Eterna domenica

Valentina Trinchero

Avrei dovuto annotarmi, giorno dopo giorno, un evento anche di basso rilievo o la più piccola e passeggera sensazione, oppure avrei potuto tenere una sorta di diario di bordo, come hanno fatto in molti durante i due mesi di quarantena e isolamento, ma, quelle poche volte che ho provato, le dita non avevano avuto nessuna intenzione di battere lettere sulla tastiera del computer. Il momento era storico e di grandezza epocale: non avrei potuto dimenticare quanto accaduto nel lungo periodo di lockdown e, di sicuro, sarei riuscita a ricordare e rivivere in modo abbastanza nitido gli stati d’animo di quei giorni memorabili. Invece, a distanza di circa un mese dalla fine dell’isolamento obbligato, guardarmi indietro, rituffarmi e tornare con il pensiero ai mesi di marzo ed aprile sembra quasi impossibile.

La “pandemia degli anni venti”, o “l’anno del Covid”: chissà, forse la definirò così tra qualche decennio, quando le nuove e future generazioni mi chiederanno se mi ero ammalata di Coronavirus o quando mi faranno altre domande su questo periodo. E io, cosa racconterò loro? Magari inizierò dicendo che, per lo meno nel corso della cosiddetta “prima ondata”, io mi sono trovata all’interno di quella moltitudine di persone a cui il governo italiano aveva chiesto un unico piccolo grande sforzo per cercare di salvare quante più vite possibili, per evitare che gli ospedali si intasassero e si creasse un tracollo del sistema sanitario nazionale; il governo ci aveva chiesto un misero sforzo per aiutare i medici e gli infermieri impegnati giorno e notte a curare i malati. Insieme a milioni di italiani e, a seguire, anche popolazioni di molti altri Paesi del mondo, io avevo l’obbligo di restare a casa e la libertà di uscire solo per andare a comprare beni di prima necessità, indossando mascherina e munendomi di autocertificazione se mi spostavo dal mio quartiere per altri due o tre limitati motivi.

La sera dell’11 marzo 2020, su tutti i telegiornali dell’edizione delle 20, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte parla alla nazione e per i primi venti minuti il mio cellulare è muto, le mie orecchie tutte tese ad ascoltare quali limiti ci verranno imposti ed assale l’incredulità. L’ora successiva è dettata da una sensazione di forte adrenalina e i messaggi e le telefonate continui con parenti e amici fanno da padroni. «Quindi non posso nemmeno venire a trovare voi che siete miei familiari?», chiedo ai miei genitori e a mia sorella durante il corso di una telefonata familiare. Nella chat delle mie amiche storiche, tra il serio e il faceto, si discute e si battibecca sulle restrizioni imposte.

A gennaio, due mesi prima dell’inizio del lockdown italiano, le immagini delle città cinesi svuotate facevano impressione, sembravano scene tratte da un film di fantascienza e, come a volersi difendere dalla più remota possibilità che potesse accadere anche a noi, si vociferava che i cinesi erano dei “pazzi”, che solo in un Paese come il loro possono essere così duramente limitate le libertà personali del singolo, che solo i cinesi possono rispettare il coprifuoco ed accettare di venire separati dai propri parenti e da tutti coloro che non vivono sotto lo stesso tetto. Ancora impresse nella mia memoria sono le immagini delle strade deserte della provincia cinese di Wuhan, un ponte che divide il centro del focolaio dal resto del Paese e una madre che su quello stesso ponte transennato e presidiato, invano, chiede disperatamente ai militari di potersi ricongiungere alla figlia poco più che bambina. Ad inizio febbraio, quelle scene cinematografiche continuavano ad essere quasi oggetto di scherno. Erano molti a credere che in Italia il virus non sarebbe arrivato, e anche se fosse arrivato non si sarebbero limitati i diritti e le libertà fondamentali degli individui in maniera così rigida e perentoria; in Cina sì, ma la Cina è un mondo a parte rispetto a quello occidentale che noi conosciamo.

Molto presto, invece, già dalla mattina successiva del 12 marzo, il giovedì appariva come una domenica. I numerosi giorni a seguire, sessantanove per l’esattezza, sarebbero stati, almeno in apparenza, un’eterna domenica. Quanto accadeva in strada, i suoni e gli odori provenienti dall’esterno delle proprie mura domestiche, in molti momenti, narravano ciò che le parole non riuscivano invece a raccontare. L’inizio della primavera alle porte e l’aria frizzante alle prime luci del mattino, avevano un sapore differente rispetto ad ogni altra primavera passata. Forse perché non si poteva gustarli se non dalle proprie finestre o durante il breve tragitto per andare a fare la spesa, o forse perché l’aria iniziava ad essere sempre più disintossicata dal diminuire della circolazione di veicoli e dal conseguente smog che questi emettono; l’aria sapeva di buono, di fresco e pulito. Anche il silenzio non era pari a nessuno di quelli uditi in città fino a quei giorni. Era un silenzio che esisteva quando non avrebbe dovuto esistere, un silenzio fuori luogo e fuori tempo. Era un silenzio surreale, a tratti tetro, rotto dalle sirene delle ambulanze che correvano sull’asfalto. Oppure il silenzio era interrotto dai moltissimi vicini, anch’essi con l’obbligo di rimanere a casa. Mentre il lievito finiva tra gli scaffali di tutti i supermercati e diveniva merce rara, c’era chi comprendeva la riscoperta del tempo trascorso in famiglia e del pane fatto in casa; invece, chi come me continuava a stare comunque lontana dai fornelli nonostante il tanto tempo a disposizione, ogni volta si stupiva di sentire per le scale l’odore del ragù o di una torta, qualsiasi giorno e qualsiasi ora fosse.

