di Giovanni Crespi e Jessica Facoetti *
La moda sta vivendo una nuova era in cui non ci sono più regole.
Tutto ruota attorno allo stile personale di ciascuno.
Alexander McQueen
Lo studio della Moda è diventato negli ultimi decenni sempre più interessante per diversi ambiti di indagine. L’antropologia culturale si è sempre occupata di indagare i rapporti tra cultura e costumi; oggi esiste una branca di questa disciplina che studia nello specifico il fenomeno della moda, l’Antropologia della moda,e l’ambito interdisciplinare della Fashion Theory (Breward, 2000). Attraverso lo studio dei costumi di una società è infatti possibile ricavare molte informazioni circa la sua cultura, la sua visione del mondo, l’organizzazione sociale e i rapporti tra gli individui che la compongono, la sua Imago, la sua creatività. Studiandone l’evoluzione attraverso il tempo è inoltre possibile capire come la società e dunque l’individuo si sono modificati attraverso i secoli, approdando a quella che oggi Bauman chiama “modernità liquida”, all’interno della quale <<L’esperienza individuale e le relazioni sociali [sono] segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile>> (Treccani, 2008).
Cultura e identità sono infatti strettamente interdipendenti. Addirittura, secondo la moderna Teoria dell’incompletezza: <<La cultura invece di essere aggiunta, per così dire, ad un animale ormai completo o virtualmente completo [è] un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo animale>> (Geertz, 1973). Pertanto, la cultura è parte formante della struttura identitaria dell’essere umano, in una prospettiva antropopoietica. Nell’ambito di una cultura: <<Gli esseri umani [hanno] da essere costruiti e plasmati e, in un certo senso, nella loro vita non conoscono una sola nascita, quella biologica>> (Remotti, 2013); queste ulteriori nascite, assumono carattere prettamente sociale (basti pensare ai riti di passaggio). <<L’essere umano appare dunque al tempo stesso produttore e prodotto della propria cultura, in un circolo di creatività culturale che propone l’idea di una costante riformulazione>> (ibidem).
È all’interno di questo quadro teorico che si vuole proporre un’analisi dell’evoluzione della Moda, quale traduzione visibile della cultura, dalle sue origini attraverso i secoli fino a quella attuale, concentrandosi in particolare sull’evoluzione di essa nel mondo occidentale riguardo alle distinzioni di genere e alla relativa moderna fluidità.
Già prima dell’avvento dei tessuti, l’uomo ha sentito il bisogno di abbellire il proprio corpo attraverso l’utilizzo di pitture e monili derivati da pelli, ossa e piante. Come testimoniato da studi genetici condotti sui pidocchi rinvenuti nei tessuti ritrovati, l’uomo si veste da circa 170mila anni (WordPress, 2004). All’epoca i primi indumenti consistevano in semplici pelli drappeggiate sul corpo; successivamente l’uomo, spinto dalla necessità di adattarsi ai diversi luoghi e climi, è andato perfezionando la lavorazione delle pelli iniziando ad impiegare anche le fibre vegetali. I corpi degli uomini si coprono e così le pitture che un tempo erano dipinte sulla pelle vanno a trasporsi sui tessuti. Queste pitture dovevano comunicare e rispecchiare lo status sociale della famiglia di appartenenza. Come testimoniato dai corredi rinvenuti nelle sepolture del Paleolitico Superiore infatti i vestiti particolarmente ricchi di abbellimenti erano quelli indossati da coloro che erano percepiti come “speciali” o che ricoprivano le cariche sociali più elevate (Rieff, 2008).
Sebbene sia impossibile definire come fosse davvero organizzata una società preistorica basandosi sui dati in nostro possesso, questa sembrava più interessata allo status sociale che non alle differenze di genere. L’associazione maschio-cacciatore era predominate ma non assoluta, come testimoniato dai ritrovamenti di tombe di cacciatrici; recenti studi hanno mostrato inoltre come la presenza femminile sia stata meno silente di quanto ipotizzato per lungo tempo, complice anche una visione maschilista tipica del XIX secolo, tempo in cui nacque l’archeologia e vennero condotti molti degli scavi e dei ritrovamenti. Da uno studio condotto sulle pitture rupestri dalla paleontologa francese Marylène Patou-Mathis, risulta come le donne preistoriche fossero in realtà meno sottomesse e più inventive di quanto si sia creduto fino ad oggi. La gravidanza, momento di maggior vulnerabilità della donna, seppur fenomeno di grande venerazione, rappresentava occasione di maggior distinzione di attività tra i due sessi (Patou-Mathis, 2021). E’ pertanto più verosimile immaginare che nel paleolitico i ruoli, così come il vestiario, di uomini e donne fossero meno distinti di quanto crediamo, risultando dunque una società probabilmente più “fluida” in termini di ruolo di genere rispetto a molte altre successive (Tosatti e Grifoni Cremonesi, 2019).
