a cura di Francesco Pivetta e Rita Sciorato
D.: Quali sono, a suo parere, le manifestazioni odierne del disagio o malessere psichico?
R.: Sto per terminare un libro dedicato al malessere contemporaneo psico- logico che si chiamerà Clinica del malessere: ciò che analizzo sono le nuove forme del disagio psichico e ciò che succede in questo campo.
Ci sono molte cause delle manifestazioni delle nuove sofferenze, la fondamentale è quella che sta vivendo la nostra piccola umanità in rapporto all’ibridazione delle tecnologie e alla dislocazione dei soggetti.
Sono convinto che c’è qualcosa che sta succedendo da un punto di vista, diciamo ontologico, che mette in discussione il rapporto tra l’essere vivente e la cultura. Un’ibridazione che non tiene conto degli esseri viventi e che non esprime ancora le capacità di reagire alla colonizzazione mentale indotta dalle nuove tecniche.
D.: Quando e come il post-moderno, con la sua mitologia della tecnologia, modifica nelle persone l’elaborazione dei limiti e dei confini individuali?
R.: Con il post moderno e con l’ibridazione della vita ciò che si modifica è la perdita del limite.
L’uomo ha sviluppato molto le funzioni del suo cervello e sono in continuo aumento nuovi possibili contatti tecnici con le macchine: è un mondo dove tutto è possibile con conseguenze antropologiche forti, attraverso l’esplosione dei limiti e dei confini che sono condizioni fondamentali perché il senso esista.
Ciò vuol dire che la perdita del limite comporta anche una dislocazione del senso.
Viviamo un tempo in cui la ricerca a ogni prezzo dell’efficacia da ogni punto di vista produce un’efficacia dal punto di vista tecnico concepita anche come copertura delle proprie deficienze, ma non è pensata come rafforzativo dei files culturali fondanti del fenomeno vivente umano.
D.: Quali sono le nuove operazioni che gli esseri umani compiono nel processo della formazione della personalità?
R.: Ci sono delle trasformazioni nel senso di una sorta di esteriorizzazione di tutti i fenomeni umani, una sorta di panopticon (tipo Facebook, blog, ecc.), che
segna una vita tutta rivolta all’esterno, ovverossia c’è una perdita di interiorità e di riflessione all’interno di se stessi.
Per tale motivo, al momento, ho difficoltà a vedere che nuove singolarità con nuove interiorità e con nuove intenzionalità abitino un mondo provvisto di senso.
D.: Come reagisce l’individuo post-moderno alla frustrazione di fronte allo sviluppo delle tecnologie?
R.: Reagisce con una sorta di dipendenza che si crea di riflesso, finalizzata alla ricompensa, al beneficio e al divertimento. Ma il divertimento è inteso nel senso peggiore, cioè un modo per occupare «lo spazio laddove le cose accadono». Per cui la prima reazione è di tipo passivo: nuove malattie, nuove sofferenze, nuove angosce (cervello e mente insieme), insomma l’organico (nel senso di fiducia, pensiero e biologia) manifesta passivamente e dunque negativamente la non viabilità in questo mondo della tecnica, della rapidità e dell’istantaneità.
Infatti per un essere umano la vita non è mai nell’istantaneità. La vita è in quello che si trattiene, con quello che si immagina nel futuro, cioè in un tempo complesso.
La temporalità della macchina, da una parte, e la non localizzazione dei fenomeni dall’altra producono per il momento non nuove nicchie di singolarità, cioè nuove forme di creatività, ma nuove forme di malattie e di sofferenze che sono i fantasmi di ipotesi, congetture, guadi possibili.
In senso psicologico e somatico la tecnologia ha la capacità di far perdere questi fantasmi. In questo senso la sofferenza è diventata un’evitabile nuova posta di gioco bisognosa di interpretazione.
Ma la sofferenza, come intende la parola francese -essere in sofferenza-, significa essere in attesa. E finché si è in attesa vuol dire che qualcosa può emergere, anche se non sempre siamo capaci di vederlo. Sono le nuove forme di singolarità capaci di includere la tecnica, senza farsi fagocitare dalla tecnica stessa.
D.: Che cosa resta, oggi, dell’individuo?
R.: C’è uno svuotamento dell’individuo, quello che risponde a un segno storico molto interessante e che abbiamo visto nascere con Abelardo ed Eloisa, col nominalismo ecc.
Quell’individuo era pieno, portatore della razionalità.
