose in maniera più ponderata, invitando il singolo ad usufruire più coscientemente del proprio diritto di scelta. C’è un tempo per nascere ed uno per morire e da quando tali momenti sono entrati nell’area di competenza della scienza medica è inevitabile fermarsi a riflettere sulle responsabilità che ricadono su di noi. [5] 


[1] <https://bioetica.governo.it>

[2] Legge 22 dicembre 2017 n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. 

[3] I. Kant, “Scritti morali” a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970.

[4]  P. Becchi, “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte”, Aracne, Roma 2009.

[5] Idem.