È solo successivamente alla Rivoluzione Neolitica, attorno al 10mila A.C., che inizia a mostrarsi più marcatamente una distinzione nei ruoli tra maschi e femmine, riflessa anche da cambiamenti nell’abbigliamento.
In questo momento storico, con l’allevamento e la coltivazione e conseguentemente la successiva graduale sedentarizzazione, le società divengono più complesse, necessitando dunque di un sempre maggior coordinamento interno. Questo porta allo sviluppo di èlite preposte al controllo e al comando, le quali vanno distinguendosi rispetto al resto della società anche nell’abbigliamento. Sono società in cui la forza fisica è ancora rilevante, richiedendo abilità fisiche la maggior parte dei lavori, lavori nei quali, sebbene svolti anche dalle donne, risulta evidente la maggior forza fisica dell’uomo. Tale forza viene associata al potere e dunque le posizioni di comando vengono soprattutto ricoperte da uomini. L’abbigliamento va così caratterizzandosi maggiormente non solo in base allo status sociale ma anche al ruolo di genere (ibidem).
Facendo un balzo all’Età del Rame (6000 – 3000 A.C.), presso Egizi, Sumeri e Babilonesi, seppur con notevoli distinzioni tra i vari popoli, la figura femminile appare sempre più esclusa dalle posizioni di potere, sebbene la discriminante sociale maggiore continui ad essere rappresentata dallo status e non dal genere (WordPress, 2005).
Col passare del tempo presso le civiltà mesopotamiche, le differenze tra i generi nell’abbigliamento divengono evidenti, più negli accessori che nel vestiario, con elementi tipicamente maschili quali pugnali, copricapi e barbe lunghe, e altri quali collari, fasce e velo per la donna (Tonietti, 2006).
Inizia a delinearsi una cultura maggiormente patriarcale.
Le società occidentali che si sviluppano nei secoli successivi ereditano questa struttura patriarcale, contribuendo ad accrescere nel tempo le distinzioni di ruolo e di costume tra i due sessi.
Presso le grandi civiltà classiche greca e romana, le distinzioni di genere e ruolo risultano ormai ben marcate a livello sociale, così come la subordinazione della figura femminile, il cui ruolo principale era quello di custode della casa, genitrice e allevatrice di prole. Nell’abbigliamento, la distinzione di genere non è tuttavia ancora così marcata, consistendo in una sorta di tunica sia l’abito maschile che quello femminile, seppur con talune differenze – il Himation, esclusivamente maschile, e il Peplo, indossato dalle donne.
La moda nell’epoca romana viene fortemente influenzata dall’estetica dell’antica Grecia, dove il culto del bello era centrale.
In quest’epoca, bello e sontuoso sono associati; tanto che l’abbigliamento diviene elemento di competizione tra le famiglie più agiate, arrivando persino la Repubblica ad emanare delle leggi (le Leggi Suntuarie) che limitassero l’ostentazione della ricchezza. Ancora dunque la moda viene impiegata più per comunicare il proprio status sociale che non il genere.
Successivamente, con l’avvento del Cristianesimo, il costume cittadino viene fortemente influenzato dalla religione, imponendo un dress code improntato alla modestia e umiltà, non solo nella semplicità della forma ma anche nell’utilizzo di stoffe e colori sobri (Montanari, 2012). Tuttavia, nonostante la rivoluzionaria uguaglianza proclamata dal Cristianesimo, l’influenza dei sistemi patriarcali e la subordinazione della figura femminile a quella maschile permangono e, anzi, si vanno rafforzando. Unitamente a questo, il diffuso fenomeno di ruralizzazione e di impoverimento materiale susseguito alla fine dell’Impero Romano d’Occidente, fa perdere importanza al vestiario.