Oggi l’individuo appare svuotato. Ci troviamo davanti ad un paradosso che è così: oggi viviamo in un’epoca senza soggetto, in cui il soggetto è stato svuotato, ma piena di soggettivismo.
Questo soggettivismo è per noi una sfida perché tutto il mondo pensa di essere il centro del mondo, ma è un centro del mondo vacuo e dunque le piccole storie personali diventano la Storia. è ciò che Deleuze chiama le sporche piccole storie. Allora, quando noi facciamo clinica, psicoterapia, psicoanalisi, cosa dobbiamo ascoltare?
In forma catartica dobbiamo ascoltare solo la piccola storia soggettivista oppure noi possiamo ricentrare il soggetto?
Dobbiamo forse accettare il relativismo individualista, quello che dice che ogni soggetto cela una sua verità e che non esiste la verità?
Può sembrare molto democratico dire: «tutto il mondo ha una sua verità!». No, questa è la barbarie. Barbarie assoluta perché non è il soggetto ad essere il produttore di una verità, ma lui stesso è un prodotto per una verità storica epocale. Io penso effettivamente che il problema sia che il soggetto è svuotato.
Vediamo nascere dinanzi a noi un soggetto assolutamente di superficie, pieno di soggettività e che non arriva ad avere uno spazio privato: Facebook, telefonino, Twitter sono un relato permanente della nostra vita. Oggi la gente organizza una festa non per fare la festa, ma per fare le foto da mettere su Facebook. Questo svuotamento di ogni dimensione di privatezza parla di questo soggetto pieno di soggettività e senza alcuna singolarità.
La singolarità, dal punto di vista clinico e soprattutto filosofico, non è per niente la stessa cosa del soggettivismo.
La singolarità, la nostra possibilità di essere singolari dipende dalla nostra capacità di essere articolati rispetto ad un universale e non a una soggettività relativa. La singolarità di tutti noi dipende non dalla possibilità di avere una vita arci soggettiva, arci relativa. Al contrario, la singolarità della persona umana dipende dalla possibilità che questa persona umana ha di sentirsi al centro di quelli che noi chiamiamo problemi universali.
L’uomo non è fatto di tutte queste storie narcisistiche, soggettive, personali: l’uomo è fatto della possibilità di essere in contatto con tutto l’universo.
Tu non trovi la persona amata solamente nelle piccole storie di Facebook, problema, invece, serissimo per questo nuovo soggetto che non è nessuno. E più l’individuo pensa di essere al centro del mondo più è nessuno.
Come dice Deleuze, che io cito perché sono uno spinoziano, e perché è una sfida per i clinici, «la vita non è una cosa personale». «Ma come? – può dire qualcuno – tu che sei psicoanalista dici che la vita non è una cosa personale?».
Sì perché più la vita è una cosa personale e meno è vita. Perché la vita sia più vita, più autentica, più noi, dobbiamo centrarci il più possibile in cose che non sono solo cose personali.
Le cose personali sono la via da percorrere per trovare l’universale in noi.
D.: Allora la crisi contemporanea è davvero molto devastante.
R.: La crisi contemporanea che noi attraversiamo ci fa sentire che l’uomo non è più una figura capace di agire, che non possiamo più pensare all’uomo come all’ architetto padrone delle istanze per l’agire, per essere libero.
Da un punto vista sociale e individuale, alla base della clinica e dell’educazione c’è stata finora l’idea dell’emancipazione di forze interne dell’uomo capaci di rispondere a ciò che dall’esterno lo dominava.
L’umanità ha vissuto e sperimentato crisi diverse che hanno organizzato modi di vita intimi e sociali, e quindi l’umanità come specie ha conosciuto molte crisi, anche a livelli molto profondi.
Ma la caratteristica della crisi che stiamo vivendo consiste nel fatto che più che una ricerca di cambiamento antropologico, relativo alla figura centrale delle forme culturali che organizzano la vita dell’umanità, sembra che la crisi, attraverso cambiamenti genetici, spinga il mondo verso un cambiamento che riguarda l’umanità stessa, intesa come specie.
Questo significa che abbiamo a che a fare non solo con un cambiamento antropologico, ma anche con un possibile cambiamento genetico.
Dobbiamo considerare questa possibilità come un punto di partenza, per cui noi ci troviamo in due crisi: la crisi di un mondo, di un modo antropologico di organizzarci, e una crisi che per noi è ignota, in quanto per la prima volta nella storia dell’umanità gli scienziati parlano di miglioramento della natura umana.