Provai sensazioni difficili e contrastanti che, ad oggi, ad emergenza superata, non sono facili da recuperare, pur essendo passato poco tempo. Ricordo emozioni ballerine, la sensazione che esse si trovassero sulle montagne russe, con un umore che cambiava spesso durante il corso di una stessa giornata. Il trascorrere del tempo non era più dettato da quegli impegni e da quelle tappe che scandiscono la giornata: dal vestirsi per uscire e prendere l’autobus per recarsi al lavoro al fare colazione con la collega e incontrare anche chi si farebbe volentieri a meno di incontrare. Capitava così che alcune notti si dormiva bene, altre si faticava a prendere sonno e ci si svegliava stanchi come la sera prima. C’era il dolore nei numeri dei decessi in continuo aumento, c’era la malinconia data dal non poter vedere ed incontrare le persone care, c’era la solitudine. Per contro, c’era un forte senso di umanità e di fratellanza, quei sentimenti che l’uomo sembra riscoprire ogni volta che viene messo a dura prova dalla natura. E proprio di fronte ad un’emergenza sanitaria e ad un distacco umano mai provato da generazioni, si raccontava che nessuno sarebbe uscito uguale a prima dal lockdown. Allo stesso modo, predominava la solidarietà, che pareva diventare sinonimo di responsabilità. La responsabilità nasceva non solo dall’obbligo imposto di rimanere chiusi in casa e dal non mettere in pericolo la propria salute e quella degli altri, ma era anche una forma di responsabilità quella di mantenere i nervi saldi, di non destare preoccupazioni inutili e di trasmettersi forza reciprocamente; non era il tempo del lamento. Chi stava in casa, chi non aveva problemi di salute, chi ancora aveva mantenuto il proprio lavoro e le proprie sicurezze fondamentali, aveva non solo l’obbligo di restare a casa, ma anche quello di restare in silenzio; un silenzio adeguato alla circostanza, un silenzio rispettoso e virtuoso. A fine emergenza, ognuno avrebbe fatto i conti con se stesso; chi aveva il dovere e chi si trovava nella posizione istituzionale per farlo, avrebbe fatto i conti su ciò che aveva e non aveva funzionato. Ma, almeno nelle prime settimane di chiusura totale del Paese, nella prima fase di totale isolamento, in quella che metteva più alla prova, ogni persona era responsabile di rimanere in una forma di silenzio rispettoso verso coloro che soffrivano e lottavano.

Mancavano piccole cose e piccoli momenti di vita quotidiana: il cappuccino e la brioche al bar prima di entrare al lavoro, il vestirsi in modo più attento e ricercato sperando di incontrare la persona con la quale ti piacerebbe uscire, sperando che si accorga di te quel giorno, il vivere e condividere insieme il periodo di gravidanza con una delle tue amiche d’infanzia, il cinema, le passeggiate, il proprio sport preferito, una cena al ristorante. Mancavano anche cose più grandi: organizzare il viaggio per raggiungere la meta di vacanza che si sogna da sempre, cambiare casa o lavoro. Non si potevano fare progetti, più piccoli o più grandi che fossero, ma si poteva solo imparare a stare nel qui ed ora, nel vivere giorno per giorno. Nel frattempo, cresceva la speranza che quell’isolamento ci avrebbe cambiati in meglio, ci avrebbe aiutato a ricordare quali sono le piccole cose che contano, le attenzioni e i riconoscimenti quotidiani che riceviamo dalle persone a noi care; allo stesso tempo, però, rimaneva il grande dubbio se davvero saremmo usciti diversi da come eravamo prima dell’isolamento e una volta che l’emergenza fosse finita. Ce lo dicevamo in modo aperto tra pochi intimi, ci chiedevamo se e in quale misura un periodo storico come quello che stavamo vivendo ci avrebbe cambiato nel modo di affrontare la quotidianità e c’erano i più scettici che si dividevano dai più speranzosi.

Come ogni maledetta domenica, il tempo del riposo e della preghiera, quel giorno della settimana di festa e di tempo libero per antonomasia, quel momento che attendi impazientemente ma che quando arriva ti incute un sentimento di malinconia, quell’eterna domenica, ripetutasi sessantanove giorni, sembrava trascinare con sé elementi contrastanti. Per coloro che erano rimasti chiusi in casa, la paura e la sofferenza del numero dei morti erano state affiancate dalla malinconia domenicale di un tempo libero e sospeso che non si sa come impegnare, un tempo che, nonostante tutto, speri di impiegare nel modo migliore e che speri aiuti a migliorarti. Ed era sull’onda di queste riflessioni che mi attraversarono soprattutto nel pieno dell’isolamento, che dedicai a pochi intimi queste parole che oggi condivido in queste righe.

Ho riscoperto la forza umana e la resistenza
Ho riscoperto la capacità di adattamento
Ho riscoperto il valore del silenzio
Ho riscoperto la fragilità umana, la solidarietà e la profondità della solitudine
Ho riscoperto quanto siamo infinitamente piccoli e di passaggio
Ho riscoperto il valore delle relazioni e della condivisione, dello stare insieme
C’era un cuore che forse conosceva, ma aveva bisogno che riprendesse ad ascoltare e sentire elementi essenziali dell’esistenza
Ho riscoperto la noia, la pesantezza e l’inutilità del lamento
Dico che o si va giù o ci si tira su, insieme
Ho riscoperto l’amore per me stessa e per gli altri, il qui e ora
Ho riscoperto ad essere un aiuto per gli altri, prima di pretenderlo io
Ho compreso che dare è il regalo più bello che mi possa fare in questo breve cammino.


Valentina Trinchero è laureata in Società e Sviluppo Locale presso l’Università di Alessandria e in Informazione ed Editoria presso l’Università di Genova.