A partire dall’anno Mille, con la rinascita e l’espansione delle città, torna ad essere importante comunicare con maggior chiarezza il proprio status socioeconomico, divenendo così l’abito il primo mezzo per evidenziare immediatamente il proprio ceto di appartenenza (Gentile, UniTre). Ma è dalla fine del Duecento che iniziano a farsi più nette le differenze di outfit tra i sessi. L’abbigliamento femminile si arricchisce, diventando elaborato e voluminoso, spesso con strascichi e sempre meno pratico da indossare e portare. La donna infatti va ricoprendo un ruolo sempre più passivo nella società, quale strumento all’interno delle politiche matrimoniali nelle famiglie borghesi.
Con l’inizio dell’Età Moderna la moda diventa un fenomeno sempre più internazionale, con le Corti europee di volta in volta più influenti a influenzarne i canoni. Gli abiti femminili divengono ancora più ingombranti e di difficile portamento, confinando la donna a un ruolo sempre più passivo; essa doveva essere bella da guardare ma non doveva occuparsi di granché. Questo periodo storico afferma una netta distinzione di stile tra uomini e donne, arrivando persino a vietare a queste ultime di indossare abiti definiti maschili, come il mutandone. Una legge di Ferrara permetteva addirittura agli uomini di infilare una mano sotto la gonna delle donne per accertare la presenza di questo indumento e, conseguentemente, denunciarle.
Nel XVII e XVIII secolo con lo stile Barocco e poi Rococò l’abito raggiunge ogni tipo di esagerazione. Alla corte di Versailles di Luigi XIV, <<La moda [è] una necessità, […] cosicché un uomo di qualsiasi posizione [è] ora stimato esclusivamente in base a quanto spende per la tavola e per altri lussi>> (De Rouvroy Saint-Simon, 1918).
Sia il costume maschile che quello femminile risultano pomposi e ingessati; ma è soprattutto l’abbigliamento femminile a risultare scomodo, al limite dell’immobilità. La scomodità è dunque ora più che mai simbolo dell’appartenenza all’élite. Come sostiene la storica della moda Valerie Steele in “The corset: a cultural history”, nell’alta società venivano volutamente valorizzate la rigidità e il controllo in contrapposizione ai modi tipici delle classi lavoratrici, più libere nei costumi e dal corpo piegato dal lavoro nei campi (Lifegate, 2023).
La Rivoluzione francese, con il suo rifiuto di tutto quanto fosse rappresentazione dell’Ancièn Regime, rappresenta un punto di svolta anche nell’abbigliamento di uomini, ma soprattutto donne, liberandone i corpi. Corsetti e crinoline vengono sostituiti da abiti morbidi e leggeri che lasciano intravedere la naturale linea del corpo. Si vogliono esprimere la serietà del mondo del lavoro, la praticità, la prudenza, il risparmio, l’ordine, tutti ideali saldamente ancorati al mondo borghese trionfatore della Rivoluzione (MIA, 2022).
A seguito della Restaurazione e durante tutta l’Età Vittoriana, il costume femminile viene nuovamente ingabbiato in sottogonne e bustini. Tuttavia, l’esperienza attiva delle donne nei grandi moti rivoluzionari precedenti e poi nell’800, unitamente alla crescente mobilitazione culturale per l’emancipazione femminile, danno impulso oltre che alla rivendicazione dei diritti anche alla liberazione del corpo femminile dalle costrizioni (Treccani, 2014).
Gli effetti economici dovuti alla seconda rivoluzione industriale e all’espansione coloniale europea alla fine del XIX secolo, portano ad un notevole abbassamento dei costi facendo crescere i consumi di vestiario, più largamente accessibile a tutte le classi sociali, accelerando dunque anche la circolazione delle idee e della Moda come fenomeno culturale.
Con la nascita dell’Alta Moda sul finire dell’800 si apre quello che è comunemente chiamato dagli storici il Secolo della Moda: la moda diviene sempre più oggetto del consumo di massa all’interno dei primi grandi magazzini.
Se la base culturale sulla quale la moda di inizio ‘900 si fonda è ancora quella borghese, caratterizzata dalla netta separazione tra i sessi quale riflesso dell’organizzazione sociale ed economica del secolo precedente, nel corso del secolo si assiste a un graduale assottigliamento delle distinzioni tra costume maschile e femminile, quale riflesso di uno dei cambiamenti più netti e profondi della Storia: il processo di emancipazione femminile.