Quando parlo di miglioramento attraverso la manipolazione scientifica della natura umana pongo una questione che resta in sospeso, in quanto è relativa alla condizione umana e noi non sappiamo più oggi fino a che punto le società sono disposte ad accettare i cambiamenti possibili e immensi che si prospettano.
D.: Eppure le persone che vanno dallo psicoterapeuta fanno una domanda d’aiuto personale.
R.: Penso che se noi clinici vediamo una persona che ci chiede di poter stare bene sempre, questa persona è più in armonia con la nostra epoca di noi.
Questa persona è orientata a soddisfare subito i propri desideri: se vuole telefonare a qualcuno deve poterlo fare subito e si attrezza in tal senso e la società gli offre strumenti per farlo. Quindi se il terapeuta non soddisfa subito il bisogno, allora è solo perché il dottore è un incapace; infatti ci sono dottori che dicono di poterlo fare, in quanto loro sono dentro la cultura del «tutto è possibile».
Quando abbiamo un problema vogliamo trovare rapidamente la soluzione del problema; noi siamo intossicati da questo tipo di mondo. Una consiste nel dire al paziente di aspettare: ma è ridicolo quando in un servizio pubblico il terapeuta dice ad una persona che è nella merda parole tipo «ma stia tranquillo, aspetti, poi vedrà…, deve stare tranquillo, deve imparare a sopportare la frustrazione …», allora io dico al collega: «E tu? Tu sei capace, tu, di sopportare la frustrazione?».
Rischiamo di essere i sacerdoti della sopportazione del tempo lungo, della frustrazione della complessità per gli altri, ma non per noi.
Finiamo quindi con il trovarci in due possibili posizioni. Una è quella del conforto morale per noi e l’altra è quella di collaborazione per la distruzione della vita.
Quando dico queste cose all’Università, gli allievi, che sono giovani adulti perché fanno il Dottorato, mi rispondono: «Noi siamo dei clinici, quindi vogliamo lavorare senza avere questo dubbio».
Ma!, non è possibile oggi fare questo lavoro senza pensare a questa complessità!
Io rispondo loro: «Attenzione, perché forse dobbiamo pensare ad una clinica senza soluzione del problema, forse la territorializzazione del paziente è assumere il conflitto e non escludere il conflitto».
Non ho intenzione di dire si fa così, o si fa in questo modo. Non do un’indicazione per una regola, per una nuova legge.
Noi psicoterapeuti lavoriamo con una ragione probabilistica, ma non con una ragione che si possa provare; quella è propria del principio causa-effetto, che si può verificare inevitabilmente.
La clinica psicologica sta in un modello probabilistico, non sta nello stesso modello epistemologico della chirurgia, dell’appendicite per esempio.
D.: In un’epoca di crisi come la nostra, come cambia la clinica?
R.: Conseguenza della crisi antropologica che stiamo vivendo è l’impotenza, che caratterizza sia la società, sia l’attività clinica psicoterapica, la quale sembra essere impregnata di un pessimismo legato ad una concezione meccanicistica dell’essere umano, alla quale corrispondono terapie che si riducono a una proposta di soluzione allineata alla norma dominante, ipotizzata come universalmente desiderabile.
Esse si accontentano di sopire o incanalare tutto quanto sconfina, in termini di conflittualità, desiderio, vita, rispetto al perimetro della persona stessa.
Noi assistiamo ad un passaggio della clinica che si rivolge a persone che hanno un corpo e quindi possono avere ferite, che hanno paura, che invecchiano in un corpo, ma come fosse un corpo estraneo, un corpo che abitano assecondando un desiderio innestato dall’esterno.
Per questo è importante capire le differenze tra aggregato e organismo per vedere le conseguenze nella clinica, nell’educazione e nella società.
Propongo di pensare al corpo in psicoterapia: finora gli psicoanalisti hanno dato poco spazio, poca attenzione a questo nelle terapie.po. Oggi, alla luce di quanto detto prima, diventa urgente poter pensare al corpo.
In psicoanalisi il corpo è stato sempre messo un po’ da parte perché è stato visto come lo strumento che mandava dei messaggi che dovevano essere interpretati: per un paziente che diceva «ho questo, ho quello» si cercava di capire che cosa in realtà volesse dire nel dire ho questo ho quello, per tradurre, per interpretare le sue comunicazioni relazionali.