Gli effetti sulla società degli eventi della prima metà del secolo, come la Rivoluzione russa, i conflitti mondiali, le lotte di classe, si riflettono soprattutto sul costume femminile. La partecipazione sociale attiva della donna durante i conflitti, che per sopperire alla carenza di uomini entra nelle fabbriche e in luoghi di lavoro fino ad allora tipicamente maschili, fa sì che alcuni capi di abbigliamento, come i pantaloni, inizino a perdere lo status di esclusiva maschile.
Nella prima metà del secolo l’abbigliamento femminile inizia così ad oscillare tra androginia e iperfemminilità, tra la maschietta degli anni Venti e il New Look squisitamente femminile degli anni Cinquanta.
Con il boom economico del dopoguerra, la maggior disponibilità di denaro e di tempo libero da dedicare a divertimento e sport, fanno compiere alla Moda dell’Occidente liberale un ulteriore passaggio fondamentale: <<Da dispositivo classificatorio e di distinzione, la moda tende ad assumere […] grazie allo sviluppo del prêt à porter e dello sportswear caratteristiche prevalentemente comunicative ed espressive>> (Treccani, 2014).
La Moda inizia a trarre sempre più ispirazione dal basso, dal mondo giovanile e dalle sue idee rivoluzionarie, dagli stili della strada, dalle arti, come musica e cinema. Parallelamente si va verso una maggior semplificazione dell’abito, segno di una ricerca di informalità e parità, con conseguente minore distinzione tra maschile e femminile.
È col pensiero postmoderno che iniziano a porsi le basi del concetto di fluidità. Bisogna tuttavia attendere ancora qualche decennio prima che maschile e femminile smettano di essere categorie precise e separate. Approdano infatti capi di abbigliamento unisex, che non vanno confusi con quelli gender fluid. Nel concetto di unisex vi è ancora implicita l’idea di una binarietà che consente tuttavia l’utilizzo indistinto per uomini e donne di abiti un tempo definiti esclusivamente femminili o maschili.
Il pensiero postmoderno che caratterizza la seconda metà del secolo scorso è brulicante di ideologie nuove e spesso anticonformiste, dall’autodeterminismo, al relativismo epistemologico e morale, al pluralismo, a un atteggiamento irriverente che vuole mettere in discussione ogni sistema, soprattutto a partire dalla rivoluzione giovanile degli anni ’60 e ’70. E la moda si fa traduttrice di questi conflitti individuali e sociali, in un insieme eterogeneo di stili e tendenze spesso liberamente assemblate (ibidem). Così <<La moda entra come aiutante nella definizione del senso del discorso, proponendosi come mezzo per la costruzione e decostruzione dei soggetti che ne negoziano il senso>> (Chiais, 2015).
La moda si consacra allora quale pratica culturale simbolica di grande potenza nel tradurre, veicolare e talvolta anticipare i processi sociali, all’interno della società del consumo di massa. Coinvolge tutti ed è sempre più pervasiva e persuasiva, grazie all’apporto tecnologico dei mass media e di internet.
E così con il nuovo millennio in essa si esprimono gli ultimi processi sociali in atto, quali ad esempio le rivendicazioni del movimento LGBTQIA+, le battaglie ecologiste e animaliste, la liberazione sessuale e la lotta per la definitiva parificazione di genere, sempre nel modo ambivalente tipico della Moda, da un lato conservando pratiche socialmente desuete, e dall’altro promuovendo cambiamenti non ancora esplicitati, comunque sempre mossa anche dalle logiche di mercato della società capitalista.
La tendenza ultima della moda è quella della fluidità, non più alla ricerca di una parificazione di genere attraverso la ridefinizione dei capi d’abbigliamento maschili e femminili come accaduto nel corso del secolo scorso, bensì promuovendo una neutralità, un’indefinizione di queste categorie.
“La moda dovrebbe essere senza genere”, aveva dichiarato Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, che nel 2015 aveva debuttato con una collezione pensata per entrambi i generi (fashion.thewom, 2022).
In quest’ultimo decennio, sono molteplici le aperture dell’alta moda e di personaggi del mondo dello spettacolo verso la promozione di una moda fluida, facendosi portatori di un chiaro messaggio sociale. <<Confezionare un abito da sera con tanto di strascico e cristalli ricamati per Jared Leto in occasione del Met Gala del 2019 è stato a tutti gli effetti un atto politico. Gli esempi ultimamente poi sono moltissimi: Brad Pitt con un completo composto da giacca e gonna di lino sul red carpet berlinese del film Bullet Train e Timothée Chalamet alla Mostra del Cinema di Venezia con una jumpsuit rosso fuoco disegnata per lui da Haider Ackermann con scollo all’americana e schiena totalmente scoperta. Per non parlare dei concerti di Harry Styles>> (Lifegate, 2023). Più vicino a noi, basti pensare alla performance musicale del cantante Blanco all’ultimo Festival di Sanremo, esibitosi con un abbigliamento dichiaratamente genderless, con camicia di pizzo di Valentino, boxer bianchi di Calvin Klein e un corsetto di Dolce&Gabbana.