La psicoanalisi paradossalmente è come se avesse aperto la strada per la follia scientista, perché ha operato, agito e pensato considerando lo spirito innanzitutto e il corpo solo come il veicolo di segni e messaggi dello spirito.
Per questo noi, che siamo gli eredi di una tradizione spiritualista, per pensare il reale siamo costretti a reintrodurre il corpo nella clinica.
Noi come psicoanalisti non amiamo pensare che la base materiale del cervello determini reazioni emotive, ma la scienza ci ha mostrato che è così e dobbiamo accettarlo proprio per non dare voce allo scientismo.
è l’utilitarismo che decide e definisce quale è un buon aggregato.
Tocca a noi ricordare che la vita è strutturata su fondamenti che possono sembrare inutili ma che sono fondamentali.
Per questo vale la pena per noi cercare le cose che sono inutili rispetto alle ideologie dominanti.
D.: Può fare un esempio partendo dalla sua esperienza clinica?
R.: Ricordo di una mia paziente che, diventando obesa, si è deformata e ciò le aveva procurato un grave stato d’angoscia. Durante il percorso terapeutico con me ha trovato un lavoro, un lavoro che la impegnava 11 ore al giorno più due di viaggio, e devo dirvi che si era adattata molto bene a questa condizione di vita.
Allora io le ho detto che mi poneva un problema, perché quando lei non aveva un esoscheletro non esisteva, si sentiva inesistente.
Ecco questo pone un grande questione alla psicoanalisi: la signora se ha un esoscheletro sta bene! Ma non stava bene prima, quindi io, psicoanalista, devo chiedermi se la signora ha un endoscheletro!
Bisogna chiedersi se le persone possono avere un endoscheletro anche se averlo si scontra con l’ideologia del momento.
La questione importante per i clinici diventa il chiedersi se l’uomo può possedere questo endoscheletro che va al di là dell’ideologia del momento, se l’uomo è disponibile a questa trasgressione anche se questo dà luogo ad un conflitto.
La nostra società vuole degli esseri umani molli, senza endoscheletro, che possano adeguarsi al massimo all’esoscheletro che viene imposto dalla società, ed è con questo che noi clinici dobbiamo confrontarci.
D.: Che cosa fare allora con il trauma ? Che cosa fare, a questo punto, con le istituzioni?
R.: Io lavoro con il paziente per aiutarlo a capire che lui è il sintomo!
La questione è che cosa possiamo fare se siamo questo. è diverso dal pensare ho questo oppure non ho quello. Piuttosto io sono questo e quello!
Spinoza sostiene che il cieco non manca della visione, il cieco è completo. 12 varchi
Oggi ogni modo d’essere è completo, la questione è che cosa facciamo con questo modo d’essere.
Questo modo d’essere è il punto di libertà e il punto reale di partenza; dopo possiamo costruire quella cosa o no.
Allora la modificazione o non modificazione parte dall’idea che questo è il tuo ancoraggio, questa è la tua territorializzazione e la nostra verità non è la mia verità, non è la tua verità. Noi dobbiamo trovare un punto di ancoraggio comune, a due, a tre, a venti, non importa quanti, ma insieme.
Io sono nel dubbio, io non so perché il paziente viene da me, allora questa ricerca è la verità della situazione. Io lavoro per cercare questa verità.
Miguel Benasayag (Buenos Aires, 1953) è filosofo e psicoanalista.Ha studiato medicina in Argentina ed ha militato nella guerriglia guevarista. Arrestato tre volte, venne torturato e trascorse molto tempo in prigione. A seguito dell’assassinio da parte della giunta militare di due religiosi francesi, Benasayag, grazie alla sua doppia nazionalità franco-argentina (la madre, ebrea francese, aveva lasciato la Francia nel 1933), poté beneficiare della liberazione dei prigionieri francesi ed approdò così in Francia, paese che egli non conosceva. Qui continuò per un periodo la sua attività di militante politico. Nel 1987 presentò una tesi in scienze umane cliniche sotto la guida del filosofo e sociologo Pierre Ansart, presso l’Università di Parigi VII, ispirata alle sue esperienze nelle prigioni politiche del regime argentino. Attualmente vive a Parigi, dove si occupa di problemi legati all’infanzia e all’adolescenza. E’ autore di moltissime opere, alcune delle quali sono state tradotte in Ita- liano. Le più conosciute sono L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2004) e L’elogio del conflitto (Feltrinelli 2008).