Quello a cui stiamo assistendo però non rimane confinato sui red carpet o sulle passerelle delle fashion week; l’abbattimento delle barriere di genere nella moda sta a tutti gli effetti orientando i consumi di tutti, in particolare delle nuove generazioni. Nel 2016 è arrivata infatti la prima risposta del fast fashion, con la linea Ungendered di Zara, e nel 2017 è toccato a H&M con una collezione denim ad hoc. La piattaforma globale di shopping online Lyst ha inoltre rilevato che le ricerche di capi che includono parole chiave agender sono aumentate del 33% nel 2023 rispetto all’anno precedente (ibidem).
Da quanto messo in evidenza dalla breve analisi storica proposta, la moda è dunque espressione della cultura. Essa è una vetrina che mette in mostra la società in cui prende forma e che rappresenta e gli uomini che la compongono.
La moda occidentale attuale non parla più soltanto di spezzare le regole, i conformismi, per creare nuovi orizzonti; la nostra moda parla di annullare ogni categoria, di perseguire la neutralità.
Se è vero che non esiste identità senza cultura, una società all’interno della quale la cultura è caratterizzata da indefinizione rischia forse allora di non dare all’individuo una base d’appoggio sufficientemente strutturata e stabile sopra la quale edificarsi. La società attuale tende infatti ad annullare le differenze anziché riconoscerle e definirle e non propone all’individuo dei riferimenti esterni coi quali misurarsi, lasciando così al singolo l’arduo compito di costruire in solitaria la propria identità.
In questi anni si parla molto di identità, in termini spesso di autocostruzione, sulla scia di un estremo autodeterminismo; pare divenuta <<L’ossessione del momento. […] Ci si potrebbe chiedere se questa ossessione non sia semplicemente un altro di quei casi che seguono la regola generale secondo la quale le cose si scoprono soltanto ex post facto, quando svaniscono, falliscono o cadono a pezzi>> (Bauman, 2014).
Con questo interrogativo retorico Zygmunt Bauman in una delle sue ultime pubblicazioni, La società dell’incertezza (ibidem), propone una profonda e significativa analisi circa questa possibile connessione tra incertezza culturale e identitaria.
Il sociologo impiega la metafora del passaggio da pellegrino, l’uomo moderno, a flaneur, turista, vagabondo o giocatore, l’individuo attuale, postmoderno, ponendo in particolare l’accento sul cambiamento circa le modalità di costruzione della propria identità. Edificare quest’ultima per l’uomo moderno significava “ritirarsi nel deserto”, lontani dalle distrazioni, dalle cose “preconfezionate”, scoprirsi, inventarsi. Certo, il rischio poteva essere quello che si camminasse, e anche parecchio, senza però sapersi dire che strada si fosse percorsa; come nota Bauman infatti nel deserto basta un colpo di vento e le orme appena prodotte si cancellano. Tuttavia vi era il tentativo di costruire qualcosa di stabile e definito, ma al contempo unico e squisitamente personale. Inoltre la città, la propria o un’altra a cui approdare, era sempre alle spalle del pellegrino, per quanto lontana giorni o più di cammino.
Secondo il sociologo, l’uomo postmoderno sarebbe impegnato in un compito differente. <<Come il pellegrino era la metafora più adatta per la strategia della vita moderna, preoccupato dal compito inquietante di costruire un’identità, il flaneur, il vagabondo, il turista e il giocatore, offrono la metafora della strategia postmoderna generata dall’orrore di essere legati e fissati>>. Bauman descrive nel dettaglio le diverse strategie di vita di queste quattro tipologie di uomini postmoderni e vi sono senz’altro differenze di rilievo. Tuttavia: (essi) <<Hanno in comune la tendenza a rendere i rapporti umani frammentari e discontinui, […] promuovono una distanza tra l’individuo e l’Altro e considerano l’Altro come oggetto di valutazione estetica, non morale, […] di responsabilità>>, in incontri superficiali, di passaggio. E anche l’incontro con se stesso ha le medesime caratteristiche.
Il deserto, per quanto instabile e inospitale, è un terreno, una base d’appoggio. Il pellegrino si sradica dalla sua terra per cercare e trovare se stesso altrove, ma non si stacca davvero da tutto. Peregrinare significa “sradicarsi”, come annota Bauman; ma sradicamento implica radici, che vengono levate da quel tal terreno, ma che ci sono. Molto diversa è la condizione dell’uomo postmoderno caratterizzata dalla fluttuazione. Per quanto il pellegrino si allontanasse dalla polis per scoprire se stesso, vi era mantenuto <<Un legame stretto e irrevocabile tra il progetto dell’ordine sociale e il progetto di vita individuale; quest’ultimo era impensabile senza il primo. Senza gli sforzi collettivi di assicurare scenari affidabili che garantissero sicurezza e stabilità alle azioni e alle scelte individuali, la costruzione di un’identità chiara e durevole e la possibilità di vivere la propria esistenza in quella identità sarebbe stata del tutto impossibile. […] I progetti di vita individuali [dell’uomo postmoderno] non trovano un terreno stabile a cui ancorarsi e i tentativi di costruzione dell’identità personale non possono modificare le conseguenze dello sradicamento e arrestare la fluttuazione e la deriva del sé>>. Tali tentativi, seppur talora si rilevino in alcune ricerche delle proprie radici e tradizioni, oggi molto in voga, hanno comunque:<<Un carattere ipotetico e poco definito [in quanto] sostenuto dalla discontinuità delle energie emotive>>. Ecco allora che si delinea un altro tipo di incertezza, <<Non più limitata alla sorte o alle attitudini personali del singolo [all’interno di un sistema con delle regole sociali definite]: L’incertezza non è più vista come un semplice fastidio temporaneo […] ma come qualcosa di permanente e irresolubile>>.
E guardando ai grandi cambiamenti stilistici nel mondo della moda notiamo enormi svolte culturali. Come abbiamo visto, sono innumerevoli le conquiste e i progressi sociali che abbiamo raggiunto; tante battaglie relativamente ai diritti e alla parità, di genere e non solo, sono state vinte. E la moda è sempre stata specchio di queste evoluzioni. Dai completi giacca e pantalone esclusivamente maschili indossati anche dalle donne proposti da Chanel e altri stilisti; alla minigonna che libera le gambe e la sensualità; al mix di vari stili che un tempo sarebbero stati visti come accostamenti di “cattivo gusto”.
L’emancipazione femminile e l’uguaglianza valoriale tra uomini e donne sono stati frutti di inestimabile valore per la crescita dell’umanità e la moda ha mostrato questi frutti e talora ha concorso alla loro maturazione. E continua a farlo. Abbiamo visto come molti stilisti e personaggi dello spettacolo si sono fatti portavoce di un cambiamento sociale che puntasse ad eliminare le categorie di genere e ottenere la neutralità.
La moda gender fluid che si è proposta e sta prendendo sempre più piede si è oggi fatta evoluzione estrema di un pensiero di uguaglianza e libertà, smettendo di confinare in strette categorie certi capi o accessori. Così come le donne nel corso del secolo scorso hanno ottenuto sempre più di poter indossare capi un tempo riservati ai soli uomini, questi possono oggi portare con disinvoltura gonne, pizzi e trasparenze, oltre che accessori quali borsette e gioielli.
Questa fluidità è giunta oggi alla neutralità, all’indifferenziazione.
Anche la moda parla di fluttuazione.
Per dirla con le parole di Bauman: <<L’industria dell’immagine comunica l’essenza indeterminata e leggera del mondo. […] Del resto, non si sa nulla con certezza e ogni aspetto dello scibile si può conoscere in modi differenti: tutte le modalità di conoscenza sono comunque provvisorie e precarie e ognuna vale l’altra. […] Poche cose possono essere considerate solide e affidabili: non c’è più traccia degli antichi e robusti canovacci su cui tessere la trama del proprio itinerario esistenziale>>.
Un conto allora è mettere in discussione un modello, scegliere il proprio sistema valoriale andando persino all’opposto rispetto a quello proposto, plasmare l’argilla di cui disponiamo; un altro è partire dall’assenza di un materiale, autogenerandolo. Spiega infatti Bauman: <<L’incertezza ora dev’essere vinta con i propri mezzi. [In questo] processo di autoformazione [non si esperisce più] l’inadeguatezza “vecchio stile”, misurata da lontano in base a un criterio definito e immutabile a cui ci si deve bene o male uniformare. […] L’inadeguatezza postmoderna rimanda all’incapacità di acquisire la forma e l’immagine desiderate, qualunque esse siano; alla difficoltà di rimanere sempre in movimento e di doversi fermare al momento della scelta; di essere flessibili e fluidi, pronti ad assumere modelli differenti, di essere allo stesso tempo argilla plasmabile e abile scultore>>.
Non è questa la sede per aprire anche ad altri ambiti d’indagine, ma interessante è l’analisi proposta dalla psicoanalista Lemma (2016) a proposito delle persone transgender circa l’“autogeneratività”. <<Le persone possono manipolare l’aspetto del proprio corpo in modi più o meno drammatici e persino cambiare il proprio aspetto oltre il riconoscimento, ma non potranno mai cancellare l’impronta dell’Altro sul corpo. […] Le persone devono accettare di non poter partorire se stesse>>. La stessa autrice ha largamente approfondito anche altre forme di manipolazione corporea (piercing, tatuaggi, chirurgia estetica), rilevando come, tra le varie “fantasie” che spingerebbero il soggetto a ricorrere a queste, vi sia quella di “autocreazione” (2011).
Il compito di autoformazione/autocreazione rivestendo doppio ruolo di argilla-scultore è molto faticoso e persino pericoloso.
Secondo Bauman (2014), questa condizione metterebbe infatti l’uomo in una “posizione schizofrenica”. Egli infatti sarebbe costretto: <<Ad essere dentro e fuori se stesso allo stesso tempo. La capacità di distanziarsi da sé è il requisito indispensabile per essere pienamente se stessi. Il mutamento da una forma di sorveglianza e di istruzione [un tempo] socialmente impartita all’autocontrollo e all’autoistruzione, cancella la distinzione tra soggetto e oggetto, tra attore e oggetto dell’azione; cancella persino la distinzione tra agire e subire, tra l’azione e i suoi prodotti. [Quello che un tempo era] una contraddizione ora diventa aporia, […] un’ambivalenza irresolubile>>. Così questa ambivalenza incastrerebbe l’uomo postmoderno tra la fobia del mutevole e la fobia del definitivo: egli oscillerebbe: <<Tra la paura di non giungere mai alla mèta più elevata, [mèta per altro impossibile da definire, non essendoci una norma, un confine, un metro di confronto esterno bensì il solo proprio “sentire”], e la paura di riuscire a raggiungerla. […] La paura del mutevole e la paura del definitivo si nutrono e sostengono a vicenda>> (ibidem), in un eterno mai giungere a una definizione e un equilibrio di sé.
Alla luce di queste osservazioni, il disagio e talora la paura di definizioni e categorie, per quanto sanamente rivisitate a fronte di cambiamenti sociali e individuali, è allora in diretta correlazione con instabilità e incertezza identitarie. Difatti, laddove l’individuo si edifica e cresce su una base d’appoggio sufficientemente stabile, non si sentirà stretto o addirittura imprigionato in queste categorie. Egli arriverà a: <<A incarnarsi nell’irripetibile unicità della [sua] specifica “traduzione” personale, non percependo le categorie femminile e maschile come soffocanti e senza possibilità di movimento al loro interno, ma riuscendo anzi ad assumere caratteristiche dell’uno e dell’altro genere; non eliminandone le differenze, ma anzi riconoscendole e sviluppandole nel proprio sé. [Non riuscire in questa integrazione unica] rimanda al problema dell’individuazione e, in senso più specifico, al problema dell’elaborazione dell’identità>> (Mariotti, 2003).
Riguardo alla pratica clinica, non è inusuale rilevare nei pazienti in psicoterapia dei cambiamenti di stile nell’abbigliamento, parallelamente al cambiamento di parti di sé più “profonde”. Del resto, in questi percorsi si va anche a toccare la struttura identitaria e, in certi casi, a costruirla in buona parte.
Secondo alcuni studiosi, dall’osservazione dell’abbigliamento di una persona si possono persino dedurre alcuni aspetti patologici della personalità. Sacchi e Balconi (2013) hanno rilevato quattro tipologie di persone sulla base del loro rapporto “patologico” con la moda: i “modadepressi”, persone molto ritirate socialmente che non hanno interesse per la cura del proprio aspetto, conferendo all’abito l’esclusivo compito di copertura del corpo, senza perseguire alcuno stile; i “modasensibili”, così spaventati dal giudizio dell’altro da opporre una vera e propria resistenza al concetto di moda, fino a trasformare il loro abbigliamento in un’anonima uniforme; i “modanevrotici”: <<Persone fantasiose, troppo fantasiose, […] individui che non hanno un confine ben chiaro in merito alle scelte stilistiche>> e che investono esclusivamente sull’aspetto esteriore; infine i “modaschizzati” ovvero “gli incoerenti incalliti>>, il cui abbigliamento è un collage indistinto di stili.
L’abbigliamento parla di identità. Così come il rapporto con le categorie femminile e maschile, esprimibile anche nella scelta del proprio outfit, parla di identità.
Da una moda dicotomica che gradatamente ha ammorbidito i confini di stile di genere si è approdati a una moda che vuole annullare le categorie, considerate soffocanti, specchio di quanto accade nella società e nell’individuo, proiezione di un’instabilità identitaria propria di un uomo che vaga in cerca di uno “stile” unico, ma nel quale al contempo teme di fermarsi, riconoscersi e definirsi.
Largamente impiegata dai promotori della moda gender fluid è la famosa frase di Giorgio Armani: <<Ho dato all’uomo la scioltezza e la morbidezza della donna e alla donna l’eleganza e il comfort dell’uomo>>, considerandolo uno dei pionieri di questa rivoluzione di pensiero nella moda. Ma davvero lo stilista sta parlando di neutralità di genere e di annullamento di categorie? O sta forse dicendo che le categorie non devono essere rigide ed esclusive bensì aprirsi a una ricerca squisitamente personale di stile, mantenendo tuttavia il “femminile” e il “maschile” non come categorie soffocanti ma anzi un sistema di riferimento con il quale confrontarsi? Lo stesso stilista ci ricorda infatti che: <<La moda è quella che viene suggerita è che spesso conviene evitare>>.
<<Lo stile è ciò che ciascuno ha e che deve conservare per tutta la vita>> (MAG, 2024).
Ora siamo completamente liberi di creare il nostro “stile”, che si parli di abito o d’identità.
Può allora risultare non scontata la domanda iniziale: fluidità è libertà?
Ci siamo finalmente liberati di tante restrizioni, limiti, ottusità di pensiero e ottenuto grandi conquiste sociali. Abbiamo rivisitato alcune tradizioni per abbracciarne di nuove e accoglierle in una ricca e poliedrica “famiglia”. Abbiamo messo in discussione le rigide e sterili dicotomie del passato che, come corsetti e guardinfanti, ci ingabbiavano e non ci consentivano di crescere ed esprimerci come individui nelle società.
Tuttavia ci siamo dimenticati che per costruire qualcosa di stabile serve un terreno su cui poggiare, che per stare in piedi servono delle radici; serve lavorare da “artigiano” nel plasmare se stesso, ma non ambire ad essere creatore della materia; serve percorrere una strada, per quanto insolita o mai battuta, e non vagare e fluttuare nell’aria.
La libertà che allora forse crediamo di aver finalmente raggiunto potrebbe essere un’illusione. Questa è la libertà che abbiamo conquistato, costruire da zero noi stessi. Per dirla con le parole di Maurice Blanchot: <<Ora siamo tutti liberi ma ognuno è libero nella propria prigione, la prigione che si è costruito liberamente>> (Bauman, 2014).
Per essere liberi allora forse non bisogna essere soli nell’esplorazione e nella costruzione di se stessi. Ognuno di noi necessita di scoprirsi e riscoprirsi facendo un viaggio introspettivo dentro di sè. Tuttavia affinché questo viaggio abbia un senso, bisogna incontrare altri pellegrini con cui confrontarsi, altre città, nuove o conosciute che siano, in cui fermarsi e mettere radici, senza scordare mai da dove si è partiti.
BIBLIOGRAFIA
Bauman Z., (2014), La società dell’incertezza. Trad. Marchisio R. e Neirotti S.L.. Il Mulino, Bologna.
Breward C., 2000, In the eye of the storm: Oxford circus and the fashioning of modernity, “Fashion Theory”. March 2000.
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* Crespi Giovanni, specialista in Economia, Laureando in Scienze Storiche, appassionato di Ricerca e Rievocazione storica.
* Facoetti Jessica, membro della redazione di Varchi